PIETRE LEVIGATE prima parte

PIETRE LEVIGATE (prima parte)

di Paolo Rossi

L’architettura lavora per via di porre; la scultura per via di rorre.

Leonardo da Vinci

Il levigatore, nella sua opera di “rectifica”, è sia architetto che scultore: lavora sia per via di porre che per via di togliere, così il massone leviga se stesso restituendo le introiezioni (togliere) e ritirando le proiezioni (mettere).

Esposta lapidariamente la tesi, vediamo ora di chiarirla.

Spesso accade (ancorché troppo poco per la verità) che una persona non si senta “costruita” come vorrebbe. Può accadere per esempio che si sente “grezza”, o incrostata da scorie, o appesantita da “metalli”; o ancora può accadere che non si senta libera da difese limitanti o costellazioni fastidiose0 ).

In tal caso sarebbe veramente auspicabile che quella persona volesse cambiare la sua condizione psicologica, che volesse perdere (togliere) alcune delle caratteristiche apprese, per riprendere invece (mettere), o evidenziare nei loro contorni più puliti e levigati, alcune delle sue caratteristiche originarie che sente ora di poter reintegrare perché profondamente proprie e assolutamente legittime.

Quando accade che una persona riconosca i propri difetti (di abbondanza e/o di assenza) e decida di cambiare è una fortuna: per lei e per chi la circonda. In tali casi fortunati questa persona comincia a desiderare, più o meno consciamente, ma sempre di più, di operare una trasformazione in sé, di compiere un’operazione costruttiva su di sé: questa operazione sarà da effettuarsi, come dice Leonardo da Vinci, in parte per via di togliere e in parte per via di mettere.

Naturalmente la persona in questione, a meno che non sia un esperto della materia, non sa granché di queste modalità di cambiamento. Magari sente disagio, ma non sa bene di che si tratti e men che meno sa come porvi rimedio. Vediamo perciò di fissare alcuni punti elementari che possano aiutare I uomo di desiderio nella sua trasformazione.

Oggi sappiamo che è possibile la “costruzione” di una Persona, prendedo  naturalmente questo termine con le pinze e intendendo con esso la modificazione strutturale della sua esperienza. E, cosa certamente più importante, sappiamo oggi anche come si fa a mettere in opera tale modificazione.

Non abbiamo però ancora finito di compiacerci della nostra conoscenza (pur se scarsa) che già si deve prendere atto di un limite importante. Il limite è che purtroppo nessuno può fare questa operazione per un altro; non è davvero possibile a qualcuno costruire un ‘altra persona, un suo simile, l’altro da sé. E solo possibile ristrutturare se stessi. Certo è possibile che il mio inconscio ristrutturi la mia esperienza attraverso l’ascolto della voce di un altro, un terapeuta, ma l’utilizzazione della voce altrui devo farla io stesso. Del resto in un certo senso la gnosi, sul piano del metodo, non è nient’altro che questo.

Preferiamo dire ristrutturare anziché costruire perché non appare possibile per I ‘uomo costruirsi come vuole. Gli è invece possibile diventare quello che già egli è nel suo profondo; gli è possibile far emergere domani quel che oggi ancora non può emergere. Gli è possibile costruirsi come già egli è dentro la grezza forma della pietra di cava, liberandosi da ciò che opprime e imprigiona la sua forma pura, dai metalli che incrostano e appesantiscono la sua forma levigata già presente all ‘interno di lui.

Una volta affermato che è possibile per l’uomo costruirsi, diciamo anche che è possibile per un uomo conoscersi. Egli può farlo se conosce le operazioni da compiere e se può vedere le parti di sé che sposta nel costruire se stesso. L’operazione che l’uomo compie, per realizzare quel detto lapidario, e sconosciuto, che è il ben noto “conosci te stesso”, è quella di vedere, accettare, mettere o togliere pensieri e sentimenti, sensazioni e intuizioni, esprimendo ciò che fa con parole dette all ‘altro, o agli altri, di fronte a sé, vuoi che egli si trovi in uno studio di psicoterapia o in un Tempio massonico.

E’ tuttavia questa un’operazione complessa che non può essere improvvisata, né in un ambulatorio, né in un Tempio massonico. L’operazione resta sconosciuta perché troppo spesso diciamo agli altri: ‘Sii te stesso, conosci te stesso”; ma poi evitiamo accuratamente di dire loro come si fa a farlo. Questa volta ci proponiamo invece di essere espliciti e ci assumiamo la responsabilità di dire in termini tecnici, speriamo non troppo ostici (ma inevitabilmente un po’ lo saranno), in cosa consista, m teoria e in pratica, questa operazione trasformativa della levigatura.

La levigatura ha delle regole che possono essere apprese. La magia del cambiamento iniziatico ha una struttura che può essere insegnata. Ma sono regole complesse e delicate. Se non si conoscono in profondità meglio lasciare perdere l’ aspetto esoterico della levigatura, meglio lasciare che gli Apprendisti si nutrano del solo pane caldo e profumato dell’Amore e della Fratellanza che in qualche modo sconosciuto li levigherà. Vediamo allora di dare qui alcune informazioni teoriche sulla levigatura della pietra come operazione gnostica.

Le riflessioni, di cui scriviamo qui, non appartengono ad una disciplina ben precisa; si situano piuttosto in quel terreno gnostico che sta al crocevia di svariate discipline fra cui le principali appaiono essere oggi la filosofia, la psicoanalisi, la pedagogia, la PNL (programmazione-neura-linguistica Il suo utilizzo è perciò di pertinenza, più che dello specialista, dell’uomo in quanto tale, ed è a lui che sono rivolte; anche se il filosofo, l’educatore, e soprattutto lo psicoterapeuta, si troveranno più spesso  ad aver a che fare con questo tema.

Ci occuperemo principalmente di una varietà particolare, sagace e fattiva, di homo sapiens che chiameremo l’Artefice, e che altrove abbiamo chiamato Artifex o uomo che costruisce se stesso. Però, per arrivare a lui, dovremo partire dal concetto di Artificiale.

Ma chi è questo Artifex di cui stiamo parlando’?

Artifex è colui che costruisce se stesso. Artifex sono io mentre scrivo queste riflessioni: io che vado conoscendo la cosa da me scritta mentre la costruisco; Artifex siete voi mentre leggete: voi Lettori che andate conoscendo la cosa da voi letta mentre (la riscrivete e) trasformate il territorio del testo da me scritto nella vostra mappa personale. Artifex sono io mentre scrivo, io che vado conoscendo me stesso, in quanto cosa costruita, nello stesso istante in cui la costruisco; Artifex siete voi che leggete, che andate conoscendo voi stessi nella cosa letta mentre la trasformate con la vostra percezione.

L’Artifex è un Artificiale, sia in quanto oggetto che in quanto soggetto del costruire, oggetto della costruttività dell’Artifex soggetto. Nell’accingervi a leggere questo saggio cercate, Vi prego, di dimenticare ogni idea pregiudiziale che avete adesso di artificiale con la a minuscola. Il mio Artificiale ha tutt’altro significato rispetto a quello che il senso comune attribuisce all’artificiale; il termine assume qui un significato nuovo, inedito.

Fate lo sforzo di intendere, durante questa lettura, l ‘ Artificiale come voi stessi, come il Sé quindi; e fate lo sforzo di intendere il Sé come Conoscenza di sé e la Conoscenza di sé come Costruzione di sé. Perché per noi \\\\\”conoscere è costruire”. Fate infine lo sforzo di intendere l ‘ Artificiale come il Levigato.

Simili costruzioni di noi stessi siamo abituati a vederle, a livello psicologico individuale, come processi naturali che possono avvenire durante l’infanzia, l’adolescenza, o, meno spontaneamente, durante la psicoterapia; e noi massoni durante la levigatura. Conosciamo dunque tre costruzioni di sé: costruzione infantile, costruzione adolescenziale e costruzione terapeutica o massonica.

Di che costruzioni si tratta? Cercherò di essere il più semplice possibile nell ‘esposizione, ma il meccanismo è complesso e non posso essere semplice al punto di alterarlo. D’altro canto mi pare che un’operazione di levigatura si sostanzi proprio di questi meccanismi ancorché non ce ne rendiamo conto. Mi armerò dunque di squadra nella scelta dei vocaboli, mentre chiedo a voi di armarvi, ancora un po’ di pazienza.

I contenuti psichici sono frammenti autonomi di personalità che entrano (i mattoni nuovi dell’Architetto) ed escono (le schegge grezze dello Scultore) continuamente dai confini simbolici della psiche. Siamo noi a farli entrare ed uscire; lo facciamo, pur senza saperlo, per conoscerli e in tal modo conoscerci. Insomma conosciamo i nostri contenuti, e 1 nostri contorni, attraverso una serie di spostamenti di rappresentazioni psichiche, da dentro a fuori e da fuori a dentro.

Vediamo di illustrare alcuni di questi movimenti che di solito l’uomo mette in moto non solo per difendersi dall’ansia, ma anche, senza saperlo, per conoscere, per crescere. Diciamo spesso che si deve restituire all’altro ciò che di suo sta dentro di noi (l ‘opinione che abbiamo di noi) e riprenderci dall’altro ciò che di nostro sta dentro di lui (i nostri difetti). Queste operazioni possiamo chiamarle “rifiuto delle introiezioni” e “ritiro delle proiezioni”. La frase è un po’ complicata, ma le due operazioni sono semplici.

Di che si tratta? Vediamo di spiegarle un po semplificando al massimo questi concetti.

Proiettare è espellere inconsciamente una parte di noi (per esempio i nostri metalli) all’esterno e buttarla addosso ad un altra persona; terminata questa operazione cominciamo a vedere addosso all’altro la parte proiettata e crediamo che sia sua. E l’altro ad avere il difetto; è l ‘ altro, non noi, ad essere ancora grezzo. Siamo del tutto inconsapevoli di ciò che abbiamo fatto e crediamo che la cosa che “vediamo” sia davvero addosso all ‘altro.

Allo stesso modo introiezione è inglobamento di contenuti altrui, ad esempio norme morali, divieti, paure, giudizi negativi, ecc. Anche di ciò siamo inconsapevoli. Crediamo di essere noi a pensarla così e invece questo che noi abbiamo è il pensiero di un altro, che magari ci è stato ficcato dentro a forza tanto tempo fa.

Ritirare le proiezioni significa riconoscere che ciò che vediamo fuori “sta” in realtà dentro i nostri confini, ossia riconoscere che il difetto è nostro.

Restituire le introiezioni significa pronunciare il nostro “no” a pensieri riconosciuti come imposti, per vivere la nostra vita e darci la nostra etica.

Eseguite queste due operazioni i nostri contorni, i confini della nostra pietra, si precisano e noi ci conosciamo con nuovi contorni. Abbiamo operato dei movimenti, rectificando in tal modo la nostra superficie esterna. Metaforicamente il masso informe lo abbiamo reso cubico togliendo materiale dove ce ne era troppo, apportando materiale dove mancava. Se questi sono stati movimenti consapevoli, se abbiamo seguito le varie fasi della costruzione, diciamo che abbiamo una sia pur limitata conoscenza di noi.

Ma perché, se poi deve ritirarla, l’uomo ricorre alla proiezione? Per due motivi:

  1. Per motivi gnoseologici. Proiettare è necessario per conoscere se stessi fuori di sé, ossia la propria forma nascosta, la pietra occulta portata alla luce per essere vista. Si tratta di prendere distanza dalla pietra levigata per vederla meglio.
  2. Per motivi etici. Si tratta conoscere se stessi per fare evolvere (costruire) il sé e l’umanità.

Se l’aspetto di integrazione scopre la vocazione gnoseologica della precedente operazione di negazione, l’aspetto di individuazione ne rivela la vocazione etica, rivela quale è il fine del lavoro che l’artista compie; tale fine è precisamente il ritrovamento di se stesso, del Sé nascosto, della statua occulta. Così costruire è etico e gnoseologico insieme; e noi compiamo le due funzioni con un solo gesto.

Scrivevo nel ’92:

Rectificando invenies occultum lapidem” ci sussurra, premurosamente quanto misteriosamente, da tempi lontani, la Tavola smeraldina.

Tale statua, o lapis, essa ci dice, verrà trovata negando (rectificando) alcune parti della pietra data, ma, essa aggiunge, prima di tale negazione la pietra rettificata è occulta. A noi importa però soprattutto precisare che essa è occulta solo a chi non sa guardare, solo a chi non ha dentro di sé a priori la forma della statua. solo a chi non è Artista.

L’ Artista infatti “vede”, già da prima, I ‘opera dentro la pietra grezza. A lui non resta che rettificare, ossia togliere il di più. Egli vede tale forma dentro la realtà data perché essa altro non è che una sua imago interna proiettata all’esterno, una forma con la quale egli veste la materia.

Egli prima proietta la propria anima dentro il masso poi la riprende dicendo: la bellezza di questa statua è solo mia.

Nuovi contorni vengono allora fomiti alla pietra grezza, ossia alla pietra-in-sé, naturalmente data. Attraverso la negazione dei metalli, attraverso la separazione delle scorie, lo scultore trasforma, con paziente opera di scalpello, la vecchia forma del Naturale già dato, nella nuova forma dell’Artificiale costruito col lavoro.

Ma l ‘ Artifex vede tale forma prima dell’opus, prima del Lavoro, e questo è a lui possibile perché il figlio dell’Opera sua è forgiato a immagine e somiglianza del suo pensiero( 5 .

Egli trasforma, per via di togliere, una pietra grezza in una pietra definita. In tal modo la pietra grezza si adegua al suo desiderio. Ossia è la realtà che si adegua all’intelletto umano, non viceversa. L’intelletto umano è così immaginato come un grande costruttore di rappresentazioni esterne della sua anima, di rappresentazioni sue fuori di lui, rappresentazioni di sé fuori di sé. La Grande Opera dunque, essendo un ‘adaequatio sui ad imaginem sui. Potremmo tradurre massonicamente così le precedenti espressioni: la Grande Opera essendo un adeguamento della realtà grezza al desiderio iniziatico, diviene allora un adeguamento del sé profano all’ immagine iniziatica di sé. “Cosa” e intelletto vengono nell’Artifex a coincidere, ad essere l’una ad immagine e somiglianza dell ‘altro. Ma non per adeguamento dell ‘uomo alla realtà bensì per adeguamento della realtà all’uomo. Noi diventiamo quel che l’intelletto vede e desidera. Noi vediamo ciò che l’intelletto costituisce.

