GARIBALDI E LA PACE NELLA REPUBBLICA PACIFISTA 1TALIANA (1882-1915)

GARIBALDI E LA PACE NELLA PUBBLICISTICA PACIFISTA ITALIANA (1882-1915)

l . Premessa

Dando alle stampe La nascita del moderno pacifismo democratico ed il Congrès International de la paix di Ginevra nel 1867 1 ‘ Michele Sarfatti rilevò che la “zona d’ombra che ancora oggi caratterizza i rapporti dell’Eroe dei Due Mondi con il pacifismo ed i pacifisti” non doveva “intendersi come buio o silenzio”, giacché se ne erano in precedenza variamente occupati Giuseppe Fonterossi, Giuseppe Santonastaso, Anthony P. Campanella, Letterio Briguglio e Aldo Alessandro Mola. Ma sottolineò che, “forse perché lo stesso nizzardo, consapevole delle radici che aveva il suo mito, dedicherà solo poche righe delle sue Memorie al congresso del 1867 e alla LIPL; forse perché in genere i biografi che gli si sono avvicinati sono stati attratti principalmente dalle sue imprese militari: forse perché il movimento pacifista ha scarsamente goduto di storici e custodi della propria memoria; molto vi è ancora da ricercare e molto vi è ancora da riflettere sull’impegno pacifista di Garibaldi”i2’.

Tale considerazione vale tuttora. Tra le ipotesi da Sarfatti formulate la più corposa ci pare quella relativa alla scarsa attenzione dalla storiografia internazionale prestata ai movimenti e alle iniziative di pace sviluppatisi nel mondo fra l’Ottocento ed il primo conflitto mondiale (e oltre). Dal canto nostro desideriamo però mettere in evidenza anche l ‘ arduità delle perlustrazioni archivistica e pubblicistica. Non già che le pochissime indagini sinora condotte non siano in maggioranza ottime, e talvolta eccellenti. Tuttavia l’imponente documentazione disponibile, conservata non solamente in fondi  pubblici, ma altresì presso privati, necessita onerosi sistematici scavi pluriennali. Per di più il deterioramento del materiale procede, quando non accade che biblioteche pubbliche decidano (almeno in Italia) di eliminare pubblicazioni altrove introvabili.

Va notato poi che le preziose opere scientifiche fin qui realizzate sembrano ignorate da taluni maîtres à pensar e addirittura da storici di vaglia. Per limitarci ai casi più illuminanti citiamo Norberto Bobbio, il quale sostenne che nel nostro Paese “una tradizione di pensiero e di azione pacifistica non è mai esistita”, pur soggiungendo che, se durante la Grande Guerra “qualche spiraglio di pacifismo vi fu”, si trattò “di pacifismo umanitario, prolungamento politicamente inoffensivo del mazzimanesimo, e di pacifismo giuridico, supremo ideale delle varie leghe o società per la pace , e François Fejto”, secondo cui uno dei fenomeni “più sorprendenti della fine del secolo XIX e dell’inizio del XX fu la crescita apparentemente irresistibile, in Europa e negli Stati Uniti, del movimento pacifista”, il pacifismo “dei progressisti liberali borghesi” ricevette “il sostegno delle masse socialiste, democratiche e anarchiche” e i congressi pacifisti attirarono “centinaia di migliaia di zelatori entusiasti”.

Ma un’ipotesi. da Sarfatti non avanzata, è a nostro avviso altrettanto importante. Dopo la guerra franco-prussiana e il fallimento delle tentate mediazioni libero-muratorie il Gran Maestro onorario del Grande Oriente d’Italia, Giuseppe Garibaldi, “era venuto attribuendo un nuovo compito alla Massoneria”, il perseguimento dell’unità mondiale. cui “si sarebbe dovuti giungere non attraverso il rovesciamento armato degli Stati esistenti, bensì con la loro lenta aggregazione in plessi via via più ampi, entro i quali sarebbero stati risolti i contrasti Poiché sino a un’età relativamente recente gli studi storici sulla Massoneria sono stati ostacolati, salvo rare eccezioni, da pregiudizi faziosi di segno opposto, ci sembra lecito ritenere che proprio il massonismo di Garibaldi abbia variamente arrecato  disturbo a non pochi ricercatori. Del resto questo tema è tuttora controverso, sia per antiche condanne, sia a causa di “scandali” freschi. A riprova va considerata con estrema attenzione, per esempio. la dissociazione dello stesso Sarfatti, dalla scelta di Mola di inserire, nell’antologia Garibaldi vivo, “il Memorandum del 1860 ed il discorso di Ginevra (assieme ad altre lettere direttamente connesse alla proposta dell’arbitrato internazionale) all’interno del capitolo che riporta gli scritti massonici del generale”, dacché in tal modo “il recupero di un aspetto garibaldino molto spesso trascurato finisce per trasformarsi nella creazione di un nuovo quadro di riferimento assoluto e limitante”181 .

Per quel che concerne la disattenzione storiografica nei riguardi dei movimenti pacifisti, ai motivi di carattere generale sopra sommariamente descritti occorre poi aggiungerne uno tipicamente italiano. Le correnti pacifiste attive nella nostra penisola furono animate massimamente da (pochi) radicali, repubblicani e liberali di varia scuola, ascendenza e osservanza. Tuttavia la storiografia sui partiti, adottando un’impostazione che “è certamente frutto anche di un forte bisogno intellettuale legittimamente impostosi dopo il 1945, la necessità cioè di fare luce sulle origini di quei partiti che si accingevano a giocare un ruolo predominante nella politica della nuova Italia”, ha prodotto “una abbondanza di ricerche sul partito comunista e socialista e sul movimento dei lavoratori ed anche sul cattolicesimo politico”, mentre su repubblicani, democratici e liberali “si rivela scarsa e legata alla trattazione frammentaria di momenti isolati

Scopo del presente lavoro non è però l’approfondimento del pacifismo di Garibaldi bensì la ricerca, sinora elusa dalla storiografia, delle tracce da esso lasciate nella pubblicistica pacifista italiana tra il passaggio all’Oriente Eterno del Nizzardo e il primo conflitto mondiale.

2. I movimenti pacifisti nel mondo dall’età napoleonica alla Grande Guerra

Correva l’anno 1809. Taluni gruppi religiosi guidati da quaccheri proposero in Gran Bretagna la costituzione di società pacifiste. Quei pionieri credevano alla perfettibilità dell’uomo, assicurata dalla scintilla divina presente in ogni essere. Per conseguenza si astenevano rigorosamente dal recare offesa a qualunque aspetto della vita e della personalità umana. Si battevano contro la schiavitù, la tratta dei negri, l’alcolismo, la pena di morte, le guerre. Anche contro le guerre di difesa. (Giova ricordare, d’altronde, che, dopo la vittoria riportata ad Hastings il 14 ottobre 1066 da Guglielmo di Normandia sulle truppe di Aroldo II, il suolo inglese non aveva più subito invasioni). Il 14 giugno 1816 un quacchero, William Allen, fondò la Society for the promotion of Permanent and Universal Peace, da cui germinarono le Auxiliary Peace societies che si diffusero rapidamente anche nel Galles, in Scozia e in Irlanda.

Negli Stati Uniti d’ America, al contrario, la vicinanza della guerra d’indipendenza e di quella scatenata, essendo presidente James Madison, per azzerare l’influenza britannica sul continente e per acquisire alla Confederazione il Canada (1812-1914), e l’impossibilità dei quaccheri di pilotare a loro piacimento la corrente pacifista, fecero sì che essa si scomponesse in due tendenze. L’una, rappresentata dalla New York Peace Society, costituita il 14 agosto 1815 dal commerciante David Low Dodge, si opponeva a tutte le guerre, esplicitamente richiamandosi al messaggio di Cristo. L’altra, cui diede corpo la Massachussets Peace Society, eretta il 26 dicembre 1815 dal pastore Noah Worcester, rifiutava invece il pacifismo assoluto. Nel 1828 le diverse società pacifiste americane si riunirono in un’ unica organizzazione nazionale. l’American Peace Society, senza per altro che i dissidi fra radicali e moderati cessassero. Neanche il trionfo del pacifismo integrale, avvenuto nel 1837, riuscì a comporre le discordie, cosicché l’ala estremista si raggruppò nella New England Non-Resistance Society.

Intanto la londinese Peace Society cercava di far conoscere le proprie idee anche nell’ Europa continentale. Uno dei suoi dirigenti, Thomas Clarkson, ebbe un abboccamento con lo zar Alessandro I Romanov. Il quacchero Joseph Tregelles Price consegnò al re di Spagna Ferdinando VII le pubblicazioni della società, poi visitò a Parigi la neonata (1821) Société de la Morale Chrétienne, che annoverava tra i suoi membri Benjamin Constant. François Guizot, Alphonse Lamartine, Léonce-Victor de Broglie, Hippolyte Carnot ed era presieduta da François-Alexandre-Frédéric de la Rochefoucauld-Liancourt.

Aderendo, intorno alla fine degli anni quaranta, ai principi liberoscambisti, le società inglesi ebbero un certo qual successo in Europa e posero le basi delle prime riunioni internazionali della pace, appellate Congressi degli Amici della Pace Universale, che furono celebrate a Londra ( 1843), Bruxelles (1848), Parigi (1849) e Francoforte (1851 ).

Il Congrès international de la Paix di Ginevra (1867) principiò la seconda serie di assise. Mentre Napoleone III chiedeva di portare al Reno le frontiere del suo Impero per reagire al rafforzamento della Prussia bismarckiana recente vincitrice dell’Austria, nella città svizzera fu decisa la fondazione della prima associazione pacifista democratica europea, la Ligue internazionale  18de la paix et de la liberté, con cui Garibaldi fu in costante contatto dal 1872 al 1881

Una basilare evoluzione del pacifismo organizzato fu però contraddistinta segnatamente dai venti Congressi universali della Pace svoltisi a Parigi ( 1889), Londra (1890), Roma (1891), Berna (1892), Chicago (1 893), Anversa (1 894), Budapest (1896), Amburgo (1897), Parigi (1900), Glasgow (1901 ), Principato di Monaco ( 1 902), Rouen ( 1903), Boston (1904), Lucerna (1905), Milano (1906), Monaco di Baviera (1907), Londra (1908), Stoccolma (1910), Ginevra (1912) e L’Aia (1913). La costituzione del Bureau International de la Paix (1891) significò l’istituzionalizzazione di un movimento estremamente composito ma consapevole della necessità e dei vantaggi di un efficace e assiduo coordinamento.

Parallelamente si riunì la Conferenza interparlamentare, la quale nel 1899 prese il nome, che tuttora mantiene, di Unione interparlamentare: a Parigi (1889), Londra (1890), Roma (1891), Berna (1892), L’Aia (1894), Bruxelles (1895), Budapest (1896), Bruxelles (1897), Christiania (1899), Parigi (1900), Vienna (1903), Saint-Louis (1904), Bruxelles (1905), Londra (1906), Berlino (1908), Bruxelles (1910), Ginevra (1912), Aia (1913).

Ai movimenti pacifisti aderivano in effetti persone spinte da moventi anche molto diversi tra loro: non violenti intransigenti che sulla base di ragioni religiose o morali condannavano tutte le guerre; filantropi che per umanitarismo avversavano le guerre di aggressione e più raramente quelle di difesa; economisti liberoscambisti a giudizio dei quali la libera circolazione delle merci avrebbe unito le nazioni così strettamente da impedire i conflitti armati; industriali e commercianti interessati insieme al mantenimento della pace e alla soppressione delle barriere doganali e perciò sostenitori degli economisti liberoscambisti; repubblicani convinti che la principale causa di guerra consistesse nella sovranità di cui erano titolari le monarchie e che in risposta preconizzavano la repubblicanizzazione degli Stati: radicali e liberali progressisti che si sforzavano di organizzare politicamente la società nelle nazioni. di ridurre le spese militari attraverso un miglioramento delle relazioni internazionali e di recuperare in tal modo le risorse necessarie alle  riforme sociali da essi auspicate; giuri sti che, constatate le colossali lacune del diritto internazionale, individuavano nel progressivo sviluppo di quest’ultimo la strada maestra per la riduzione delle controversie internazionali; socialisti che accusavano la società capitalistica di essere il motore delle guerre, salvo poi dividersi (molto aspramente) tra riformisti e rivoluzionari. Ma anche uomini politici internazionalisti decisi a costruire una cooperazione interstatuale.

Ci fu collaborazione fra  Unione interparlamentare e il Bureau International de la Paix? Talvolta sì. soprattutto nel senso Bureau-Unione. Nondimeno già nel 1892 l’Unione si staccò dalle società pacifiste allestendo un proprio ufficio interparlamentare e, dopo aver tenuto

sue conferenze nelle stesse città prescelte dai Congressi universali, abbandonò spesso questa consuetudine. Pur lavorando entrambi per un ordine internazionale basato sul diritto, pacifisti e interparlamentari erano invero separati da pesanti differenze.