Alla pietra togliamo materiale (grezzo) suo cd aggiungiamo forma (iniziatica) nostra.

Come è per la statua, così è anche per noi; anche noi abbiamo scorie da togliere, così come abbiamo ricchezze da aggiungere.

(Fine della prima parte).

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SULLA OPPORTUNITÀ Dl DISTINGUERE SIMBOLO E SEGNO NELLA LIBERA MURATORIA

SULLA OPPORTUNITÀ Dl DISTINGUERE SIMBOLO E SEGNO NELLA LIBERA MURATORIA di Luciano Rossi

La mia memoria non è delle migliori; le fonti non le trovo più. Ricordo appena che, in un suo dialogo, Galileo disputa con un interlocutore. Quest’ultimo sostiene, credo, che i pianeti come Marte, Giove, Saturno non debbano chiamarsi pianeti ma stelle. Al che Galileo risponde, sempre che io non ricordi troppo male, che questo gli può andare benissimo, ad un patto: che sia chiaro che Venere ha una natura diversa dalla stella polare. Insomma Galileo fa così poca difficoltà circa i nomi con cui le cose vengono chiamate, che senza problemi può accettare che i pianeti vengano chiamati stelle, purché resti chiaro che essi son stelle diverse da quelle che intende lui.

Se il mio ricordo è molto inesatto chiedo di essere scusato; in fondo tanta precisione non è importante qui. Anche se quel che ricordo non fosse aderente al testo di Galileo, o, di più, anche se Galileo non la avesse mai detta, quella affermazione esprime nondimeno esattamente quel che io voglio comunicare. In effetti capita quasi sempre che in Massoneria si chiamino “simboli” delle entità che io chiamerei più opportunamente segni. ln merito a ciò, devo dire che la mia posizione è la seguente: va benissimo continuare a chiamarli “simboli”, purché sia chiaro che per trovarne la profonda valenza simbolica non ci si può limitare ad una semplice traduzione segnica. Più avanti farò in modo che si capisca, magari senza definirli, cosa intendo per entrambi i termini. Ogni definizione scontenterebbe qualcuno: invece a me serve solo promuovere l’impegno a fare esperienza del simbolo. A questo scopo una sola evidenza è necessaria per noi: la ricerca della profonda natura del simbolo è essenziale in Massoneria, altrimenti ci si ferma alla superficie; al di là dei nomi è dunque importante che siano distinte due operazioni profondamente diverse, perché esse si rivelano due esperienze profondamente diverse. In questo contesto suppongo che le due esperienze facciano capo, per convenzione provvisoria, ai termini Simbolo e Segno.

La trattazione delle concordanze e discordanze fra Simbolo e Segno è davvero vastissima nel Novecento. Se ne sono occupate l’Ermeneutica e la Semeiotica, la Psicologia e la Filosofia, la Comunicazione e la Medicina, la Linguistica e la religione.

Tutti noi abbiamo notato che la gente parla di segni di impazienza o dei segni della peste, e che, qualche volta, invece di parlare, si esprime a segni, o che, quando ci vede, si sbraccia in segni di saluto; in altri casi, più spesso in privato, si fa il segno della croce o dà segni di squilibrio. Consentitemi di rinunciare a dare la definizione di segno: “Troppe cose sono segno e troppo diverse fra di loro”. Mi sia permesso di limitarmi al classico: “qualcosa che sta per qualcos’ altro”, con la sola condizione che questo qualcos’altro io sappia che cosa è. Il contrassegno caratterizzante del termine pare essere allora: “io so” (cosa sta dietro il segno). Io so cosa sono l’impazienza e la peste, la croce e lo squilibrio, ecc.

Non dando le definizioni di simbolo e di segno non privo nessuno di qualcosa di importante: la vastità degli scritti su questi due termini appare imponente, anche se ricca di discordanza di opinioni. Non riassumerò nemmeno telegraficamente quelle ricerche; sarebbe per me opera ponderosa e occuperebbe un ‘inutile spazio. Inutile per due motivi: per i non addetti ai lavori sarebbe troppo, per gli addetti troppo poco. Darò tuttavia qualche indicazione nelle note bibliografiche con la speranza di stimolare qualcuno.

Io qui tratterò molto brevemente l’argomento e in un modo assai semplice e ristretto. Mi limiterò infatti al solo campo massonico e alla dimostrazione della tesi seguente:

“E opportuno individuare due diverse operazioni per descrivere certi termini, perché esistono davvero più modi di ‘conoscere’ la squadra e il compasso, il piombo e la livella, ecc.”

Generalmente questi strumenti vengono dai Liberi Muratori chiamati “simboli “, senza tanti problemi; è un uso ormai invalso ed accettato, ma qualcuno più pignolo (è infelice la vita dei pignoli!), in qualche caso, in qualche loro uso, preferisce chiamarli “segni Ebbene, essi non sono né l’uno né l’altro. Essi sono semplicemente strumenti di lavoro massonico che possono essere conosciuti ed usati in tanti modi, riassumibili in due differenti livelli principali. Simbolo e segno sono soltanto quindi due diverse qualità semantiche di detti strumenti che derivano unicamente da due nostre diverse capacità di conoscere.

Perché è utile per la Libera Muratoria, anzi importante, distinguerli? Lo è, credo, per promuovere e per stimolare ancora di più, ove necessario, quella capacità di conoscere, per lei ineludibile, che è propriamente gnostica e iniziatica; qui la definirò, con un atto arbitrario ma largamente condiviso, come autenticamente simbolica. Appena appare chiaro che l’operazione di accedere all’autenticamente simbolico serve per suggerire, stimolare, indurre un desiderio di profondità e di infinito sperimentati nella carne, allora la distinzione tra simbolo e segno non appare più una pignoleria ma un bene indispensabile: è necessario che la Libera Muratoria sia sempre accompagnata dalla convinzione che, dopo aver interpretato o tradotto tutto ciò che ci era possibile, dovrà continuare a scavare ancora in altri siti più profondi di quanto non lo sia la mente conscia.

Faccio un esempio.

La Squadra è uno strumento che può servire certamente come segno e che in dubbiamente può essere considerato (prendiamone uno fra i tanti che vengono riferiti) segno di rettitudine, ma questo tipo di interpretazione è caratteristico del sapere convenzionale e dunque squadra è rettitudine solo se i due che stanno comunicando fra loro, scrittore e lettore, oratore e uditore, sono d’accordo (ossia convengono) su questa segnatura e per tutti e due vale la stessa convenzione. Convenzione per altro non arbitraria, in quanto così si è convenuto perché era conveniente (mi scuso per il gioco di parole); infatti rettitudine suona come retto modo di costruire, come angolo retto, ossia angolo normale, ossia norma, ossia obbligazione, quindi retto modo di comportarsi: tutte cose che lo strumento ‘squadra’ indubbiamente è nell’arte edile o muratoria. Ma passando al modo simbolico, e ripetendo ciò che fa Eco nel suo esempio della ruota

posso sentire la squadra in un modo peculiare che non riesco a presentare con parole; e se proprio ci sono costretto comincio ad esprimermi con termini quali: l’obbligazione da me liberamente accettata, il cammino iniziatico stesso che sto facendo, il mio divenire, la scalata del monte sacro, il lavoro su me stesso, quel senso piacevole di giustezza e quiete interiore che avverto di me nei rari giorni in cui mi sento un buon Muratore, ecc. Tutti modi per cercare d’ esprimere un’esperienza che va al di là delle parole.

Squadra come simbolo, ai suoi estremi confini, è dunque un’esperienza. Sì, … ma esperienza di che cosa? Semplicissimo: la squadra è esperienza della squadra. E questo è tutto per chi sa ed è nulla per chi non sa. Le parole, che trionfano nell’illustrazione del segno, si fermano impotenti davanti al simbolo. Il linguista, che si dilunga sul segno ed ivi culturalmente si esalta, è costretto a restare fuori dal simbolo così come il profano resta fuori dalla porta del tempio. Squadra, nel modo simbolico non si può dire; squadra si può solo esserlo. La squadra che si può dire non è la vera squadra, .. per parafrasare così il celebre versetto: il tao che si può dire non è l’eterno tao. Solo due iniziati che siano già squadra sanno cosa sono squadra, pietra, levigatura. Solo due iniziati che siano già squadra possono passarsi con uno sguardo quell’esperienza intima che è la squadra: questo è il comunicare iniziatico. Fuori di questa espressione Intima i segni massonici non sono veri simboli, ma solo formule astratte, vuote di esperienza. E i profani, proprio perché non hanno questa esperienza, spesso lo pensano. Pensano, e se ne sorprendono, che uomini seri, dignitosi, spesso di cultura e di successo si riuniscano in stanze scure per fare delle cose buffe e vuote, delle pantomime ridicole e prive di senso. Non sanno che quei gesti sono la ripetizione consapevole e rivissuta di ciò che accadde in illo tempore. O forse alcuni lo sanno, ma ciò che non sanno, perché non lo possono provare, è che questi gesti non sono la ripetizione formale di gesti, bensì emozioni del cuore. E quando pensano ad una tradizione, allora pensano spesso ad un segreto operare di antichi congiurati, ad un mistero fantastico e inquietante di cui magari diffidare e da cui stare lontani. E tutto questo perché non c’è accesso al simbolo se non vivendolo,

se non facendo. A chi chiede del simbolo possiamo purtroppo opporre solo un invitante “provare per credere”. Al simbolo si può accedere solo con un atto di fiducia e coraggio. Occorre varcare una porta al di là della quale non si sa cosa ci sia; si sa solo che c’è l’esperienza del simbolo. Bussare la prima volta con paura ed entrare tre mando nel Tempio sono i primi atti costruttivi di se stessi e i primi atti di conoscenza, perché conosciamo in quel momento l’emozione che abbiamo costruito varcando la soglia del tempio e di noi stessi. Dopo quel passo non siamo più quelli di prima perché abbiamo sentito, accettato ed espresso quella emozione; ne siamo già stati un po’ trasformati ed abbiamo conoscenza della trasformazione avvenuta. Provando la gioia, il dolore, la rabbia, la paura, noi le conosciamo e ci conosciamo perché queste emozioni sono quel noi che già esisteva ma che era sconosciuto.

Dunque è il grande mistero della loro simile esperienza a render possibile fra due persone la comunicazione del simbolico. Ancora un esempio: la bandiera. L’accostamento bianco, rosso e verde è per tutti segno dell’Italia. Ma per qualcuno la bandiera rappresenta molto di più di una entità geografico-politica: essa è per lui un tremore del cuore, un’ebbrezza dello spirito, un sentire per cui egli può dare anche la vita. Diversa è la bandiera che incontriamo in dogana alla frontiera e quella che precedeva gli alpini sul Monte Grappa.

Si può fare un’altra osservazione. Il segno un tempo è stato segreto: il simbolo non lo è stato mai. A differenza del simbolo, che devi indagare da solo, perché non può essere trasmesso, il segno doveva essere rivelato; poteva esser conosciuto solo tramite la rivelazione: inutile era scavare in sé per trovarlo. Come avresti potuto mai sapere che cosa era stato convenuto, in passato, in modo libero, scegliendo una lettura fra le tante, per indicare la conoscenza o il dovere o ancora la fratellanza o la vittoria sulle passioni? Indicare le passioni col nome di metalli non era l’unica possibilità. E ancora perché sono stati necessari segni segreti e peculiari per indicare certi concetti? Se avessimo potuto dire direttamente “rettitudine” avremmo potuto evitare di dare tante spiegazioni, non vi pare? Invece no! Il linguaggio doveva essere criptico nel suo complesso perché quando nacque doveva servire per comunicare in segreto fra affiliati. Oggi i dizionari dei segni si trovano sulle bancarelle. Una cosa che invece non si troverà mai su nessuna bancarella è un dizionario dei simboli, intendendo naturalmente, e momentaneamente, per simbolo anche quello di cui diremo di qui a poco.

Come ho già detto squadra è simbolo di qualcosa di inesprimibile che si ricollega in modo oscuro alle origini dell’anthropos. E lo è in modo talmente oscuro da rendere libero ciascuno di noi di riempire quell’espressione con le proprietà più personali, più soggettive ed inesprimibili: talché non si riesce a dire, in questo senso, altro che questo: “la squadra è la squadra e basta”. Aggiungendo di solito: “e chi la conosce sa cosa intendo”.

Questa “nebulosità di contenuto” è essenziale perché un simbolo mantenga il suo carattere iniziatico e per la impossibilità di interpretazione che il simbolo presenta nel momento in cui esprime il suo carattere sacro. Finché resta non tradotto, finché non c’è l’attribuzione di un significato, il simbolo è “fresco”; se lo frusto con lunghe e dettagliate esegesi, e le ritengo esaustive, il simbolo “avvizzisce” e non è più tale: non gli rimane più quello spazio di indeterminazione che lo rende tanto più forte quanto più la sua indeterminazione è grande. La parola è forte se è equivoca, ambigua, colma di infinito; solo finché la parola, dice Scholem, resta priva di significato, è pregna di significato.

Ma la tentazione di interpretare c’è: costante e forte. Come mai? Verrebbe da pensare che la tentazione di interpretare esiste quando nell’esegeta è più forte l’amore di sé che l’amore del simbolo: insomma non gli importa che il simbolo muoia, purché lui ne abbia gloria. Ma se così fosse, se fosse così facile distruggere un simbolo, ci sarebbe da tremare . con tutte le tavole sui simboli che vengono lette nelle nostre Logge. Per fortuna non è così: il vero simbolo pare più forte del nostro intelletto, pare trascenderlo.