3. Le correnti pacifiste in Italia

Non è nostro compito offrire in questa sede un’ articolata sintesi delle intricate vicende delle correnti pacifiste italiane, su cui contiamo di tornare molto presto e diffusamente dando alle stampe i primi risultati di alcuni anni di scavi archivistici c spogli pubblicistici. Ci limitiamo dunque a osservare che il torinese Bertinatti, intervenuto il 21 settembre 1848 al secondo Congresso degli Amici della Pace Universale dimostrò che una rondine non fa primavera. La rivoluzione nazionale non era ancora compiuta. Sicché non sorprende la risolza con cui Marco Minghetti qualificò il “voto della pace universale (nato) prima nella gran mente dell’ Alighieri” donde passò ad altri “filosofi” che, “dopo di lui, idearono un anfizionico mondiale, o almeno europeo, destinato ad esser l’arbitro delle questioni che nascessero fra gli Stati”, e, da ultimo. rinnovellato e caldeggiato “da una società filantropica d’ America, che trasrerì sua sede in alcune regioni di Europa”, un “[n]obile intento, che sarebbe per ogni parte laudevole, se non fosse  di esagerazione, e inefficace nei mezzi che si propongo. no”. Imperroché, argomentò Minghetti, “la speranza di comporre i litigi dei potentati mercé un tribunale di arbitri, è veramente utopia: mentre, se il tribunale fosse disarmato, non sarebbe ubbidito; se armato a ragguaglio del suo incarico, sarebbe un potentato più forte degli altri. e imporrebbe la propria volontà, anziché farsi conciliare delle altrui.

Otto anni dopo “il più ascoltato divulgatore di cultura storica dell’Ottocento italiano”, Cesare Cantù”  figurò tra i primi iscritti alla Ligue internationale et permanente de la paix promossa dal francese Frédéric Passy. Ma ben più numerose furono le adesioni italiane al congresso convocato da Charles Lemonnier a Ginevra nel medesimo 1867: il Grande Oriente d’Italia, la milanese Società d’istruzione popolare, le napoletane Libertà e Giustizia e Falange Redenta, La Libertà di Ancona, le Società di Liberi Pensatori di Milano e Varese, le società operaie di Ostuni e Arpino, la Società di Mutuo Soccorso di Tunisi, la Loggia Dante Alighieri di Ravenna, la Società patriottica femminile di Milano, il Comitato napoletano per l’emancipazione delle donne italiane… A Ginevra confluì, in aggiunta a Garibaldi, uno scelto manipolo del variegato magma democratico, libero-muratorio e libero-pensatore composto, tra gli altri, da Benedetto Cairoli, Mauro Macchi, Timoteo Riboli, Giuseppe Ceneri, Vincenzo Caldesi, Alberto e Jessie White Mario, Giovanni Pantaleo, Quirico Filopanti, Carlo Gambuzzi. Giuseppe Missori, Giulio Adamoli. Nel comitato centrale della Ligue internationale de la paix et de la liberté entrarono Cesare Stefani, Tullio Martello, Alberto Mario, Ceneri, Gambuzzi e Riboli. II quale Riboli, in veste di consigliere della sezione di Torino — presieduta dall’ebreo David Levi, “l’intellettuale più prestigioso del primo gruppo dirigente nazionale” massonico’ ma anche l’antico mazziniano divenuto monarchico costituzionale — del comitato della Ligue, firmò con Levi, Giovanni Antonio Rossi, Angelo Bosio. Pietro Maguenonti, Enrico Coppia, G.B. Triberti, Marco Brava, Federico Pareto e Francesco Giraudi, all’inizio del sessennio rivoluzionario (1868-1874), un infocato indirizzo alla “Democrazia Spagnuola”US)

Con Garibaldi, Victor Hugo, Aurelio Saffi, Charles Lemonnier, il Grande Oriente della Massoneria italiana (pilotato da Giuseppe Mazzoni), Giuseppe Mussi, Agostino Bertani, Giuseppe Marcora, Mauro Macchi, Pietro Ellero c Alberto Mario, Riboli si associò poi al Comizio promosso l’11maggio 1878 dalle Socielà Operaie milanesi, mentre sembrava potesse scoppiare una guerra tra la Gran Bretagna e la Russia che, sconfitta la Turchia, aspirava all’egemonia sui Balcani. Di lì nacque in Milano

la Lega di Libertà, Fratellanza e Pace (5 settembre 1878), con sezioni a Torino, Reggio Emilia e Crema, che, col Consolato Operaio e con una misteriosa Società Umanitaria (da non confondere con quella fondata nel 1893 in virtù del lascito di Prospero Moisè Loria’, fu la radice dell’Unione lombarda per la pace e l’arbitrato internazionale, istituita nel capoluogo lombardo il 3 aprile 1887.

Assunto, il 9 marzo 1890, con l’approvazione del nuovo Statuto, il titolo di Società internazionale per la pace — Unione Lombarda, e costituita in ente morale con R.D. 15 febbraio 1891, l’associazione insubre fu di gran lunga la più solida fra le società pacifiste italiane. Dei 37 Circoli, Società, Unioni e Comitati aderenti e rappresentati al Congresso di Roma per la Pace e per l’Arbitrato Internazionale (12-16 maggio e dei 79 Comitati, Associazioni e Leghe aderenti al Congresso universale della Pace allestito nell’Urbe nel 1891, pochissimi sopravvivevano invero tra lo scorcio dell’Ottocentot21 e l’alba del Novecent Le correnti pacifiste non si irrobustirono un gran che neanche nell’età giolittiana. La fioritura di Società operaie e militari di S.M., Camere del Lavoro, Leghe professionali, Università popolari, “Istituzioni diverse” e Istituti educativi intervenuti o rappresentati o aderenti al primo Congresso Nazionale delle Società per la Pace (Torino, 29, 30, 31 maggio e 2 giugno 1904)/ non deve trarre in inganno. Eloquente, a questo riguardo, la lista dei delegati e aderenti al quindicesimo Congresso Universale della Pace che ebbe luogo a Milano nel 1906  . Le uniche attivamente durevoli società pacifiste italiane furono, oltre l’Unione Lombarda, la Società per l’ Arbitrato Internazionale e per la Pace di Torino e quel Comitato di Torre Pellice della Società Internazionale per la Pace che nel 1899 annoverava fra i suoi sodali, con pastori valdesi e ministri evangelici, Enrichetta Giolitti, figlia di Giovanni e moglie di Mario Chiaraviglio, futuro alto dignitario del Rito Simbolico Italiano. Ad un livello più o meno inferiore vanno collocati altri gruppi quali, per esempio, la Società

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per la Pace e l ‘ Arbitrato Internazionale di Perugia e la Lega Italiana per la Pace di Beniamino Pandolfi-Guttadauro, già segretario generale della Conferenza interparlamentare, Presidente della Società della Pace di Venezia, Presidente Onorario della torinese Società Escursionisti “I Pionieri della e. sotto la Gran Maestranza di Ernesto Nathan, membro della Giunta del Grande Oriente d’Italia.

4. Garibaldi e la pace nella pubblicistica pacifista italiana

Sino dai Congressi degli Amici della Pace Universale le società anglosassoni misero l’accento sul grande valore della più ampia possibile circolazione delle proprie idee. Non diversamente si comportarono i Congressi universali della Pace di Londra (1890), Roma, Anversa, Amburgo, Principato di Monaco, Lucerna e l’ Assemblea generale di Torino (1898). Quegli sforzi produssero una fitta (ma molto eterogenea) pubblicistica: opuscoli, volumi, almanacchi, annuari c soprattutto fogli e periodiciC9‘. È vero che i pacifisti segnarono al loro attivo l’acquisto dell’Independance Belge, il grande quotidiano liberale di Bruxelles, effettuato verso i] 1896 da Gaston Moch, Charles Richet, Premio Nobel della Medicina nel 1913, ed Emile Arnaud, succeduto all’ex saint-simoniano Charles Lemonnier nella presidenza della Ligue internationale de la paix et de la liberté. Ma si pensi alla tormentata esistenza della pugnace rivista della Ligue internationale de la paix et de la liberté, “Les Etats-Unis d’ Europe — Die Vereinigten Staten von Europa” (titolo a intervalli irregolari completato da “Gli Stati Uniti dell’Europa”, “The United States of Europe” e “Los Estados Unidos de Europa e della Carnegie Endowment for International Peace definì le più rilevanti testate pacifiste europee: “Die Friedenswarte”, il periodico redatto dal massone austriaco Alfred Hermann Fried, collaboratore di Bertha von Suttner e Premio Nobel della Pace nel 1911 (circa 2.000 copie); “La Paix par le Droit”, in cui scrivevano i “fratelli” Charles Richet e Lucien Le Foyer, celebre libero-pensatore, insieme col venerato Frédéric Passy, Premio Nobel della Pace nel 1901, e col protestante Théodore Ruyssen, futuro segretario generale dell’Union internationale des Associations pour la Société des Nations (circa 4.500); “Concord”, la rivista dell’International Arbitration and Peace Association eretta nel 1880 dall’inglese Hodgson Pratt (circa 1 .800)’31). Né si dimentichi che l’organo del Bureau International de la Paix, intitolato dapprima “Cotrespondance autographiée” (1892-1895), quindi ”Corespondance bi-mensuelle” (1895 – Nr. 5, X VIC Année, Berne, IO mars 1911; dal Nr. 6. XVIe Année, Beme, 25 mars 1911 , “Correspondance bimensuelle”), acquistò nuova linfa soltanto per mezzo del sussidio concesso al BIP dalla dotaLione Carnegie, che rese possibile la stampa di 20.000 copie del “Mouvement Pacifiste” I et 2, 15 Janvier 1912). Fortuna molto minore arrise pcr altro all’organo della Conferenza interparlamentare, la “Conférence Interparlementaire”, uscita appena dal 1893 al 1897.

Fra “[tlhe most important European periodicals devoted to the movement for peace and arbitration” la Carnegie Endowment non segnalò però la ‘ ‘Vita Internazionale” apparsa a Milano dal 5 gennaio 1898 e profondamente imbevuta dei valori etici e degli ideali di progresso espressi dal positivismo votato alle riforme sociali. Eppure fino allo sbarco a Tripoli la testata guidata dall’antico direttore del “Secolo”, Ernesto Teodoro Moneta, fu l’indiscussa vessillifera delle società pacifiste italiane, che con essa largamente si identificarono. Alla “Vita Internazionale” che, stando a Moneta, costò sempre “molto più del suo reddito -l’Unionene Lombarda affiancò inoltre un popolare almanacco la cui tiratura (costantemente celata invece riguardo alla rivista) oscillò tra le 30.000 e le 50 000 copie e fu fonte di non del tutto trascurabili introiti.

Meno consistenti e tenaci “La Libertà e la Pace”, portavoce della Società per la Pace e l’ Arbitrato internazionale di Palermo, uscita dal 1891 al 1898 per impulso precipuo di Giuseppe

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D’Aguanno, uno studioso schiettamente darwinista, e il mensile della Società Escursionisti “l Pionieri della Pace”, mentre fogli variamente esili o effimeri furono la taurinense “Pace” ( 1891 ), diretta dal chimico c filantropo cosmopolita Gian Giacomo Arnaudon; il “Bollettino dell’ Associazione Romana per la pace e l’ arbitrato” (1893) pilotata da Ruggero Bonghi, dal moderato filocattolico Cesare Facelli e del ‘fratello” Antonio Teso; l’ “Opera Pacifista Italiana” (1909), notiziario trimestrale della Società per l’ Arbitrato Internazionale e per la Pace di Torino in cui militava Achille Loria; la “Cronaca del Movimento Pacifista” (1912) dell’orientalista Angelo De Gubernatis, in acerrima lotta, a proposito dell’ impresa di Libia, con la napoletana “Luce del Pensiero” di Domenico Maggiore e con “Guerra alla Guerra!” (1913), il bollettino della Federazione Italiana per la Pace e l’ Arbitrato promossa da Maggiore, Enrico Bignami, Edoardo Giretti, Arcangelo Ghisleri, Mario Falchi, Luisa Mussa, Anna Perti Casnati, Arturo Dolara, Ernesto Ghezzi, Alma Dolens, Paolo Baccari, Elvira Cimino e Vittore Prestini.

Quanto spazio il pacifismo di Garibaldi ebbe nella multiforme pubblicistica prodotta dalle società italiane? Il Gran Maestro aggiunto Onorario ad vitam, Pirro Aporti, mise l’accento sulla “permanente causa di guerre politiche (risiedente nel bisogno di avere e di completare la patria” che Garibaldi. “guerriero sommo e convinto fautore di pace volle espressamente riservata al Congresso di  Angelo Mazzoleni, nel marzo 1879 fondatore con Ghisleri, Gabriele Rosa, Ernesto Pozzi e Costantino Mantovani della Consociazione Repubblicana Lombarda, diligentemente inventariò le principali iniziative pacifiste del generale* Ernesto Teodoro Moneta, che si qualificò per “un oscuro gregario di Garibaldi”, elogiò il Nizzardo in antitesi con la “generalità dei Isuoij concittadini” nei “tempi ordinari”, e principalmente con la “generazione di patrioti, i quali, sognando l’impossibile ritorno della grandezza romana, avrebbero voluto fare dell’Italia moderna, anziché una delle nazioni più libere e più civili, una potenza militare di prim’ordine Arcangelo Ghisleri individuò nell’uomo delle guerre sante, delle sole guerre giuste e legittime, guerre di liberazione non di aggressione e di conquista”, il “simbolo dell’ autentico nazionalismo italiano

Potremmo continuare: ma l’ elenco delle citazioni sarebbe brevissimo e le successive sarebbero ancora più fuggevoli di quelle sopra riportate: sicché ce ne asteniamo.