Abbiamo detto che conoscere la squadra non è interpretare, ma viver[a senza parlare. In altre parole conoscere la squadra non è dire: “squadra significa rettitudine e quant’altro mi riesce di dire ‘, svuotando il problema e ponendo fine a tutto; è piuttosto tacere e lasciare che 1a squadra conservi tutta la forza trasformativa che il mistero le conferisce.

Vivere il simbolo è un’esperienza che affascina e sopraffà, ti fa trovar di là senza sapere come, ti trasforma senza darti conoscenza intellettuale, ti prende per portarti dove non sai. Noi cerchiamo di interpretare il simbolo, riducendolo così a segno, perché abbiamo paura. Per svuotarlo, indebolirlo, e salvarci così da un’esperienza al termine della quale non sappiamo come saremmo. Ecco perché forse abbiamo creato il segno, o meglio il livello segnico del simbolo! Si ha simbolo ogni volta che, dopo aver attribuite al termine in questione tutte le connotazioni segniche possibili, rimane un residuo ineliminabile, un senso sottostante e inafferrabile, inesauribile e molteplice.

Fra tutte le accezioni possibili di simbolo a noi deve interessare quella che ci pertiene: ossia quella archetipica e sacrale; un “qualcosa” attraverso il quale parli una Voce che viene da lontano. L’opera dei Liberi Muratori, ormai da tanto tempo, non è più operativa: si è trasformata; la nuova opera non è più reale, ma simbolica. O meglio, tale attività è ancora reale dal punto di vista psichico, in quanto il simbolo è una potente realtà così come lo sono il dolore o la paura, ma non è più concreta; e però corrisponde ad una antica attività concreta, in un modo che é, ad un tempo, misterioso e affascinante. I nostri padri, quando smisero di costruire cattedrali, non vollero però deporre del tutto maglietto e cazzuola, squadra e filo a piombo. Ricordavano troppo bene come questi strumenti erano stati loro di ausilio nel creare le giuste linee che donavano forza e bellezza alla loro opera.

Sentivano che tali strumenti sarebbero stati ancora di aiuto, che non si poteva smettere di lavorare in modo simile a prima. E così può essere capitato che essi abbiano imitato dapprima gli antichi gesti teatralmente, come in un rito; e che sia accaduto allora, come per associazione di idee, come per programmazione neurologica, che essi abbiano provato le stesse esperienze interiori che avevano provato quando con quei gesti sollevavano e muravano mattoni concreti. Capirono forse allora che quei gesti, privi ormai di efficacia esteriore, avevano però conservato tutto il loro potente effetto psichico. Così, coloro che erano depositari di tanta maestria smisero di costruire templi di pietra, ma non smisero di costruire interiormente. Solo che i loro gesti erano diventati apparentemente strani. Strani perché vuoti ormai di oggetto esteriore, strani perché solamente psichici. Ma lo psichismo ha sempre un significato, anche se quasi mai a noi è dato di sapere quale esso sia. Dunque nell’operare di oggi ogni Libero Muratore che continua a compiere quei gesti strani, deve non dico capire l’esatto correlato perché questo non gli è possibile, ma intuire, attraverso sensi misteriosi e lungo vie di penombra, che cosa essi possano mai significare, quale messaggio essi gli inviino dalle lontane regioni buie e luminose da cui essi provengono. Nessuno lo può aiutare a capire. Gli deve bastare il conoscere la legge generale ossia che ad ogni utensile concreto corrisponde un utensile psichico; dopo di che deve procedere da solo. Noi invece siamo spesso abituati a cercare le cose sui libri; ma questo è pigrizia, sfiducia, forse inganno, certo lenta atrofizzazione delle nostre migliori qualità intrinseche. Ho detto altrove che dobbiamo rompere i libri affinché non si rompano i nostri cuori. Credo che sia la sede giusta per ripeterlo.

Se guardiamo cosa è il simbolo del compasso nei libri dei nostri Autori preferiti troviamo le loro interpretazioni del simbolo. Verità soggettiva per loro, ma non per noi. Per noi la loro resta una intuizione estranea, per quanto affascinante essa sia. Così come resterebbe estranea, a loro, la nostra fantasia soggettiva. Dobbiamo cercare una via personale, perché il simbolo sfugge a tutti e la verità del mito, per ognuno di noi, è solo il processo con cui ognuno di noi insegue la propria verità. Per tornare ai libri è doveroso aggiungere che si rivela, tuttavia spesso necessario, specialmente all’inizio del cammino, affidarci ai libri allo scopo di s6stenere il nostro passo incerto, nelle buie giornate in cui questo vacilla, ma quello cui dobbiamo tendere è un altro processo. Quello cui dobbiamo tendere è poterci fidare di noi stessi, è poterci affidare ad un sapere senza fondamento in visioni altrui, ad un sapere che sgorga solo da noi, ad una mistica che non si appoggia ai profeti, ma riconosce, fa proprio ed esprime ciò che le porta la visione diretta della propria divinità interiore, del proprio segreto. Questo esercizio mistico appare inevitabile per poter accedere al segreto massonico.

Come fare?

Semplicemente mettersi al lavoro anche se non si sa ancora come. Solo lavorando si diventa capaci di lavorare. Fabricando fit faber, ci suggerisce una massima latina: ossia “è solo costruendo che il costruttore diventa tale”.

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QUANDO GLI EBREI ERANO “GIUDEI” E FRAMMASSONI 1 LIBERI MURATORI

QUANDO GLI EBREI ERANO “GIUDEI” E FRAMMASSONI 1 LIBERI MURATORI

Padre Giuseppe De Rosa S.J.narra la storia della “Civiltà Cattolica ” di Aldo A. Mola

Nel 1500 dalla fondazione “La Civiltà Cattolica” propone una pacata riflessione sulla propria storia. Ne è autore p. Giuseppe De Rosa S.J., una tra le colonne del “Collegio degli Scrittori” dell’importante quindicinale della Compagnia di Gesù. ln diciotto capitoli (poco più di duecento pp. compresa l’utilissima appendice sui Direttori della rivista, a cura di p. Guido Valentinuzzi S.J.) l’Autore (che si vale anche degli studi dei p. Pirri, Mucci, Fiocchi, G. Martina… S.J. e degli apporti di laici quali Gabriele De Rosa, Roger Aubert, A. Cestaro e altri spiega in sintesi “che cosa è” la “C.C.”, quale ne sia stata la storia dalla fondazione a oggi, e quali i terreni del suo maggiore impegno di “fedeltà a Gesù Cristo, alla Chiesa e al Papa”.

Il testo è intercalato da una scelta di fotografie che costituiscono quasi una storia nella storia per chi sappia leggere nei volti e cogliere i tempi di cui i corpi redazionali qui ritratti sono testimonianza emblematica.

Padre De Rosa attesta che “ancor oggi ogni articolo che viene presentato al direttore per essere pubblicato sulla rivista è da questi sottoposto alla revisione di due o più membri del “collegio” (così si chiama ufficialmente il gruppo dei redattori della rivista)”. Apportati i ritocchi suggeriti dai ‘lettori’, “un’ulteriore revisione ‘interna’ è fatta da tutto il collegio quando il fascicolo è in bozze ( … ) in tal modo si concretizza il fatto che tutto il collegio degli scrittori sia sostanzialmente corresponsabile di tutto quello che esce sulla Civiltà Cattolica nelle cui pagine “possono scrivere soltanto gesuiti, salvo rarissime eccezioni” (fra le quali ci piace ricordare l’indimenticabile massonologo don Franco Molinari, che sommò il frutto delle ricerche sue a quelli degli studi rigorosi in tale materia condotti da padre Giovanni Caprile S.J.).

V’è da credere che metodo non meno rigoroso venga seguito per la pubblicazione degli Editoriali; destinati a “far testo” sulle questioni più disparate e impegnative. Tantopiù — spiega ancora p. De Rosa S.J. – che prima della stampa ogni fascicolo passa attraverso il filtro ulteriore della Santa Sede per vaglio della sua conformità con l’ insegnamento della Chiesa in materia di fede e di morale (o almeno la non sostanziale difformità) e della opportunità o meno di pubblicare taluni articoli in particolari situazioni”. Se in passato era il Pontefice stesso a ricevere quindicinalmente il direttore della Civiltà Cattolica ora, anche per via delle molte assenze del Santo Padre da Roma, a incontrarlo è il Segretario di Stato vaticano o altro autorevole membro della Segreteria.

Per tutti questi motivi va apprezzata la differenza sostanziale anche sul piano lessicale del modo nel quale negli ultimi decenni l’autorevole e prestigiosa rivista è andata affrontando realtà storiche un tempo trattate con singolare asprezza. È il caso, per esempio, della massoneria e dell ‘ebraismo. Il 7 maggio 1884 — ricorda p. De Rosa S.J. la rivista usò la formula: “La massoneria, ecco il nemico”, speculare a quella di Léon Gambetta: “11 clericalismo, ecco il nemico”. Rileviamo per altro che Gambetta, come la generalità degli anticlericali dell’epoca, non scrisse dunque la Chiesa o il cristianesimo, sibbene “il clericalismo”, cioè quanto (non solo a lui) pareva un’esasperazione del temporalismo, quasi un ‘tradimento’ del messaggio evangelico stesso o se si preferisce della Rivelazione, del magistero dl Cristo, laddove la rivista replicava investendo non tanto “il massonismo” quanto la massoneria e, concretamente, i massoni, anzi la “setta giudaico-massonica” staffilata da una moltitudine impressionante di articoli, note storiche, zibaldoni romanzeschi (pensiamo a Massone e massona di p. Franco S.J.) ispirati dall’enciclica Humanum genus ( 1 884) e sfocianti persino in “pesanti e deprecabili articoli antigiudaici” come opportunamente scrive p. De Rosa S.J.

In effetti troppo a lungo gli ebrei vennero denominati ‘giudei’ proprio per quel tanto di spregiativo che si connette al termine, rievocante il tradimento e il ‘deicidio’; così come i liberi muratori venivan liquidati come “frammassoni”: formula alludente a pratiche cultuali sacrileghe o, almeno, ad indebite appropriazioni di valori carismatici, da certa opinione addebitate alle logge.

L’ Autore ripercorre con specchiato scrupolo i diversi orientamenti enunziati dalla Rivista in tema sia di ‘conciliazione’ tra fede cristiana e massoneria sia, ciò che più conta, sulla posizione degli affiliati alla massoneria dinanzi alla Chiesa: un tempo scomunicati, ora “in stato di peccato grave”, con mutamento disciplinare non da poco, dunque. Varrebbe forse la pena aggiungere che molte severe pronunzie sui rapporti chiesa-massoneria hanno seguito da presso esagitate affermazioni di pretesi “filosofi della massoneria”. Proprio quella del 2 novembre 1991 (sulla quale si chiude il capitolo in discorso: e non fu l’ultima in materia) seguì di qualche mese la dichiarazione alla stampa di chi aveva minacciato di mettere in campo le armi e gli eserciti (??) massonici ove il Pontefice non avesse ritrattato l’accusa alla Massoneria di agire come “potere segreto”: mai pronunziata, invero, dal Santo Padre, tantopiù che — rileviamo anzi — dalla sua elezione a oggi (salvo errore nostro, per mera disinformazione; e gradiremmo essere corretti, ove sbagliassimo) papa Giovanni Paolo II non ha mai pronunziato il termine neppure il nome di “massoneria”. Del pari altri editoriali furono provocati da massoni che, non si sa a quale titolo, si ersero a interpreti autentici e supremi della natura e della dottrina della Chiesa cattolica: un’ingerenza che comprendiamo possa riuscire insopportabile e sollecitare qualche puntualizzazione.

D’altronde, ricorda p. De Rosa S.J., la massoneria venne a lungo ritenuta dalla Rivista il minimo comun denominatore delle forze via via sorgenti in lotta contro la Chiesa: liberalismo. socialismo c comunismo: tema, quest’ultimo, al quale lo stesso p. De Rosa S.J. ha dedicato quarant’ anni di note critiche informatissime.

L’ Autore, infine, non tace la “piccola apertura” della Rivista al fascismo (p. 109) e un certo ritardo nella dichiarata avversione nei confronti del nazismo.

Questo sobrio volume sulla più antica rivista italiana fa auspicare analoghe operazioni di contestualizzazione storica del proprio patrimonio e dei modi della sua proposta da parte di altri ‘filoni’ culturali attivi in Italia (e non solo), lontano dalla presunzione di percorsi rettilinei, privi di incespicamcnti e di mende.

Le pacate pagine di p. De Rosa S.J. sulla Rivista della inducono infine alla prudenza e alla temperanza anche dinanzi a certe pronunzie recenti della “Civiltà Cattolica ‘: da accogliere in una visione di lungo periodo, come soleva fare p. Giovanni Caprile S.J. contemplando pazientemente dalla sua finestra di Villa Malta il tramonto rosseggiante del Cupolone di San Pietro: promessa di sempre nuova luce, non gà di tetro definitivo crepuscolo.

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TOTO’ . . . IL PRINCIPE DI MASSONI

Totò… il principe dei massoni di Giuseppe Scaglia

(Scena prima — Un qualche luogo dell’Oriente eterno…)

Cuentan las cronicas del paraiso… raccontano le “cronache del Paradiso” che il Principe Raimondo di Sango si sia recato a colloquio con il G.A.D.U. per chiederGli la speciale licenza di ritornare sulla Terra perché, così affermava il Principe di San Severo, aveva ancora delle cose da fare, obblighi da portare a buon fine.

La proposta, afirmen los novelistas, era sicuramente inedita e, per certi versi, inaudita… però il Padre Eterno, che in fondo in fondo si diverte ad assistere al “grande film” di cui è regista, autore, sceneggiatore e produttore, tenendo conto degli indubbi meriti del Principe, lo volle accontentare.