Che il pacifismo di Garibaldi sia stato evocato con assoluta parsimonia ci pare fuor di dubbio. L’individuazione dei perché richiede nondimeno la massima cautela. Si è tentati di arguire che l’ internazionalismo massonico garibaldino non fosse del tutto gradito a chi, come Moneta, talora aveva lanciato i suoi strali contro l’Ordine ed a chi, come Ghisleri, affiliatosi alla Comunione liberomuratoria “per inviti di Aporti”, presto se ne era allontanato chiarendo che “pei buoni e bravi, non c’e[ra] bisogno di quell’istituzione, perché già lavora[va]no del pari a muso scoperto nel campo profano e vi [avrebbero lavorato] anche se non massoni — per chi non [era] né buono né bravo cittadino, l’istituzione non

[avrebbe giovato]

né all’intelligenza né al carattere” . Ma ad Aporti ?

Svincolato da qualsiasi “scuola” o “partito” Garibaldi era tuttavia il campione più universalmente celebre della “democrazia italiana”. Ma da un lato questa non era affatto compatta (neanche nel campo garibaldiino dall’ altro le società pacifiste dovettero molto faticare, nonostante le assicurazioni date da Moneta  e dalle redazioni della “Libertà e la Pace  e della Pace  per scrollarsi di dosso l’accusa di essere “a base repubblicana”, dal momento che in Milano, “donde partì il movimento più attivo per la propaganda”, esso era capeggiato da “egregi democratici, noti per avere qualche globulo rosso nelle Non ci sembra perciò errato, né in fondo azzardato, supporre che il desiderio di cooperare con moderati quali, per esempio, De Gubernatiso Ruggero Bonghi, Carlo Alfieri di Sostegno, Cesare Facelli ed altri esponenti della “Federazione  Cavour  suggerisse ai democratici di tutte le sfumature di sfiorare appena il pacifismo garibaldino.

E certo comunque che i più prestigiosi e autorevoli “amici della pace” di ascrizione democratica sempre fervorosamente condivisero il più discutibile i capisaldi del pacifismo di Garibaldi, ovvero la controversa teoria della guerra giusta diversa ma non opposta rispetto a quella messa in onore da Sant’Agostino. Di siffatta teoria, che al tempo dell’impresa di Libia aveva provocato nelle loro schiere acerbe lacerazioni, essi fecero l’apoteosi durante fa Grande Guerra. Al Comitato Promotore del Congresso Internazionale per lo studio delle basi di un Trattato di Pace durevole Edoardo Giretti garantì il 10 novembre 1915 che, “pur avendo voluto, come cittadino italiano e rappresentante al Parlamento, l’intervento dell’Italia nell’attuale conflitto europeo”, egli “nulla [aveva] da ripudiare del [suo] ideale e dei [suoi I principii pacifisti”, perocché non era “mai stato fautore della pace ad ogni costo e senza onore”, e si era “risoluto ad assumere la [sua] parte di responsabilità nella dichiarazione di guerra fatta dal Governo italiano soltanto quando [si era] convinto che l’Italia non poteva, senza venir meno alle sue tradizioni più gloriose, assistere passivamente al trionfo della violenza sul diritto ed allo schiacciamento forse definitivo della libertà dei popoli e della giustizia internazionale.

Ovvio che Moneta plaudisse. Ma altri aveva deciso l’intervento e si accingeva a dirigere con ferrea disciplina quattro anni di mobilitazione nazionale. Con intuito di fine politico Vittorio Emanuele III, consapevole dell’insistenza con la quale il pacifista Garibaldi aveva proclamato la necessità di marciare col re solo fino a quando questi fosse stato al passo con la “nuova Italia”, aveva però saputo attrarre al suo fianco anche garibaldini, mazziniani e radicaldemocratici che per decenni avevano animato società, leghe, comizi e congressi per la pace.

TAVOLA DEL FR.’. Cl.  Spir.

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TOLLERANZA E LIBERTA’ RELIGIOSA

TOLLERANZA E LIBERTÀ RELIGIOSA

L’obbedienza alla religione è il punto più alto della costruzione prescrittiva, l’apice della Verità cui la libertà deve salire per estinguersi, il luogo dove l’ Assoluto pronuncia la sua sentenza contro il relativismo. Lo stesso Locke, che dedicò gli ultimi vent’anni di vita a scrivere in favore  della tolleranza e a proteggersi contro lo scandalo che ne seguiva, escludeva tuttavia la tolleranza verso gli atei, ritenendo che la mancanza di fede avrebbe svuotato di sanzione i “giuramenti e i contratti necessari all’organizzazione della convivenza civile.

All’origine il concetto di imperium aveva sottoposto l’individuo a un’ autorità a un tempo politica e religiosa; poi l’imperium si era spartito fra potere spirituale e potere temporale, secondo la teoria delle “due spade” che non potevano essere impugnate da una mano sola; e si era aperta la controversia fra i due poteri. Ma per entrambi  l’individuo restava sempre suddito, e la tolleranza poteva al massimo essere concessa alle minoranze religiose per ragioni di convenienza, e a condizioni onerose. Pontefici e sovrani potevano contendersi la precedenza nella titolarità del potere ma per il suddito dissenziente il trattamento abituale erano il bando, la confisca, la prigionia e (pare, dalla fine del XII secolo) le fascine del rogo. Ogni tanto nella duplice sudditanza si apriva un interstizio, una voce solitaria richiamava la separazione fra l’autorità della forza e    l’autorità della fede. Fino dai primi secoli Tertulliano distanziava la religione dalla politica (“nulla res magis aliena quam res publica”) e respingeva l’imposizione coercitiva della fede  “quae sponte suscipi debet, non vi”: e il re barbaro Teodorico scriveva per la penna di Cassiodoro agli ebrei genovesi “religionem imperare non possumus, quia nemo cogitur ut credat invitus”.

Ma ci sarebbe voluto un altro migliaio di anni perché la tolleranza fosse ammessa, per gradi e sempre con l’attitudine  forzata dell’accomodamento al male minore. Negli animi dogmatici restava (forse rimane ancora oggi) I ‘idea che tollerare ciò che si giudica il male equivalga a offendere ciò che si giudica il bene. Sul versante opposto, nel Settecento illuminista (c già prima all’inizio del secolo, nel parlamento inglese), i liberi pensatori consideravano la tolleranza, dapprima invocata come una grazia, ormai come un insulto alla libertà.