“Però stavolta — aggiunse il Creatore — cambiamo un po’ le regole: ti permetterò di rinascere a Napoli, come mi hai chiesto, e di essere non solo di nuovo Principe, ma anche conosciuto ed amato, però tutto ciò te lo dovrai sudare, non lo avrai per nascita come l’altra volta. Arriverai, ma dovrai lottare, eccome, tra incomprensioni, invidie e cattiverie; avrai tremendi momenti di rabbia ed abbattimento e solo verso la fine della tua nuova esistenza vedrai, in parte , riconosciuti i tuoi meriti… sei tanto stolto da lasciare la pace di cui godi per accettare quel che ti ho proposto?’

Il Principe, che amava ogni genere di sfida, fu tanto stolto ed accettò… così nacque Totò… era un giorno qualunque del 1898.

(Scena seconda — Interno napoletano A. V.L. 5944)

E passato quasi mezzo secolo, l’Italia, il mondo, sono profondamente mutati… e non in meglio!

Da cinque anni milioni di uomini si stanno scannando ovunque, dalle infuocate dune del deserto libico alle inviolate steppe russe, dalle inesplorate giungle dell’Asia più lontana alle dolci coste della Normandia.

Terre, cieli e mari sono diventati dei grandi cimitcri, città d’arte cumuli di rovine fumanti, ma l’Uomo resta sempre tale, ed anche in momenti in cui tutto sembra essere perduto un barlume di Civiltà resta… la fiaccola non si spegne! E talora sono gli artisti che portano quella fiaccola… che ti fanno sorridere anche se intorno a te non vedi che lutti e macerie, che ti toccano nel più profondo del cuore e te lo senti vibrare come una corda di violino proprio quando credevi fosse indurito per sempre. Un po’ di trucco e via… la maschera è lì, pronta a ricominciare una nuova recita.

Tutto questo il giovane Antonio, detto Totò, lo sa fin troppo bene: è una fatica vera, anche fisica, improvvisare ogni sera qualche cosa di nuovo in abborracciati teatri di provincia, troppo spesso male illuminati, con recite a “braccio” non di rado interrotte dalle laceranti ed angoscianti sirene delle contraeree… beninteso, poi, facendo severa attenzione ai testi che si recitano (ad es. MAI calcare con troppa enfasi sulla parola “fascino”/fasci-no) ricordandosi di usare il romanicamente virile “Voi” e non il demo-masso-plutocratico “Lei”. e tutto ciò per poche lire e tanta fame!

Sì, Totò lo sapeva benissimo che loro, miseri guitti di periferia, erano così sprezzantemente chiamati dai loro colleghi “amici” del regime e perciò in auge, “attori di chiara fame”, ma che felicità poter dare un sorriso a gente disperata.

Sì, lo sapeva molto bene e proprio a tutto questo pensava l’ultimo dei De Curtis quella sera del 1944, non più giovane, ma non ancora vecchio… “maturotto” come si definiva!

Già… doveva essere un po’ matto a fare un lavoro come quello, ma lui, fin da piccolo, era stato un po’ ” pazzariello” … e, comunque, che dire, allora, di questi signori che lo stavano aspettando di là per, come dicevano loro, “iniziarlo”?

“Iniziarlo”? E a che cosa poi? E bardati da carnevale con guanti, sciarpe, grembiulini e cappucci neri?

Si chiamavano “Liberi Muratori” e tra di loro si abbracciavano e baciavano tre volte chiamandosi reciprocamente “Fratelli”.

In verità dei “Fratelli tre puntini” aveva distrattamente sentito parlare molti anni prima, sapeva che la loro organizzazione era stata messa fuori legge e che solo dopo la Liberazione del Sud qualcuno aveva riaperto le “Logge”, almeno a Napoli.

Certamente non li aveva mai presi troppo sul serio, cosicché quando, circa sei mesi prima, un soleggiato giorno d’aprile lo rammenta- va bene, un suo caro collega di stenti e lavoro (che era anche uno di loro senza che lui l’avesse mai nemmeno sospettato) gli chiese se gli sarebbe piaciuto diventare “Libero Muratore” fortissima era stata la tentazione di rispondergli “Muratore io? Mio caro, SIGNORI, e non muratori, si nasce ed io, modestamente, lo nacqui! ” , ma, poi, era stato come se una “voce di dentro” lo avesse frenato e diretto. E già… la “Voce di dentro” che, ogni tanto, lo guidava… lui, chissà perché, lo chiamava “O Principe” quella specie di saggio Grillo Parlante che, dalle profondità del suo essere, regolava la sua eccessiva guitteria.

E così, adesso, grazie a “O Principe”, era lì, calzato con una scarpa ed una pantofola, a petto per metà scoperto, con una corda al collo ed una benda sugli occhi che era la cosa che più gli dava fastidio… Dio che brutta sensazione non vedere nulla!

Tutto durò quasi un’ora: per tutto quel tempo lo avevano fatto camminare piegato come se dovesse passare sotto chissà quali forche caudine, dapprima contornato da un rumore assordante ed angoscioso di spade tintinnanti, poi il rumore era vieppiù calato fino a sparire del tutto, mentre dopo avergli soffiato su una mano, nel giro successivo gliela avevano immersa in una bacinella colma d’acqua per poi quasi abbrustolirgliela alla fine dell’ultimo “viaggio” compiuto. Ma non bastava! Gli avevano fatto bere un liquido dolciastro e successivamente un bevanda molto amara spiegandogli che il passaggio dal dolce all’amaro era simbolo di quel che avrebbe provato qualora avesse “tradito”.

E tutto ciò mentre era bendato!

Ma adesso basta… non ne poteva proprio più! O lo sbendavano o li avrebbe mandati tutti quanti al diavolo! Checchè! Un uomo ha la sua dignità, accidenti, ed il gioco era durato già fin troppo a lungo per i suoi gusti! Mica era un “guaglioncello” … e già da parecchi anni per di più!

Fu proprio allora che la benda gli venne tolta e vide: l’emozione lo stordì, quasi gli tolse il respiro!

Nelle due file, tra i banchi, molte persone, alcune delle quali assai note in città, bardate con paramenti multicolori, sorridevano battendo le mani in modo rituale mentre il Tempio, ora illuminato a giorno, risplendeva di simboli e luci. Ma quello sul Trono non è l’Avvocato… principe del foro di Napoli? Ma sì, è proprio lui, non stai sognando povero Totò… ecco ora ti è vicino, ti cinge i fianchi con un grembiulino bianco con la bavetta rialzata, ti abbraccia tre volte e ti dice “Ti proclamo Fr.•. App.•. di questa R•. Palingenesi all’Or.•. di Napoli. Tu sei mio Fratello!”.

Si dice che gli uomini non debbano piangere mai… i comici, per loro buona sorte, qualche volta, invece, possono anche farlo… (!) Correva l’Anno di Vera Luce 5944… era nato un nuovo Libero Muratore!

(Scena terza — Interno napoletano A. V.L. 5966)

“Ven.mo e Pot.mo Fr.•. Antonio De Curtis, 30, Delegato Magistrale della Regione Campania!” — la potente voce del Maestro delle Cerimonie annunciava stentoreamente l’ingresso in Loggia, nella nuova “Ars et Labor”, gemmata dalla Palingenesi e che aveva visto il Fr.•. De Curtis tra i promotori, di quello stranito profano di 22 anni prima ora rivestito dei superbi paramenti del suo grado dentro i quali la sua figurina secca ed angolosa sembrava quasi scomparire. “Fratelli in piedi ed all’Ordine! Volta d’acciaio! ” … questa fu la pronta replica del giovane ed emozionato della Loggia. Il Maestro delle Cerimonie lo accompagnò all’Oriente e lo aiutò a salire i tre gradini dell’ara: Totò ne era quasi infastidito, ma quei suoi poveri occhi lo facevano tribolare da troppo tempo ormai! Dio che cosa brutta non vedere nulla!

“Ti ringrazio Fratello” disse in un soffio di voce prima di sedersi pesantemente sulla panca foderata di cuscini vellutati.

Da mesi si sentiva stanco, troppo stanco, tanto che gli era pesato persino girare il suo ultimo film (perché sentiva che sarebbe stato l’ultimo!) “Uccellacci e uccellini” con quello strano tipo di Pasolini dietro la macchina da presa: aveva accettato perché, finalmente, sarebbe uscito dal suo solito cliché che aveva tipizzato 50 anni di carriera onorata, apprezzato dal pubblico e detestato dai critici, ma aveva stentato a

“Sta per calare il sipario povero Totò!” pensò… ma oggi tutto questo non aveva senso! Non avrebbe rinunciato per nulla al mondo a quella serata: le prime due Iniziazioni della “sua” nuova loggia “Ars

et Labor” che aveva fortissimamente voluto per riunire in un unico gruppo i molti artisti che vestivano guanti e grembiulini.

Eccoli lì i giovani colleghi, e tra poco nuovi FFrr.•. App.•., eccoli arrancare bendati e curvi proprio come lui quasi un quarto di secolo innanzi… eccoli lì… ed eccola qui una bella valanga di ricordi e di pensieri!

Già! Ora si sentiva commosso vedendo la “sua” creatura massonica muovere i primi incerti passi come un neonato, ma Lui, il Pot.mo e Ven.mo TRENTA, era stato davvero SEMPRE un BUON MASSONE?

Aveva realmente sempre portato nella vita profana quei sacri ideali di Libertà, Fratellanza e Tolleranza che, tra poco, avrebbe detto ai nuovi FFrr.•. di non scordare mai?

Oppure talvolta, e non di rado, si era sinceramente imbestialito leggendo le spietate stroncature che la critica cinematografica regolarmente faceva dei suoi film (così amati dal grosso pubblico!) scordando la sua rigida professionalità?

Rammentava che una volta, dopo aver letto che la sua interpretazione era paragonabile a quella di uno “squallido guitto da avanspettacolo” , profondamente amareggiato, aveva confidato al Fr.•. Gino Cervi, durante le riprese de il “Il Coraggio” che questo era un Paese assai strano dove era necessario morire per essere apprezzati! Già… quella volta la Tolleranza, l’ascetica sicurezza del Massone avevano lasciato il posto ad un acre sdegno molto profano.

Ma, a suo vantaggio, c’era anche “A Livella”, la sua poesia più conosciuta (quasi come l’indimenticabile “Malafemmina” che un po’ tutti i grandi della canzone avevano inciso) e che lui considerava una vera e propria Tavola in versi nella quale la Morte paragonata, appunto, alla Livella, strumento base del lavoro del Libero Muratore perché eguaglia tutto e tutti facendo scordare privilegi e pregiudizi di “casta”, ma non solo, perché proprio tramite l’Uguaglianza, lo sgrossamento delle imperfezioni, la Livella (e, nella poesia, la Morte corporale) ti permette di accedere a dimensioni ove realmente Tolleranza e Fratellanza regnano sovrane. Questa, in poche parole, era la sua concezione, profondamente laica, ma sacra al tempo stesso, del destino dell’Uomo e del Massone più in particolare; del resto ogni Libero Muratore, avanzando di grado, muore simbolicamente almeno un paio di volte, ma è necessario che, ogni volta, e qui sta la grandezza dell’Uomo prima ancora che del Massone, si sappia rinascere rigenerati e “nuovi” nello spirito e nell’anima.

E questo perché l’Iniziato sa che, dopo, “qualcosa” di Trascendente lo attende e sa anche come sia importante costruire la strada a questo “Qualcosa” già da questa parte della barricata: ecco perché è importante vivere la Massoneria in ogni momento, in ogni atto che si compie… 24 ore al giorno!

Tutte queste cose Totò le disse d’un fiato nel salutare i due nuovi App.•. e quasi non sentiva più la stanchezza di quella sua vita errabonda, però riservò il “tocco d’artista” nella “chiusa”: “E in definitiva, cari FFrr.•., siamo Uomini o caporali? UOMINI! Ricordatevi sempre che il Massone, se realmente riesce a realizzarsi come tale (e non pensiate sia un compito facile!), non sarà mai un meschino “caporale” pronto ad ogni sopruso, ma sempre e soltanto un Uomo nella completezza di corpo e di Spirito e come tale agirà! Buon lavoro FFrr.•. E rammentatevi di restare per sempre App.•. dentro di voi… per non essere caporali fuori! ! ” Poi, realmente, calò il sipario.

Antonio De Curtis, Principe di Bisanzio, Cavaliere Eletto Kadosh, si spense a Napoli un giorno qualunque dell’Anno di Vera Luce 5967.

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PENSIERO MASSONICO E SOCIETÀ CIVILE

PENSIERO MASSONICO E SOCIETÀ CIVILE

La cultura e la società contemporanea vivono in questi decenni la crisi del pensiero razionalista di derivazione cartesiana. Il fenomeno, che si generalizza ignorando confini e ideologie, può esser colto nella polemica, levata da tempo contro le nuove forme di pensiero e di comportamento, denunciante come pericoloso l’irrazionalismo. Irrazionale è definito tutto ciò che esorbita i limiti imposti al fare umano da un vecchio meccanicismo, svelando con ciò il carattere storicizzabile di questa partizione e l’urgenza di rinnovamento che incalza.

Non è la prima volta – né sarà l’ultima – che la società europea entra in crisi: basti pensare al tramonto del mondo classico ed ellenistico. Ma quando una cultura e una società si rivelano insufficienti e occorre rinnovarsi per proseguire il cammino dell’Universo verso stadi di maggior coscienza, allora è indispensabile l’analisi interiore e l’attivazione del Simbolo. Il Simbolo è infatti il veicolo per esprimere quella parte di noi che, per il semplice fatto di non essere ancora cosciente e concettualizzata, non per questo è meno reale.

L’operazione attraverso la quale il mistico supera le insufficienze catechistiche – e ciò vale anche ampliando il riferimento al rinnovamento della cultura – è quella per cui nessun profeta uscì mai dal clero: cioè un ritorno alla Tradizione per reinterpretarla in modo nuovo ed originale, per fame indispensabile premessa ad ogni ulteriore progresso. ln tutti i campi del fare umano, per incongruo che ciò possa sembrare a spiriti poco dialettici, ogni rivoluzione è stata fatta guardando al passato.

Questo atto dialettico per il quale l’uomo storico si volge, all’uomo metastorico, è una ricerca di nuove acque alla fonte perenne. Quando il razionale ha perso il contatto con la vita, la hybris trionfa: allora solo la fonte che è in noi può restituirci alla misura. La crisi della società contemporanea, vista ora in questa luce, non è di piccolo momento né sarà di breve durata. Stiamo vivendo infatti l’insufficienza dei modelli a guidare una società che, per l’intensa dinamica degli ultimi due secoli ed in particolare degli ultimi decenni, è radicalmente mutata rispetto a quella nella quale e per la quale i modelli furono elaborati. Ne consegue l’oscillare tra una razionalità invivibile e una irrazionalità devastante, tra la coercizione e la disgregazione: col rischio di precipitare irreparabilmente verso uno dei due poli.

ln tale contesto il pensiero massonico può e deve costituire un importante punto di riferimento per il rinnovamento della società, perché esso, alieno da spartiacque  dottrinali e rivolgendosi all’umanità tutta in nome dei grandi e comuni principi di libertà, eguaglianza, e fratellanza, ha come obiettivo un costante e fecondo contatto con il simbolo, e come matrice la Tradizione una dell’umanità tutta. Esso stimola ad approfondire quella conoscenza interiore che è base per il miglioramento di ciascuno, e quindi anche della società, della quale il Massone è partecipe e alla quale reca il proprio prezioso contributo di esperienza.

Perché il nostro fine è l’umanità tutta che noi vediamo partecipe di un divenire universale. Lavorare alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo perciò significa implicitamente lavorare per il Bene e il Progresso dell’Umanità.

T

TAVOLA DEL FR.’. G. C. B.

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CONSIDERAZIONI SU SEGRETO E VERITÀ

CONSIDERAZIONI SU SEGRETO E VERITÀ

Maestro Venerabile, Fratelli carissimi, la prima domanda da rivolgerci sul tema non può che essere: cos’è il segreto?

Letteralmente significa “cosa occulta, da non rivelare”, “l’intimo ed intrinseco dell’animo”, ma anche “mistero, cosa che la mente umana non sa spiegare”, o ancora “ricetta, metodo conosciuto da pochi o da uno solo”, ed in fine “cassetto nascosto di un mobile, congegno per aprire una cassaforte od altro”.

Segreto, quindi, nella lingua italiana, ha una grande varietà di significati apparentemente molto distanti tra loro: pensate, dall’apertura della cassaforte al concetto di mistero.

“Segreto è quanto più persone decidono di tenere celato, talvolta sotto il vincolo di un giuramento in quanto si vuole che resti ignoto a tutti gli altri”. Tale scelta può essere, o meno, volontaria, a seconda che si tratti di una forma di difesa o dell’impossibilità di rendere edotti gli altri della cosa in questione. Il “segreto” esiste anche se non c’è patto, ma è una sola persona a “conoscere”.

Riassumendo, il segreto è un rapporto tra uno o più che sanno e coloro che ne sono esclusi; analogicamente debbo ritenere che ciò che non è comprensibile alla mente umana sia deliberatamente tenuto celato dalla Natura o dal G.’.A .’.D.’.U :.

Questo ci rende immediatamente la convinzione che il “segreto” non esiste solo in Massoneria; possiamo anzi afferrnare che ognuno ha dei suoi segreti familiari, professionali.

Ma i tempi che stiamo vivendo sono caratterizzati da una sempre più diffusa (e predicata) voglia di trasparenza, di pubblicizzare, divulgare e far intendere ad un sempre maggior numero di persone.

Questo in evidente  contrasto con il concetto stesso di segreto: ciò, per fortuna, non potrà MAI avvenire perché comunque un messaggio non compreso resterà ugualmente un segreto.

Voler dire tutto a tutti renderà percentualmente elevato il numero di coloro che non capiranno e che penseranno che deliberatamente si voglia tener loro celato l’oggetto del contendere.

Ecco allora il voler semplificare nella stolta convinzione che sia opera meritoria quella di “urlare nelle orecchie dei sordi”. Essi percepiranno comunque solo dei suoni forti, ma inintelligibili e forse inquietanti.

E così il segreto, volutamente spiegato a tutti, rientra maestoso nel sistema interpersonale e, nuova Sfinge, torna ad essere custode di se stesso.

Noi massoni che, al di fuori del tempo lavoriamo per il bene ed il progresso dell’Umanità, coltiviamo il segreto poiché la Tradizione, base del nostro procedere, ci dice che il segreto è, e cercare di comunicarlo a chi non può intendere è, oltreché inutile, anche dannoso.Sia che si tratti di una Verità, che di un aspetto relativamente meno importante, la tutela del segreto può essere dettata da opportunità o utilità, ma sono elementi che rientrano nella più assoluta discrezionalità e libertà. Credo che la Verità vada tenuta celata e rivelata solo in particolari casi ed a poche persone. Essa non è accessibile a tutti, ma solo a chi è pronto a riceverla: posso allora dire che è la Verità stessa che determina la selezione tra coloro che hanno orecchi e cuore per intendere e chi no. Il cosiddetto segreto in Massoneria.

Padre Rosario Esposito scrive: “il segreto massonico si estende a tutta l’attività dell’ordine, dai nomi dei componenti della Loggia, alle cose che le appartengono, nonché a tutta l’attività che vi si svolge e vi si prepara e al metodo di operare in Massoneria. “

L’articolo 9 della Costituzione recita: “mantenere la discrezione sui lavori iniziatici . ed il giuramento che si presta all’atto dell’ingresso nella nostra Istituzione al suo primo punto dice: di non palesare i segreti dell’iniziazione muratoria . (poiché altri ancora non se ne sa), ed infine noi, al termine di ogni tornata rituale, “solennemente promettiamo …”.

E un fatto chc molte delle precauzioni, che esistevano anche solo pochi anni fa, stanno cadendo, e non so quanto ciò sia bene, ma, come dicevo, il vero segreto si difende da sé.

Quando, negli albori della civiltà, un uomo scoprì in un altro essere lo stesso fascino esercitato su di lui dal cielo stellato o dal rumore del tuono e, per non essere irrisi dagli altri, cominciarono a parlarsi sotto voce o in disparte da occhi e orecchi indiscreti, nacque il primo segreto umano. Probabilmente con il passare del tempo ed il crescere di questi individui si sentì il bisogno di difendersi.

Verità è un termine che ha due significati, uno oggettivo con le qualità e le proprietà che ha la cosa in sé, indipendentemente dalla possibilità di essere conosciuta; l’altro soggettivo, da intendere come conoscenza della cosa quale essa è realmente, con un processo di identificazione del nostro intelletto con la cosa in sé.

Così, ogni verità non posseduta è celata da un segreto. L’uomo nella sua ansia conoscitiva cerca di scoprire il segreto della somma verità, che altro non è, in fine, che Dio stesso.

Anche nel linguaggio comune esiste una sorta di identificazione tra verità e segreto: quando si dice il segreto degli astri, o della materia, dell’energia cosmica intendiamo che non abbiamo ancora raggiunto la conoscenza, e quindi la verità. C’è il segreto della vita e della morte, della natura.

Le cose sono così unite che non è possibile dire se sia la verità che si ammanta di mistero o se sia questo che copre la verità.

Non passiamo certo affermare che la Massoneria sia la depositaria della verità, intesa come Somma verità, e si sbaglierebbe nell’affermare che una rivelazione debba giungerci con i vari gradi che ci vengono riconosciuti. Se così fosse, la Massoneria esaurirebbe la sua funzione, divenendo la dispensatrice di verità (e di tesori) accumulati.

Non avrebbe più senso la costruzione, mai terminata, del Tempio ed i suoi presupposti di progresso individuale, legati allo sforzo ed alla ricerca. Di più, se cosi fosse, la verità posseduta dall’istituzione, ma non dai suoi componenti, finirebbe per trasmettersi per dogmi, tradendo i propri principi, che sono quelli di rimettere sempre in discussione ogni cosa e di non accettare verità acquisite, e forse dimostrate, da altri. Cesserebbe l’utilità dei simboli, strumenti su cui ciascuno di noi può esercitare intelligenza ed intuizione. Ci sarebbero, dicevo, verità comunicate, probabilmente incomprensibili, e non sofferte.

Attenzione però a non cadere allora nelle considerazioni, altrettanto errate, che la Massoneria non possieda Verità. Essa le ha, ma vanno conquistate, maturate!

È il suo metodo, la via che ci viene additata da tutti i Fratelli che ci hanno preceduto.

Non è affatto cosa da poco, anzi è più che sufficiente a giustificare la sua esistenza plurisecolare.

Volendo, possiamo dire che il metodo massonico è esso stesso una verità, e quindi un segreto.

Il metodo, graduale, che ci viene proposto ci offre gli strumenti idonei (i simboli, innanzi tutto) per operare, ognuno al livello più consono, quello scavo interiore. Già Marco Aurelio scriveva: “scava in te stesso, nella tua interiorità; lì c’è la fonte del bene che potrà zampillare sempre più su qualora tu proceda in questo lavoro di scavo”.

La Massoneria offre queste indicazioni graduali su sempre nuove prospettive, strumenti sempre più sofisticati per lavorare la nostra pietra. Anche se, in fondo, nessuna conquista fatta dal singolo Fratello è sua esclusiva, ma in una certa misura finisce per essere propria di tutta la Massoneria.

Acquisizione di verità, o di virtù, è imparare a dominare le proprie passioni, divenire sempre più tolleranti verso le altrui debolezze, privilegiare il lavoro come primo dovere delPuomo è certo avvicinare la verità; e così pure divenire critici verso le nostre azioni, tutte: sia quelle importanti, che quelle non.

E queste cose non sono adatte ad essere raccontate, ma si avvertono: forse volta per volta, ma come risultato di una crescita complessiva verso la realizzazione di quelli che sono i nostri trinomi: libertà, uguaglianza, fratellanza, ma anche tolleranza, benevolenza ed umiltà.

Riassumendo i segreti che gelosamente dobbiamo custodire riguardano i nostri Riti, la nostra simbologia (dei vari gradi): sono relativi insomma alla verità unica ed ultima della Massoneria che, incorruttibili, sfidano i secoli e le mode.

Il Massone, un iniziato, è un uomo posto in condizioni di vedere la Luce gradualmente, onde non essere accecato da improvvisi bagliori, uscendo da quelle tenebre che tutti ci avvolgono.

I simboli di cui la Massoneria si avvale sono per loro natura come facce di una medaglia: una mostra un aspetto, una figura che viene vista da tutti, mentre l’altra sta a ciascuno di noi scoprirla. Occorre imparare a vedere il bianco nel nero per giungere a vedere il segreto e la verità.

E la Massoneria vuole appunto occultare al di fuori e svelare al proprio interno, vuole abituarci a cogliere l’aspetto esoterico in tutti i fatti in cui scorge il solo essoterico.

Possiamo così dire che, mentre non esteriorizza affatto le sue verità, la Massoneria ci aiuta a scoprirle standovi dentro.

Ma se così è, perché preoccuparsi di nascondere e di coltivare il segreto?

La Massoneria non inibisce certo ai non iniziati di procedere alla ricerca della Verità, tuttavia mantiene con gelosa attenzione quei simboli e quei metodi che le sono propri perché, se divenissero di pubblico dominio, perderebbero una gran parte della loro efficacia: solo quello che ci appare conquistato ha per noi importanza. Ciò che otteniamo senza fatica alcuna perde inevitabilmente di valore e di efficacia. È insomma una spiegazione del “non date perle ai porci”.

La nostra Istituzione combatte ogni forma di ignoranza, quindi anche all’esterno, e tenacemente. Ma è solo per se stessa che mantiene i segreti di cui parlavo prima, sia di conoscenza, che di metodo.

E ciò viene fatto assicurando la conservazione delle conoscenze acquisite, frutto del diutumo lavoro dei suoi Fratelli che interpretano i simboli come mezzo per giungere alla Verità.

E questo lo dobbiamo fare anche vigilando con attenzione su chi bussa alle nostre porte, attenti però a cogliere l’Uomo Giusto che, spinto dal desiderio, possa raccogliere e far fruttare ciò che noi stiamo preparando.

La parola è perduta, ma il nostro impegno deve essere tutto rivolto a ritrovarla! Al lavoro, dunque, Fratelli.

TAVOLA  DEL  FR.’.A. Bgg,  

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VIRTUTE, CONOSCENZA E FRASI FATTE

VIRTUTE, CONOSCENZA E FRASI FATTE

Sono in Massoneria per cercare la Luce, e questo sta scritto nel Rituale, che tra i documenti massonici è forse il meno lontano dalle fonti antiche. I Rituali di cento o duecento anni fa sono diversi dai nostri per molti aspetti minori, ma non per questo simbolismo. A me sembra che la luce sia ovviamente un simbolo di conoscenza. Nella luce vedo, quindi so, conosco.

Nel ventiseiesimo canto dell’Inferno il Poeta rievoca il viaggio dell’eroe Ulisse oltre le colonne d’Ercole e in quelle terzine ci dice perché inseguire la conoscenza, con le parole che mette in bocca a Ulisse: “Considerate la vostra semenza. Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtude e conoscenza”. Poco più avanti, Dante ci dice altro: c’è tutto in quelle terzine. Ci dice in modo simbolico l’oggetto e il modo della ricerca. Ulisse vuole conoscere le stelle dell’altro emisfero. “Tutte le stelle già dell’altro polo vedea la notte”. Ecco il fascino che su tanti esercita la Croce del Sud. E per conoscerle si avventura nell’oceano con poveri strumenti: “Dei remi facemmo ali al folle volo”. Sono i logori arnesi di cui parla Kipling: poveri strumenti i remi per attraversare l’oceano, maneggiati da uomini già vecchi, ma non paghi, come Ulisse ci descrive i suoi compagni, che altrove significativamente chiama fratelli. “Io e’ compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta dov’Ercule segnò li suoi riguardi”.