Proprio perché tocca il culmine del dissidio fra assoluto e relativo, la tolleranza in materia di religione ha aperto i] varco non solo alla libertà religiosa come diritto soggettivo ma al sistema complessivo dei diritti individuali. Se ne trova l’esempio e quasi il simbolo nel libro sui Diritti di libertà scritto nel 1926 da Ruffini pcr le edizioni di Gobetti. I Diritti di libertà di Ruffini seguono di soli due anni il suo corso di diritto ecclesiastico tenuto nel 1924 su  La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo. Il sodalizio fra il diritto soggettivo alla libertà religiosa e il sistema complessivo dei diritti individuali risalta nell’introduzione  di Piero Calamandrei alla seconda edizione del libro. pubblicata dopo la Liberazione:

“Se il Ruffini avesse potuto seguire dal 1926 fino ad oggi  l’immane dramma di questo ventennio, avrebbe visto la scienza giuridica tedesca non solo tornare, dopo l’avvento di Hitler, alla concezione autoritaria assertrice dell’onnipotenza dello Stato e negatrice delle libertà politiche individuali, ma arrivare addirittura a teorizzare l’abolizione della nozione di diritto soggettivo, di qualsiasi diritto soggettivo, cioè, in sostanza, della stessa rilevanza giuridica della persona: Kampf wider das subiektive Recht, che poi voleva dire. nel campo morale, guerra contro la personalità umana”.

I guasti prodotti dal fascismo in Italia erano stati di poco inferiori. Il regime abbinava all’obbligo dell’obbedienza politica l’ obbligo della religiosità esteriore, e al duplice obbligo corrispondeva una duplice irrisione della libertà di coscienza. L’infatuazione nazionalista costrinse la cultura italiana a un isolamento pernicioso dalle correnti più vive della spiritualità europea, e la repressione di ogni critica fece mancare gli anticorpi al  del contagio razzista che sfociò nella vile persecuzione  dei concittadini ebrei.

 TAVOLA DL FR.’.  Valerio Zanonc

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EMILIO SALGARI E LA MASSONERIA

EMILIO SALGARI

E LA MASSONERIA

Curando un’edizione annotata dell’unico romanzo autobiografico di Salgari, In Bohème Italiana (1909) un romanzo particolarissimo, privo d’avventure esotiche, nel quale non pochi personaggi reali, in particolare quelli della cerchia d’amici dello scrittore, sono nascosti con nomi fasulli, anagrammi e con altre maschere (lo stesso Salgari vi si sdoppia nei personaggi d’un pittore e del “letterato Roberto”), mi colpì la seguente  frase:

Tipo alla buona del resto. buon compagnone, e soprattutto vero bohèmien di istinti

Frase innocua, riferita a sé stesso, però avevo da poco appreso che:

…non poco del simbolismo che si riscontra nelle due maggiori società segrete di questi ultimi tempi, quali la Massoneria e la Carboneria. rimonta all’antico Compagnonaggio del dovere e che la voce italiana “compagnone”, riferita a gente allegra e burlona, può nascondere appunto il significato di appartenente al Compagnonnage, società di  compagnoni.

In più quel termine, “compagnone”, non mi risulta usato altrove dal Salgari. Nulla di più, comunque, d’una pulce nell’orecchio, dovuta allo sforzo che stavo compiendo di togliere il velo ai numerosi messaggi, alle allusioni ed agli ammiccamenti che Salgari ha disseminato nel libro.

Non feci cenno alla circostanza nella Postfazione al volume, nemmeno dopo aver notato che quasi tutti i personaggi citati correttamente nel romanzo, furono massoni: Guido Baccelli, Oreste Baratieri, Augusto Franzoj, Giuseppe Giacosa, Tommaso Villa…

Scrissi invece, sulla scorta di altri riscontri, di come Salgari si muovesse “con discrezione o addirittura senza consapevolezza”, nell’ambito politico dei repubblicani; di come fosse agevole rintracciare nei suoi romanzi inni al Risorgimento e di come il discusso anticolonialismo salgariano potesse derivare dalle teorie di Carlo Cattaneo Che “propugnò idee di amichevole collaborazione in contrasto con i comportamenti espansionistici

Dopo qualche tempo, occupandomi di un altro romanzo salgariano, I Drammi della schiavitù (1896), dove, ovviamente, Salgari ha tracciato pagine degne di Sir Samuel White Baker. autore d’una famosa spedizione nell’ Africa Centrale per l’abolizione della tratta dei negri, notai come nella prima edizione di quell’opera egli si fosse dichiarato apertamente “seguace convinto” del naturalista francese Jean Baptiste Pierre Antoine de Monet de Lamarck, il quale divulgò per primo la teoria dell’evoluzione, o meglio seguace di Darwin  Avrei presto appurato, a questo proposito, che:

La vulgata dell’evoluzionismo divenne presto uno dei punti d’incontro di certi massoni che, anche senza                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         averc una precisa cognizione dei contenuti scientifici del darwinismo e delle sue possibili implicanze socio-politiche. dalla strenua lotta sostenuta dalla Chiesa di Roma contro la sua diffusione e per la sua stessa provenienza dalla terra di Desaguliers e Anderson deducevano ch’esso fosse comunque un buon compagno di strada, se non verso la Vera Luce almeno per dissipare le tenebre più fitte…

Nelle stesse pagine di Aldo A. Mola, appresi che anche l’affare Dreyfuss, se non coralmente, aveva annoverato i massoni tra gli innocenti. ricordavo perfettamente come Salgari, nel racconto L’Isola del diavolo, avesse espresso analogo atteggiamento,  discostandosi clamorosamente, ad esempio, da uno dei suoi “maestri”: Jules Verne. Una presa di posizione ben precisa, dunque, se si pensa alla quantità di nozioni e di idee che sono pacificamente rifluite dalle pagine dell’autore francese a quelle salgariane.

La pulce nell’orecchio si stava annidando con maggior risolutezza. D’altro canto, poiché le tematiche di Salgari riflettono valori universali che, proprio in quanto tali, valgono per tutte le bandiere, anche d’opposto colore, non poteva essere rivelatore il fatto che riflettessero puntualmente i massonici ideali di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza.

Per puro spirito ermeneutico, per così dire, notai poi come Salgari si sia schierato contro la superstizione”; e come abbia idealizzato i Cavalieri di ancora in ottemperanza allo spirito massonico.