Prima ho scritto “Dante ci dice perché inseguire la conoscenza”. Ma è proprio così? forse ci dice soltanto perché Ulisse perseguiva la conoscenza. Certo è che, per il supercattolico Dante, il folle volo poteva solo finire in un naufragio. Presa dal turbine la nave girò tre volte e poi affondò, “come altrui piacque, infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso”. Notare il rispetto e il ritegno di quell”‘altrui”: il Dio che non si nomina.

Per la ricerca di Ulisse, Dante ha rispetto, ma, a avviso di alcuni, nessuna simpatia. Comunque, la condanna come frutto di orgoglio satanico. E quel satana, io credo, che aveva in mente il Fratello Carducci quando scrisse il suo “Inno a Satana”, che scandalizzò i benpensanti e peggiorò i nostri rapporti col Vaticano. Ed è in quella condanna che sta, a mio avviso, la differenza di fondo tra la via iniziatica e quella devozionale.

Per me, comunque, quelle terzine sono sufficienti: c’è dentro il motivo per cui io cerco luce.

Tomiamo alle finalità del nostro lavoro. Nei testi massonici non trovo altro se non questo: la ricerca della luce. Poi trovo delle raccomandazioni di carattere morale e comportamentale e rituale e metodologico. Una soprattutto, quella di squadrare la propria pietra, simbolismo così chiaro che non mi ci soffermo anche perché, se il simbolismo è semplice, le implicazioni però sono complesse e prenderebbero molto tempo. Diciamo che per me squadrare la pietra significa avvicinarsi a quella “virtude” senza la quale la conoscenza diventa inaccessibile.

Cosa intendevo per “testi massonici”? Rituali, Landmarks, Antichi Doveri nonché il vasto corpus di scritti che Massoni hanno dedicato alla dottrina e che costituiscono il corrispondente massonico di quello che la Chiesa chiama consenso dei fedeli, o qualcosa del genere.

In tutto questo corpus non ho trovato altro e, in particolare, non ho trovato affatto che l’obiettivo proposto al Massone sia quello di “diventare dio”: di questo infatti si tratta quando nel nostro tempio usiamo il temine “realizzazione”. Non ho mai trovato questo, se si fa eccezione per l’opera di un uomo che nella Massoneria passò come una meteora.

Diventare dio sarà forse possibile, non ho elementi per negarlo. A me non è dato e se anche fosse lo sarebbe a un prezzo così alto, che non sono disposto a pagarlo. Ben più alto che non il prezzo ridicolo che adesso sto offrendo: venire qui una volta alla settimana a chiacchierare con voi piacevolmente, e a praticare, in modo molto imperfetto, dei rituali che non ho avuto nemmeno la buona volontà di imparare a memoria, cosa che sarei perfettamente in grado di fare, se solo avessi sufficiente buona volontà.

Se quella fosse la mia intenzione, non mi consolerei certo con formulette stereotipe come ne sento ogni tanto. Ricordo una sera che si parlava di egoismo. Il Fr. Scld era uscito con uno dei suoi paradossi. Anche fare’ del bene può essere una forma di egoismo, se nel fare del bene io trovo gratificazione, disse. Obbiettai che ovunque si può vedere dell’egoismo, anche nella ricerca della realizzazione iniziatica. Dopo di che un fratello apprendista mi spiegò che questo è impossibile, perché realizzazione significa dissoluzione dell ‘ego, e quindi dell’egoismo.

Personalmente, dispero di dissolvere il mio ego, convinto come sono che questa operazione comporta solventi di potenza straordinaria, attualmente non reperibili su questo mercato. La frase del Fratello apprendista era perfettamente illogica, in quanto se anche ammettiamo che “realizzazione” comporti “dissolvimento dell’ego”, fino a quando tale traguardo non ho raggiunto, le mie azioni sono determinate dal mio ego e quindi dai miei egoismi. Ma assai più dell’illogicità mi preoccupava l’accettazione acritica di una frase fatta: cosa dalla quale sopra ogni altra il Libero Muratore dovrebbe imparare a rifuggire.

Se con gli strumenti ridicolmente inadeguati dei quali dispongo, mi propongo di diventare dio, il risultato non può essere che fallimento e frustrazione. E questa frustrazione è stata certamente già sperimentata da fratelli anche di questa loggia, ed è causa di crisi passate e future.

Se non frustrazione, certamente confusione. Me ne sono accorto una sera quando, alla fine di una discussione sulle opere dei Massoni, un altro Fratello apprendista mi ha detto “in fin dei conti, Buddha mica costruiva ospedali ed asili notturni”. Il che è verissimo, e sarebbe pertinente se Buddha fosse un massone e se la Massoneria avesse qualcosa a che fare col Buddhismo.

In conclusione, essenzialmente, resto in Massoneria perché credo che nel nostro bagaglio simbolico e nel nostro metodo ci siano barlumi di una sapienza antica, che può portarmi avanti in un cammino di conoscenza. Ma ci sono ragioni sussidiarie e che ritengo niente affatto ignobili. Una è che qui incontro uomini di desiderio, il che significa uomini di qualità superiore, di buona semenza, per usare le parole di padre Dante. E penso che la mia qualità umana sia stata migliorata dal contatto con questi uomini. Un’altra ragione è che il modo e la disciplina del lavoro massonico sono un potente strumento di affinamento anche semplicemente a livello mentale. Un pre-requisito per squadrare la propria pietra.

Molti anni fa (certamente qualcuno se ne ricorda), un Fratello ci raccontò un famoso apologo di Ciuang Tzè intitolato “La Quaglia e l’Uccello Peng”. Eccolo, per chi non c’era.

Nel nudo e gelido settentrione è un uccello che si chiama Peng: Il suo dorso pare il monte Tai, le sue ali le nuvole che vengono dal cielo. In un turbine sale a gran ruote per centomila miglia fin dove terminano aria e nuvole e sul suo dorso è solo l’azzurro nero del cielo. Allora volge il suo volo al sud verso l’oceano. Sulla sponda di una palude una quaglia rise di lui e disse: “O dove vuole andare? Io frullo su per qualche metro e torno giù per i cespugli della macchia: questa è la perfezione del volo. Ma quella creatura dove vuole andare?”

Ecco, se un giorno abbandonerò il tempio, sarà perché si sono affievoliti sia il mio desiderio di vedere le stelle dell’altro emisfero, sia la forza di remare e dei remi fare ali “al folle volo”. Chissà che non possa consolarmi come la quaglia dell’apologo.

TAVOLA  SCOLPITA  DAL  FR.’. R. Scch

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INVITO ALLO STUDIO DI DANTE

INVITO ALLO STUDIO  DI  DANTE

La Massoneria è una scuola iniziatica. Sarebbe assurdo ritenere che col fatto di entrare nell’Istituzione attraverso le formalità ed i procedimenti conosciuti da chi vi appartiene, ere si attui un momento miracoloso per cui un profano istantaneamente acquisisca tale de padronanza di sé da essere iniziato nel vero e completo significato del vocabolo. Sarà stato «iniziato» e per aver superato le prime prove, ma queste costituiscono solamente la rappresentazione simbolica della maturazione iniziatica che si perfezionerà durante tutta la sua carriera. Il neofita appena accolto dovrà impegnarsi ad apprendere, non dovrà parlare, ma dovrà imparare I ‘assai più difficile arte dell’ascoltare, del tacere e soprattutto di intendere. In forza di questa realtà il neofita deve raggiungere un certo sviluppo di comprensione, di conoscenza e di maturazione iniziatica che assolutamente non ha potuto percepire fin tanto che era profano.

Un raffronto molto materiale ma chiaro ed inconfutabile, potrebbe essere che nessuno affiderebbe un’importante costruzione di alta tecnica, né accetterebbe una conferenza d’ingegneria da parte di chi si sia appena iscritto alla Facoltà. Lo stesso principio vale per l’apprendista e per ogni successivo grado.

                         Parrà un paradosso, ma in realtà la Massoneria pur essendo una scuola, non «insegna» nulla. La Massoneria fornisce un metodo per cui tutti i suoi rituali, le sue prescrizioni, i suoi regolamenti devono essere meticolosamente seguiti e capiti. Essi non possono essere mutati, col rischio di intaccare e distruggere il fondamento reale e gli copi dell’istituzione. Sulla traccia di questo metodo, il massone si prepara per proprio conto perfezionandosi verso l’iniziazione personale.

Non dobbiamo dimenticare che la Massoneria è scuola Iniziatica quanto lo potevano essere in tempi remoti l’iniziazione Braminica di Krishna, i Misteri Dionisiaci di Orfeo, i Misteri d’Egitto di Ermete, i Misteri di Delfo con i Pitagorici, i Misteri Eleusini. Di questi la Ma soneria è in parte erede e seguace, perché nulla di nuovo in campo esoterico è stato finora scoperto. L’unica differenza che la può distinguere dalle scuole Iniziatiche e Misteriosofiche dell’antichità è che la Massoneria si è adeguata ai tempi moderni per le scoperte scientifiche, nonché per le mutate abitudini e condizioni di vita dell ‘uomo. I suoi fini sono ancora esoterici per il bene dell’umanità, essendo Speculativa per la preparazione dell’uomo ed Operativa per I ‘inserimento di un uomo particolare, l’ iniziato, nel consorzio umano.

La scuola è quella che insegna, ma per la Massoneria non si può parlare propriamente di scuola e di insegnamento nella comune accezione del termine. Non possiede libri di testo, grammatiche, dispense, professori e docenti. Essa opera attraverso I ‘iniziazione che si sviluppa per volere dell’individuo, attraverso un’azione esoterica, cioè intrinseca ed intima dell’uomo. Qui non trattasi esclusivamente di utilizzare l’intelligenza cerebrale, ma di sviluppare facoltà appartenenti a piani sottili, di carattere spirituale. Per dotti che si sia nel campo profano, l’iniziazione è cosa assolutamente diversa che si realizza per la prima volta entrando nell’Istituzione. Da quel momento si opera lentamente una trasformazione che richiederà anni di paziente lavoro e concentrazione per giungere grado dopo grado a formare l’uomo saggio.

L’istituzione intesa come Scuola Iniziatica implica l’impegno del Massone di apprendere, non imparare, ma toccare, palpare, raggiungere – con poteri suoi propri qualche cosa che la scienza profana non ha la possibilità di fornire. La Costituzione dell’Ordine precisa che la Massoneria è scuola di esoterismo, che è l’espressione attiva di cui il rito dell ‘iniziazione d’ingresso è stato il primo simbolo di separazione dalla scienza profana per l’utilizzo dei mezzi esoterici, operanti attraverso l’intuizione per preparare l’iniziato con un lavoro che si compie in lui se opera con persistente perseveranza e modestia verso il suo fine che è quello del proprio perfezionamento e di conseguenza anche dell’umanità.

Il termine forse più idoneo ad esprimere ciò che con difficoltà dicono le parole può essere quello usato di «intuizione». La ragione non è, insieme ai sensi, l’unica fonte di conoscenza. Al di là di essa esiste l’intuizione che è una facoltà difficile da definire e che si esercita in particolari casi e condizioni, in modo sporadico e discontinuo, con carattere di «illuminazione» subitanea ed incontrollata. A differenza della ragione, il suo esercizio sfugge alla volontà, e mentre si può essere consapevoli ed autocoscienti dello svolgersi del processo mentale di ragionamento discorsivo, non lo si può essere del processo intuitivo. Mentre un’idea dedotta razionalmente appare come l’ultimo anello di una catena di pensieri coscienti, le idee o i concetti intuiti irrompono spontaneamente uno dopo l’altro, almeno in apparenza, nel campo del pensiero cosciente. La facoltà di intuire è posseduta in gradi assai diversi dall’individuo. La facoltà di ragionare è posseduta in misura notevole da tutti gli uomini normali. L’intuizione sembra una dote piuttosto rara, tuttavia può anch’essa essere oggetto di viluppo individuale ed a questo mirano le scuole iniziatiche. Il ragionamento dipende dalla legge generale dell’evoluzione; l’intuizione può essere favorita in certa misura da opportuni esercizi, cosi com’è per la facoltà di ragionare che può essere affinata con lo studio, se ve ne è la predisposizione.

La facoltà di Intuire si affina col progredire dell’acquisizione del potere iniziatico e si rivela con sensazioni ed idee che i termini del discorso ordinario razionale non riescono ad esprimere. I concetti del linguaggio razionale in questo campo sono sempre soggetti alle limitazioni della parola per cui l’esposizione delle verità intuite riescono più o meno deformate e risentono della particolare struttura mentale di chi le fa o di chi le riceve o di chi le ripete. Analogamente gli sviluppi della propria iniziazione destinati a restare per la loro natura inesprimibili coi mezzi del linguaggio, ossia sono intrinsecamente «esoterici», per cui non è la scienza profana che possa essere di soccorso e di per sé esprimere l’essenza esoterica dell’iniziazione, raccolta invece per intuizione dall’individuo.

Questa estesa premessa indispensabile per afferrare lo spirito con cui siano da affrontare problemi che costituiscono non solo il valore intimo contenuto nella Massoneria, ma anche di opere altamente e profondamente esoteriche di cui il nostro paese e ha il vanto. Tutta l’opera Dantesca, ad esempio, dovrebbe essere esaminata sotto un aspetto ben diverso da quello superficiale a cui in genere si è usi. Questo lavoro dovrebbe essere compiuto dal Massone che si è immedesimato nella realtà delle premesse qui esposte, per giungere ad un rivolgimento spirituale di inestimabile valore iniziatico. Il contenuto delle opere di Dante lascia talvolta insoddisfatti allorché ci si limita a considerarle esclusivamente da un punto di vista linguistico e lessicale, storico o religioso. ln esse è presente una base misteriosofica che costituisce probabilmente il vero scopo per cui quelle opere  furono scritte. Naturalmente, una analisi del genere non è nuova, ma presenta non poche difficoltà d’interpretazione poiché trattasi di opere quasi certamente indirizzate ad iniziati e costituiscono materiale per l’addestramento alla intuizione esoterica dei pochi eletti pronti e capaci di una simile indagine.