Troppo poco, comunque, per trarre conclusioni. Occorreva qualche segnale più forte, pur nella consapevolezza che ogni segnale, alla stregua del termine “compagnone”, potesse prestarsi ad una doppia lettura, lasciando perciò inalterata la situazione. D’ altra parte gl’indizi sono spesso, se in gran numero, sintomi di prova non facilmente oppugnabile.

Salgari nacque a Verona nel 1862 e vi rimase sino al 1893; si trasferì poi in Piemonte e a Torino visse gran parte del resto della sua vita, terminata tragicamente nel 1911.

Quando, eventualmente, avvenne la sua affiliazione alla Massoneria? E c’è, nella sua vita, qualche segnale che indichi uno di quei salti di qualità che si sogliono pensare caratteristici dei “fratelli”?

Nel 1883, giovanissimo e per di più dopo studi scolastici che possiamo definire catastrofici (ma era bravissimo in lingua italiana!), quasi improvvisamente, diventò redattore del giornale “La Nuova Arena”. Ne era direttore (e fondatore) Ruggero Giannelli, di simpatie monarchiche, futuro segretario di gabinetto del Ministro dei Lavori Pubblici on. Dari, nonché proveniente dalla direzione de “L’Arena”, facente capo a una società controllata dall’ala  conservatrice del partito liberale veronese Nel febbraio 1885, il massone Augusto Franzoj, reduce dal suo glorioso viaggio africano, si recò a Verona per tenervi una conferenza, dopo quelle già tenute a Vercelli, Milano e Bologna e come primo atto ufficiale si recò a visitare la redazione de “La Nuova Arena”, incontrandovi Salgari: il fatto è piuttosto strano se si considerano i movimentati trascorsi repubblicani di Franzoj, tanto più che a Verona, in contrapposizione al foglio monarchico di Giannelli, militava il giornale “L’ Adige”, di gran lunga più vicino alle simpatie politiche dell ‘esploratore

Altro avvenimento importante per Salgari: nel 1897. forse in seguito all’abitudine d’inviare copia dei suoi romanzi al componenti la Casa Reale, fu nominato Cavaliere per iniziativa del re Umberto I, che, come scrive Aldo A. Mola, fu “punto d’approdo e garante per i Fratelli ininterrottamente alternatisi nelle alte cariche dello stato…”. Nello stesso anno il giornale “La Gazzetta del Popolo della Domenica” gli riservava autorevoli e lusinghiere prefazioni, ad onta del fatto che l’opera salgariana, com’è noto, sia stata caratterizzata. finché visse lo scrittore, dalla più assoluta indifferenza da parte della critica letteraria e del mondo accademico.

A questo punto delle mie considerazioni potevo presumere d’aver evidenziato, ai fini che mi proponevo, una circostanza rilevante. Tanto più che l’ambito giornalistico torinese suddetto fu notoriamente abitato da personaggi quali Felice Govean e Luigi Pietracqua che furono tra i primi affiliati alla Loggia massonica “Ausonia”, fondata a Torino l’ 8 ottobre 1859. Loggia massonica che partecipò pubblicamente dopo la morte di Salgari, alla sottoscrizione a favore dei suoi figli con la donazione della somma di 50 lire.

Ancor più rilevante mi sembrò dopo aver rintracciato sulle pagine dello stesso giornale la precisa e inconfutabile fonte da cui Salgari trasse le notizie e le particolarità riferite a quel “Fiore di Risurrezione” che, gabellato per vegetale reale, è descritto nei romanzi Le Figlie dei Faraoni (1906) e Le Meraviglie del Duemi1a (1907).

La fonte è un articolo firmato con lo pseudonimo  ”Ramfis” apparso appunto su “La Gazzetta del Popolo della Domenica” con data 26 aprile 1891, e riguarda chiaramente il simbolismo della scienza sacra e quello massonico, con accenni ai Cavalieri di Malta-Crociati-Santo Graal-Risorgimento-anno 1848.Fu appunto scrivendo di questa scoperta che azzardai per la prima volta l’ipotesi dell’appartenenza di Salgari alla Massoneria, citando altri indizi di cui ero intanto venuto a conoscenza nel rileggere il citato Le Meraviglie del Duemila: una certa visione antisocialista, un probabile omaggio al massone F. A. Meslner. un eloquente omaggio a Guglielmo Marconi e a Garibaldi, il sia pur mal riuscito tentativo d’esaltare il principio dell’evoluzione sociale generale. E scrissi anche:

Il protagonista del romanzo Cartagine in fiamme. che si chiama Hiram come il sacerdote di Tebc dei riti massonici nel tragico finale riceve da Fulvia l’estremo saluto: “Addio fratello”. Altro caso, così impensabile perché sotto gli occhi di tutti, come la lettera rubata di Poe . riguarda l’appellativo con cui si apostrofano continuamente Sandokan e Yanez. (“fratellino” Ina anche “fratello”). personaggi che si è voluto accostare a    Garibaldi e Bixio, entrambi massoni,

Circostanza altrettanto interessante ho poi rilevato nel sunnominato romanzo Le Pantere d’Algeri, il cui protagonista è un giovane Cavaliere di Malta impegnato contro i pirati algerini nell’anno 1630.

Nel capitolo XI, in suolo nemico, un Normanno fregatario, da anni impegnato nella liberazione degli schiavi cristiani, accompagna il Cavaliere a stabilire un contatto con un anziano maltese, ex templare, inserito nella società alaerina nelle vesti di “mirab”, specie di santone:

Quando il mirab, che guardava a destra ed a sinistra, giunse a pochi passi dal fregatario, fissò su questi. per un momento, i suoi occhietti grigi cd un rapido trasalimento contrasse  il suo viso rugoso ed incartapecorito.

Il Normanno, con una mossa che pareva naturalissima, si era portata una [nano sulla fronte. tenendo tese tre dita e piegando le altre due. Il mirab aveva subito risposto a quel segno convenzionale accarezzandosi due volte la lunga e candida barba. poi aveva continuato ad inoltrarsi fra la folla, scomparendo per una porticina che s’ apriva nell’estremità  della moschea’ Da me interpellato in proposito, il Prof. Aldo A. Mola ha riconosciuto nel “segno convenzionale” salgariano il “signe de detresse” previsto dai massoni in caso di pericolo, che peraltro il romanziere potrebbe agevolmente aver appreso da una delle tante traduzioni delle opere di Léo Taxil che all’epoca circolavano in

Resta il fatto, mi pare, che la scelta d’un segnale del genere, in un romanzo d’avventure, possa considerarsi eloquente, tanto più se aggiunta agli indizi sinora elencati.

Nel medesimo romanzo, d’ altra parte, è possibile — a chi conosce il contorto modo di Salgari di veicolare messaggi particolari — rintracciare un ulteriore. possibile ammiccamento.