L’umanità tende dolorosamente a perdere la sua spiritualità per lasciarsi fagocitare dalla civiltà dei consumi. L’uomo non ha più individualità, carattere e coscienza del proprio essere. La vita si riduce ad un fatto materiale, a quella di un robot di calcoli antagonistici che cozza in continuazione – per invidia, prepotenza, egoismo e ferocia – contro altri robot calcolatori. L’uomo dovrebbe valorizzare di più la sua piena essenza per costituire un consorzio vivente nella pace, nella serenità, nella giustizia, unito da vincoli di bene, fraternità, libertà, convogliando tutte le proprie migliori attitudini verso un progresso mirante realmente al bene morale e materiale comune.

Questo appare il fine a cui mira Dante con le sue opere dirette all’umanità. Il richiamo di Dante merita di essere ascoltato e fornisce fonti inesauribili di insegnamento. L’interpretazione delle verità nascoste sotto il velo è di un simbolismo magistrale, merita il tentativo di approfondirne il contenuto esoterico. Il risultato fornirà sempre spunto allo viluppo di meditazioni personali, poiché i simboli parlano individualmente a ciascuno. Per l’assimilazione dei concetti esposti da Dante non è indispensabile la conoscenza del mondo storico a cui si riferisce oppure una particolare cultura di base, non solo perché la sua opera si presenta generalmente aneddotica, ma perché il vero fine trovasi nell’insegnamento profondo che occorre trarne per coprire la luce del proprio essere, la verità della propria natura, il perché della vita. L’impegno di Dante di insegnare cose che solo le menti che aspirino a ciò possono intendere è evidente in tutte le sue opere.

Il contenuto esoterico dell’ideologia dantesca non è esclusivo della Commedia; le altre opere, meno note, contengono l’insegnamento di Dante in maniera altrettanto evidente.

La Vita Nova per la sua costruzione e per l’uso dei numeri che Dante fa, rivela in modo chiaro che non si tratta della vicenda di un amore, per quanto elevato e spirituale, per una donna. Non occorre andare lontano nella ricerca dei fini esoterici di Dante con questo lavoro, poiché il titolo stesso vale come indicazione chiara che qui si mira al raggiungimento di una vita nuova. La vita verso cui Dante indica il cammino è la nuova vita a cui si rinasce dopo la morte del neofita per ciò che fu un passato oscuro ed inutile, e questa morte per risuscitare alla nuova vita luminosa è simboleggiata dalla morte di Beatrice. Beatrice è sempre lo stesso simbolo con cui Dante si esprime, è colei che si ritrova dopo la rinascita alla vita nuova, beata, rifulgente di una luce che diffonde intorno a sé e si rivela col bene che fa l’opera dell ‘uomo iniziato all ‘umanità quando è diventato un saggio.

Anche il Convivio è altrettanto apprezzabile per un significato celato sotto forma di opera dottrinale scritta apparentemente per commentare delle canzoni, in cui senza equivoci Dante dichiara che vanno interpretate secondo quattro significati: letterale, allegorico, morale ed anagogico, indicando con quest’ultimo termine la necessità dell’elevazione dell’anima a cose più spirituali delle terrene. Egli ha apparecchiato questo Convivio, secondo la sua stessa affermazione, agli «innumerabili» che o per «cura familiare e civile o per pigrizia» sono digiuni del cibo della sapienza; mentre egli sa, e Io afferma nell’introduzione, che «li uomini naturalmente desiderano di sapere» …, perché «ciascuna cosa», e quindi a maggior ragione l’uomo, . «è inclinabile a la sua propria perfezione» e questa perfezione, anche se non è raggiungibile in assoluto, è in qualche modo avvicinabile con la Ragione e l’Intuizione. Nella canzone «Tre donne intorno al cor mi son venute» Dante esalta la virtù della «drittura», che altro non rappresenta se non i <<buoni costumi». Trattasi del comportamento a cui l’uomo volto al proprio perfezionamento morale e spirituale deve attenersi per il raggiungimento dello stato superiore a cui deve mirare. Alla «drittura» si aggiungono due figlie, egli afferma:    la Giustizia umana e la Legge   positiva; quasi una personificazione una e trina della Giustizia nella sua essenza e nei suoi effetti. Dante spiega che per giungere alla pratica attuazione fra gli uomini degli insegnamenti che man mano illustra, lo occorre giungere prima ad una giusta comprensione dell’armonia universale che regna nella Natura. Per approfondire il significato dell’opera Dantesca occorre rammentare che si l’esoterismo non è spiegabile a chiare parole, ma richiede un simbolismo giustificato dal la segreto inesprimibile che contiene.

La Commedia costituisce un’opera allegorica e ciò è condiviso da molti, ma interessantissima ed utilissima è la ricerca del suo simbolismo esoterico. In ogni passo si cela una verità diversa da quella che apparirebbe ad una prima lettura superficiale. Alcune volte le spiegazioni di una rappresentazione si presentano molteplici e possono portare ad interpretazioni anche materiali oltre che fornire un impulso a meditazioni sui motivi che possono aver sospinto l’autore ad usare alcune immagini invece di altre.

Virgilio, come rappresentazione della ragione, può essere stato scelto da Dante per n il fatto che il poeta latino del Medio Evo era considerato un «mago», cioè un saggio, al un sapiente, un iniziato. Virgilio costituisce un personaggio importantissimo per Dante, a infatti, è nell’Eneide che si trovano dei simbolismi esoterici molto validi a giustificare la  sua reputazione. Enea è per Virgilio l’uomo che raggiunge il dominio di se stesso, umile,  ma sempre consapevole della propria responsabilità. Analogamente per Dante è Virgilio si che costituisce la forza della ragione che giunge a salvare l’uomo nel momento in cui si smarrisce ed è aggredito dalle forze del male.

Una interpretazione del primo verso della Commedia che parrebbe consona allo spirito di cui tutta l’opera dantesca è permeata attraverso i suoi simboli, si nota nell’indirizzo rivolto al lettore con quel «nostra vita» generico che potrebbe apparire come un riferimento rivolto a quell’uomo, non solo lui stesso Dante, che avendo raggiunto una e, certa maturità con le conoscenze della vita vissuta fino a quel momento o con gli studi compiuti, non possiede in fondo che la metà delle conoscenze a cui dovrebbe aspirare mancandogli la seconda metà, quella costituita dalla sapienza o saggezza superiore a cui a si riferiva nel Convivio. L’uomo comune vive praticamente in una selva  oscura, dalla quale con l’ausilio della ragione può trarsi passando attraverso ai tre cicli dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, in cui l’illuminazione crescerà gradualmente dall’oscurità a alla luce solare e infine alla luce spirituale. La ragione sarà l’unica guida che lo potrà e condurre attraverso i primi due stadi della sua evoluzione.

L’uomo, con l’uso della ragione o del proprio raziocinio pensante, volgerà la sua visuale verso i peccati e ad uno ad uno li considererà. Potranno o non potranno averlo personalmente coinvolto, ma la ragione gli permetterà di visualizzarli ad uno ad uno secondo la gravità e le circostanze. La ragione costituisce l’elemento di guida unico in questa ricerca individuale, non esterno, poiché l’uomo esclusivamente per proprio conto deve lavorare e maturare verso l’iniziazione. Un personaggio dantesco molto interessante per il valore simbolico che rappresenta, in un raffronto con l’uomo comune, è Ulisse. L’Ulisse dantesco è colui che mira sempre a maggiore conoscenza, che sa che quando chiunque potrebbe ritenersi soddisfatto essendo tornato alla quiete della vita domestica, cioè alla insufficienza egoistica delle comuni conoscenze materiali, invece si rende conto di non essere giunto che nel mezzo del cammino di sua vita, poiché gli mancano le conoscenze superiori che potrebbero fare di lui un uomo saggio. Supera le Colonne d’Ercole, il limite massimo a cui ogni navigatore poteva giungere, e procede nel suo viaggio alla ricerca dell ‘essenza iniziatica dell’uomo. Chi vuol scoprire nella Commedia il valore superiore a quello prettamente letterario che vi è contenuto, non può non rimanere affascinato dalla potenza di questa immagine poetica del viaggio verso l’ignoto al di là delle Colonne d’Ercole, limite del comune scibile umano, e viene colpito dall’incisiva scultorea rappresentazione della nave inghiottita dai gorghi dell’ignoto e dell’irraggiungibile Verità, quando ormai essa si profilava all’orizzonte, lontana sotto forma di «… una montagna bruna per la distanza Le scuole esoteriche forniscono un metodo e non possono insegnare. Così fu ed è tuttora per qualsiasi scuola iniziatica. Il tema può essere costituito da forme diverse, ma il fine sarà lo stesso. Come grande era l’angoscia provocata al neofita dell’antico Egitto attraverso le prove a cui veniva sottoposto, così grande è l’angoscia e l’orrore che il neofita di Dante prova davanti alla contemplazione delle varie forme di peccato di cui l’Inferno dà realmente un’orrida visione. II neofita dantesco con paura discende la voragine infernale e quando teme di più si aggrappa alle «fidate spalle» di Virgilio, cioè la ragione che lo deve sempre sorreggere per trarlo dallo spaventoso baratro infernale e permettergli di uscire fuori «a riveder le stelle». Dante attribuisce un profondo valore ai numeri, come già insegnavano le antiche scuole iniziatiche e, primo di tutti, Pitagora, allievo dei Misteri Egiziani. Per i commentatori di Dante i numeri 3 e 4 si riferiscono generalmente alle tre virtù teologali ed alle quattro virtù cardinali. Tre sono le Cantiche della Commedia, trentatré i canti di ciascuna cantica, escluso il canto introduttivo. L’ingresso al Purgatorio avviene dopo la salita di tre gradini, uno bianco, equivalente al riconoscimento della colpa o del proprio essere; uno grigio che costituisce la fiducia e la consapevolezza del potere delle proprie capacità spirituali per il raggiungimento dei piani superiori; ed uno rosso, la vittoria e la potenza per avere apprese attraverso  

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la  virtù della modestia, della temperanza e della tolleranza le capacità di dominio sul proprio  essere. La soglia a cui si giunge è di diamante, su cui poggiano i piedi di un  Angelo. Quest’angelo rappresenta il soccorso e I ‘aiuto che d’ora in poi accompagneranno con l ‘iniziato nella realizzazione delle sue azioni e dei suoi pensieri se manterrà una fermezza rigorosa ed incorruttibile delle proprie idealità volte a diffondere intorno a sé il bene e la luce acquisiti.

La Vita Nova costituisce un disegno architettonico di numeri assai interessante. Al centro dell’opera trovasi la canzone <<Donna pietosa e di novella etate» che fornisce la visione della donna morta. Prima e dopo di essa sono le due canzoni della lode e della morte; poi dieci composizioni minori, 9 sonetti più 1 ballata, innanzi alla prima; e dieci, 9 sonetti più 2 stanze di canzone, dopo l’ultima. Questa morte inserita al centro dell’opera, rappresenta il transito simbolico attraverso cui il neofita deve passare per giungere all’iniziazione. L’inserzione di visioni, apparizioni, sogni e presagi, tutti analizzabili sotto significati simbolici; le dissertazioni erudite e gli avvertimenti didascalici; talune citazioni bibliche; il parlare latino, specie di Amore; il simbolismo numerico, mirano a spiegare che Beatrice è un «nove», cioè un miracolo, il numero perfetto per lo stato beato dell’uomo iniziato che si è accostato alle massime conoscenze.

Il numero 9 ricorre 9 volte nelle vicende della Vita Nova: dal primo incontro con Beatrice, cioè il desiderio di apprendere della ragione; alla seconda visione di Beatrice, cioè la costanza del pensiero rivolto al proprio progresso spirituale; poi al saluto di Beatrice cioè che conduce ai primissimi approcci verso la beatitudine; alla prima visione di  è Amore, cioè la necessità di realizzare gli stati superiori dell’essere; al riconoscimento del  valore di questa beatitudine che si illumina man mano che si sviluppano le personali capacità  di saggezza e sapienza; finalmente alla sesta apparizione del numero 9 si ha la terza  visione di Amore sublimandosi nei suoi significati più spirituali; che al 70 , 8 0 e 90  ritorno col numero nove si realizzano nei tre ultimi stadi di perfezione della beatitudine portata da Beatrice morta, dal momento della morte di Beatrice e dalla penultima visione di Beatrice che rappresenta la rinascita dell’iniziato beato.

Il numero nove per Dante significa la massima elevazione spirituale raggiungibile ed il tre ne è il sottomultiplo con cui opera per il raggiungimento dell’iniziazione.

La Vita Nova merita attenzione, poiché tocca argomenti di altissimo valore iniziatico.

Dante mira ad indicare all’uomo il percorso che deve seguire per diventare una pietra quadrata da inserire nella costruzione del Tempio dell’umanità. Per lui la vera saggezza si consegue in una ricerca di quei valori cui si accede con l’uso della Ragione ed a questa si aggiungerà ad un certo momento l’intuizione, che supera il potere della Ragione. Dante ha presentato al mondo medievale e cattolico la forza dell’intuizione con il simbolo della Fede che costituisce l’accettazione di dogmi non dimostrabili con la ragione. Sarà

.

Beatrice a rappresentare questa verità intuita che accompagnerà il neofita in Paradiso, mentre Virgilio l’avrà accompagnato fino al termine del Purgatorio, per cui, se la Fede intesa nel senso Cattolico implica l’accettazione di

principi religiosi indiscutibili, per l’iniziato essa vale come fiducia nell’esistenza di una verità insita nell’uomo,

una conoscenza che la ragione fa sentire sotto forma di convinzione intima, una certezza dell’esistenza di una scintilla di luce nell’uomo che è in grado di illuminare la sua vera essenza e la sua destinazione.

Il Paradiso, ricchissimo di contenuto spirituale, raggiunge profondità di significato atte a suscitare la massima elevazione del pensiero e tocca i più sublimi gradi della perfezione a cui si possa giungere. Le conversazioni di Dante con Beatrice e con Piccarda mettono in evidenza lo scopo finale pratico dell’iniziazione. La conoscenza e la saggezza costituiscono non solo i valori da acquisire per se stessi, ma soprattutto per il progresso morale e materiale dell’umanità.

 nostra carità non serra porte / a giusta voglia, e non come quella / che vuol simile a sé tutta sua corte» dice Piccarda Donati; al che Dante conferma: («chiaro mi fu allor come ogni dove / in cielo è paradiso, etsi la grazia / del sommo ben d’un modo non vi piove».

In altra parte Beatrice piega che l’iniziato spande intorno a sé differenti gradi di luminosità, per cui potrebbe intendersi che la sua capacità di comunicazione col mondo deve essere impiegata a guidare   ‘umanità a seconda dell’intensità luminosa che sa diffondere. L’iniziato rivolge all’esterno le sue esperienze, ne fa partecipi gli altri, le utilizza praticamente nel consorzio umano per il bene universale.

L’umanità si trova oggi fra il mondo del passato che sta morendo ed un futuro che prolifera turbinoso e disorientato, senza nulla di rassicurante per la pace e l’equilibrio nell’animo umano. L’ Istituzione, da qualche parte, rivela tendenze che hanno cessato di essere spiritualmente investigative o iniziatiche. Gli studi esoterici, trascurati o svolti solo marginalmente, vi risentono della maniera di chi, servendosi delle spiegazioni dei moderni studiosi, ne vede la radice nei movimenti sociali ed economici o in più o meno astratti motivi filosofici. Dante ci riconduce a quegli stessi misteri attraverso scritti di valore inestimabile e, per gran parte dell’umanità, ancora da scoprire.

TAVOLA  DEL  FR .’.  Jo Feyles

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DIABOLOGIA DANTESCA

DIABOLOGIA DANTESCA

Maestro Venerabile, Fratelli carissimi,

ho voluto titolare questa mia tavola usando, di proposito, il termine diabologia e non quello di demonologia, per qualificare il più rigorosamente possibile la natura dell’indagine, per collocarla in un certo senso in posizione antinomica con la teologia.

La demonologia, infatti, rivolge di preferenza la sua attenzione alle arti magiche, alla stregoneria ed anche ai mostri (nell’inferno dantesco sono demoni Carontc e Minosse). La diabologia, invece, e specificatamente quella dantesca, si prefigge di scandagliare la natura e l’essenza del terribile protagonista che Dio ha fatto precipitare dal cielo sulla terra, di individuare la causa e quindi anche la colpa della sua caduta, di scoprire la sua attuale condizione.

Recensendo il diavolo di Papini e raffrontandolo con le più ragguardevoli diavolerie del Novecento, dall’Histoire du diable di Turmel a Satana del cattolicissimo De Libero fino alle meditazioni esistenzialistiche di Sarte su le diable e le bon Dieu, Raimondo Folengo vi ha indicato alcuni interessanti elementi di calcolo storico sul Diavolo:

“la questione è antichissima e ciononostante è tuttora insoluta. Nel Satana ebraico-cristiano si condensano precedenti concezioni pagane, dal Set egiziano che, nemico degli dei della luce Ra e Horus, uccise cainamente suo fratello Osiride, al Tifone greco, figlio di Gea e del Tartaro; dal persiano Amramainyu, all’indiano Metya o Mara che tentò Buddha mentre meditava sotto il fico”.

“La sua più pregnante accezione è, comunque, quella di essere principe di questo mondo come chiaramente Io rivelò Gesù che ne aveva patito le tentazioni, quando nel deserto lo aveva accettato come suo solo compagno”.

“Si comprende pertanto come, dalle fumose elucubrazioni medioevali in cui il demonio si dava al mago e lo stregone al demonio, si è passati progressivamente ad una sorta di apologetica del Diavolo della quale, secondo alcuni furono sintomi ragguardevoli persino il principe di Macchiavelli, l’Anticristo di Nietzsche e persino l’uomo-verme di Kafka”.

Come si può notare, di Dante e della sua versione diabologica nessun cenno. Mi pare quindi opportuno tentare di ovviare a questa lacuna con un’indagine che ci permetta di rilevarne l’importanza e l’originalità.

La parola Diavolo, nel significato di Satana, Re dell’Inferno, non compare nella Divina Commedia, compie una fugace apparizione nel De Monarchia dove è indicato come il pater Diabolus.

Dante preferisce usare il termine Lucifero, o quello di Dite o anche di Belzebù, deformazione dispregiativa di origine ebraica di ba ‘alzebùl, nome di una divinità venerata come signora del mondo infernale.

Inoltre ciò che importa rilevare è la somma di attribuzioni significanti con cui il Diavolo viene raffigurato. Già la parola Lucifero (= lucem fero) lo qualifica come l’essere luminoso per eccellenza o, come dice Dante, con una perifrasi

“la creatura ch’ebbe ‘l bel sembiante ” (Inf XXXIV, 18)

A questa qualità luminosa il poeta aggiunge un’altra attribuzione non meno significativa:

. colui che fu nobil creato più ch’altra creatura … ” (Pur. XII, 25-26)

E che cosa si debba intendere per nobiltà è detto chiaramente nel Convivio: “dico adunque che, se volemo riguardo avere alla comune consuetudine di parlare, per questo vocabolo nobiltà s’intende perfezione di propria natura in ciascuna cosa. Onde non pur dell’uomo è predicata, ma eziandio di tutte le cose; ché l’uomo chiama nobile pietra, nobile pianta, nobile cavallo, nobile falcone, qualunque in sua natura si vede essere perfetto. E però dice Salomone nell’Ecclesiaste: Beata la terra lo cui re è nobile, che non è altro a dire se non lo cui re è perfetto, secondo la perfezione dell’anima e del corpo; e così manifesta per quello che dice dinanzi quando dice: Guai a te, terra, lo cui re è pargolo, cioè non perfetto uomo; e non è pargolo uomo pur per etade, ma per costumi disordinati e per difetto di vita, siccome ammaestra il Filosofo nel primo dell’Etica” (IV, 16).

Luce e perfezione: ecco dunque le essenziali e qualificanti attribuzioni con cui

Dante indica l’originaria natura de “l ‘imperador del doloroso regno

Con la caduta dal cielo della luce egli però viene ad assumere dei tratti mostruosi: “S ‘el fu sì bel com’elli è ora brutto” (Inf. XXXIV, 34).

Mi viene qui in mente una frase collocata sotto un quadro di Goya:

“Quando all’uomo viene meno la luce della ragione, allora nascono i mostri ‘

Il capo di Lucifero, uno e trino, diviene il rovescio, l’antitesi simbolica della trinità di Dio ed anche la diversa colorazione delle tre facce (una rossa, l’altra livida, la terza nera) è chiaramente allusiva di alcune tipiche componenti negative, quali l’odio e l’ignoranza, che la privazione della luce provoca nell’animo dei dannati.

In corrispondenza di ciascuna faccia fuoriescono due ali e perciò Lucifero ha sei ali, come i quattro animali che stanno intorno al trono di Dio secondo l’Apocalisse.

E un’immagine piuttosto frammentaria di Satana, una raffigurazione fatta con particolari simbolici più validi per effetto d’antitesi che per significazione propria. Dice il De Sanctis: “La poesia qui è quasi naufragata nei particolari simbolici entro i quali si perde l’attenzione. Domina l’allegoria. Il lettore non distratto da alcuna impressione estetica, è tutto dietro a cercare il senso di ciascun particolare; sicché i giganti e Lucifero sono piuttosto segni di idee che proprie e vive realtà. Perché Lucifero ha tre facce? Perché ciascuna faccia ha un colore proprio? E che significano quei colori? Pullulano infiniti perché, lasciati alle dispute dei commentatori e rimasti il solo interesse in queste rappresentazioni inestetiche”.

Improvvisamente però questa figurazione, immobile nella sua grandiosa mostruosità, si anima:

“con sei occhi piangea e per tre menti

gocciava ‘l pianto e sanguinosa bava ” (Inf. XXXIV, 53 – 54).

L’elemento umano sembra ricostruire, d’un tratto, l’immagine di un Diavolo che rinnova eternamente, con il pianto, il dramma della sua colpa. Quale essa sia Dante lo ha già chiaramente espresso:

“e contra ‘l suo fattore alzò le ciglia ” (Inf. XXXIV, 35).

Ma fu soltanto un “non serviam” la causa della sua caduta?

Dante ci fornisce a questo punto una teoria sua, originale:

. Colui che volse il sesto a lo stremo del mondo, e dentro ad esso distinse tanto occulto e manifesto

non poté suo valor sì fare impresso in tutto I ‘universo, che ‘l suo verbo non rimanesse in infinito eccesso.

E ciò fa certo che ‘l primo superbo che fu la somma d’ogne creatura per non aspettar lume cadde acerbo ” (Par. XIX, 40 – 48)

Alcune immagini rientrano nell’ambito di quella tradizione di origine cattolica cui Dante ha mostrato di volersi attenere: l’espressione il primo superbo che ripropone quella dell’orgoglio di Lucifero, e la sua condizione di somma d’ogni creatura con quella precedentemente indicata di nobil creato.

Che però egli sia caduto anzi tempo (acerbo), per un atto di impazienza, per non aver voluto o saputo attendere la luce (per non aspettar lume) è una visione che non compare nella diabologia tradizionale.

Qualcuno è giunto ad ipotizzare che Dante intendesse dire che Lucifero si ribellò … “prima chefosse compiuto il periodo assegnato come prova agli Angeli”.

Un Dio che impone a delle creatura perfette come gli angeli un periodo di apprendistato prima di concedere un supplemento di luce mi pare una grottesca trasposizione di elementi terreni, stavo per dire massonici, nella sfera del divino. E l’immagine del sesto (compasso), di cui Dio si serve per definire gli estremi confini del mondo, potrebbe avvalorare tale ipotesi!

Per questo uno scrittore cattolico si domanda preoccupato: “È mai possibile che l’angelo più perfetto avesse bisogno di una successiva illuminazione per meglio comprendere l’unicità e l’onnipotenza del Creatore? È possibile che Dio non abbia dato alle creature angeliche, fin dal primo momento, tutta quella luce della quale voleva illuminarle? [1]E Dio, nel caso contrario accennato dal poeta, avrà fatto sapere ai suoi angeli che solo in futuro, dopo un certo tempo, avrebbe concesso loro quel tanto di lume che ancora mancava alla loro perfezione? E nel caso che gli angeli non siano stati avvertiti di questo supplemento di grazia che dovevano attendere con pazienza, si può accusare Lucifero di non aver voluto aspettare e di essere, perciò, acerbo?”

Sono interrogativi a cui e teologi non sanno rispondere, a maggior ragione non voglio caricare io il discorso di eccessiva responsabilità … diabologica.

Quello che tuttavia mi pare di poter sostenere è che la più grave colpa di Lucifero, per Dante beninteso, non è tanto l’orgoglio quanto l’impazienza, dalla quale solo in seguito e come logica e inevitabile conseguenza, è maturato il peccato di superbia.

Un’ultima e non meno sconcertante e demistificante immagine di Satana è quella raffigurata nel Canto XXVII del Paradiso e che Dante pone sulla bocca di Pietro:

“Quelli c ‘usurpa in terra il luogo mio il luogo mio, il luogo mio che vaca ne la presenza del Figliuol di Dio

fatt ‘ha del cimiterio mio cloaca del sangue e de la puzza; onde il perverso che cadde di qua sù, là giù si placa ‘

È l’immagine di un perverso soddisfatto, beato, assaporante con un ghigno beffardo l’amara soddisfazione di vedere un pontefice a lui somigliante (Bonifacio VIII da Jacopone da Todi definito Lucifero novello) che fa del Vaticano la fogna entro cui si versano tutte le lordure e le immondizie della curia.

TAVOLA  DEL  FR.’. G. Bltt


[1]  

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FUORI DAL MONDO

FUORI DAL MONDO

Maestro Venerabile, Fratelli carissimi,

gli psicologi usano dire che l’uomo cresce attraverso le relazioni con i suoi simili, ma quando i rapporti si interrompono a causa di eventi negativi e collocano questa persona al di là dell’umano, essi formano il vuoto nell’anima di chi li ha vissuti.

In situazioni come queste viene annientato il fondamento che consente di vivere insieme agli altri: mi riferisco in particolare alla fiducia nelle cose, nelle persone, nella vita,

Parlo di fiducia perché normalmente non possiamo dirci fiduciosi, magari inconsapevolmente, negli atti e nelle relazioni della nostra vita quotidiana: fiducia in se stessi e nelle possibilità creative proprie.

Cosa succede quando la nostra psiche ha sperimentato offese alle quali non può opporre alcuna resistenza?

Viene spezzata questa immagine che ognuno di noi si porta si porta dentro ed allora vivere diventa impossibile.

L’uomo a questo punto è libero di decidere della propria esistenza.

In fondo, la nostra esistenza, è veramente “nostra”.

Qualsiasi argomento che voglia seriamente dimostrare il contrario si fonda su verità non verificabili.

Certe condizioni fisiche e psichiche, sono così intollerabili che i veri “malati” si possono dimostrare coloro che decidono, loro malgrado, di continuare a vivere.

Condizioni di prevaricazione, ingiustizia, ricatto, si reggono sul fatto che gli uomini verso i quali queste azioni vengono rivolte hanno neanche più la forza di darsi la

morte.

Queste non sono enunciazioni astratte o filosofiche. Sono problemi di ogni uomo che è “costretto” a vivere nonostante che il senso della vita e le sue gratificazioni siano del tutto scomparsi.

Sfuggire ad una vita senza dignità.

Chi stabilisce il limite di “dignità”? Chi potrà dire ad altre persone di mantenersi in vita se questa sta vivendo un’esistenza priva di quelle dignità che possono rendere la vita degna di essere vissuta?

Non è crudele invocare la ricerca di verità interiori o di conforti religiosi?

La maggior parte delle persone desidera essere amata o almeno accettata e vuole amare o almeno accettare gli altri.

Se questo desiderio è stato spezzato da esperienze crudeli ritengo sia doveroso non emettere giudizi e lasciare che la disperazione umana scelga il proprio personale destino.

TAVOLA DEL D^FR.’. C. A. Cst,

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