Il barone Carlo di Sant’Elmo. protagonista del romanzo, non può certo considerarsi un autoritratto del romanziere, il quale peraltro ha ceduto in moltissime occasioni alla tentazione di mettere un po’ di se stesso nei propri personaggi. E anzi. nella descrizione fisica, esattamente l’opposto di Salgari né più diverso potrebbe essere. Però un particolare recondito, sintomo d’immedesimazione, volendo c’è ed è nascosto . nella fidanzata del barone, che si chiama Ida di Santafiora, indubbiamente un romantico omaggio di Salgari alla moglie Ida Peruzzi.

A questo punto, se ci fosse qualcos’altro? Notiamo allora che Salgari, del barone, precisa:

creato cavaliere di Malta appena ventenne Supponendo che si tratti — ma non possiamo assolutamente  esserne certi — di un riferimento autobiografico, ovvero dell’indicazione della propria affiliazione alla massoneria. potremmo dedurne che essa avvenne nel 1882, a Verona: l’anno prima dell’ingresì0 nella redazione de “La Nuova Arena”.

Ma sono soltanto supposizioni, s’ intende, non prive di forzature e fantasticherie dettate dal desiderio di sapere.        Felice Pozzo

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PIETRE LEVIGATE seconda parte

PIETRE LEVIGATE

(seconda parte)

Un uomo si imbatte in una tigre. Fugge. La tigre Io insegue. Giunto ad un dirupo l’uomo scende affannato lungo la parete del precipizio, poi si afferra ad un rampicante e resta sospeso nel vuoto. La tigre lo fiuta dall’alto. Terrorizzato, guarda in basso: sotto di lui è comparsa un ‘altra tigre pronta a divorarlo.

L’uomo vede accanto a sé un bella pianta di fragole. Tenendosi al rampicante con una mano, con l’altra coglie le fragole. Le guarda intensamente, e poi le assapora. Come sono buone!

Parabola Zen.

E’ reale tutto ciò che produce effetti reali. tutto ciò che 1110difica la realtà preesistente. Dunque anche un’idea, un pensiero, persino un’illusione se muteranno il mio comportamento possono essere [considerati] reali.

Roberto Assagioli

La mappa non è il territorio                 

                                                                          A. Korzybski

Uno dei principali obbiettivi massonici è quello di “conoscere se stessi”. Ma cosa significa più precisamente per noi “conoscere”, in questo caso? Cosa dobbiamo “conoscere” di noi stessi’? Cosa dobbiamo cercare? E. a seconda di quel che cerchiamo, quali tecniche usare per raggiungere il risultato?

Accanto al conoscere è ricordare di Platone, al conoscere è giudicare di Kant, al conoscene è sognare di Bion, io posi tempo fa, in una sede che ho ricordato nella prima parte di questo articolo, volendo rispondere a questa domanda, un mio teorema che dice: conoscere è costruire. In quella prima parte (pubblicata sul numero 49 di Nuova Delta) feci però un altro piccolo passo, passando dal teorema generale conoscere è costruire” al suo corollatio massonico “conoscere è levigare”. Quelli che avevo cercato in quella sede di esporre, sul piano teorico, erano alcuni Ineccanismi che sovrintendono, anche se probabilmente non da soli, alla trasformazione degli stati di coscienza. A questi meccanismi io sto dedicando

di Luciano Rossi

da tempo molto spazio iniziatico (ossia del tutto esperienziale) e, accanto ad esso, un consistente investimento intellettuale: lo faccio perché i miei studi teorici e Ic mie esperienze meditative mi fanno ritenere, ogni giorni di più che levigare la pietra consista soprattutto nel trasformare il nostro stato abituale, profano, di coscienza.

Ora, in questa seconda parte, vorrei riprendere l’argomento e, con esso, dare più spazio alla pratica vera e propria, senza giungere tuttavia a quei dettagli immediatamente operativi della levigatura che potrebbero interessare solo coloro che sono pronti a intraprendere sin da ora un percorso meditativo vero e proprio. I massoni infatti possono, in via elettiva. modificare, proprio attraverso la meditazione, i loro stati ordinari, o grezzi, di coscienza.

Nella prima parte dicevo, lo ripeto brevemente, che levigare la pietra consiste principalmente nel togliere da sé alcune introiezioni (pregiudizi e condizionamenti) e ri-mcttere dentro di sé tutte le proiezioni in atto (metalli), ossia tutte le caratteristiche nostre che abbiamo finora erroneamente attribuito ad altri e terminavo dicendo presso a poco che . “come è per la statua, così è anche per noi; anche noi abbiamo scorie e pregiudizi da togliere, così comc abbiamo metalli da riconoscere ed accettare, metalli o difetti che non sono altrui, ma solo nostri”.

E se non tutti i metalli sono proiezioni è però vero che tutte le proiezioni sono metalli. metalli chc vanno ritirati, recuperati e riconvertiti, … non buttati. Il ritiro delle proiezioni, ossia dei metalli, è importante perché anche un metallo (quadrato nero del pavimento), come ogni altro nostro elemento, è una ricchezza e quindi non dobbiamo lasciarlo fuori di noi: una ricchezza che diventa disponibile se sappiamo consapevolmente vederla, accettarla e riconvertirla.

Ma per essere chiaro,. faccio un esempio. Supponiamo che durante la mia meditazione io incontri uno di quelli che la meditazione buddista chiama “i cinque grandi impedimenti”: ad esempio la rabbia. Suppongo di provare rabbia, che so, verso il mio maestro di meditazione. ln tal caso che cosa accade? Accade precisamente che, quando sono assalito dalla rabbia, la mia mente non è più sgombra e attenta all’oggetto di meditazione; smetto per esempio di esscre consapevole del mio respiro (se questo era l’oggetto di meditazione prescelto) e la mia mente, anziché essere abitata da un respiro silenzioso, è completamente invasa da sentimenti di rabbia: anzi sono già alcuni minuti che io sono attraversato da questa emozione e nemmeno me ne sono accorto. Poi, finalmente, mi avvedo che c’è stata una mancanza di continuità, un’interruzione dell’attenzione. Sono stupito di essere passato, già da tempo, da un pensiero all’altro senza essermene minimamente accorto. Da quanti minuti mi sono distratto? Da quanti minuti la mia mente è invasa da questa rabbia imprevista verso il mio istruttore? Da quanti minuti ho cominciato a pcnsare che è un maestro incapace e senza comunicativa, un uomo freddo e distante che semina le sue istruzioni di sciocchezze pseudoscientifiche? L’ira ha interrotto la mia tranquilla attenzione al respiro, che avevo programmato (ahi me illuso!) di mantenere per un certo tempo, e sono stato travolto dall ‘irritazione; anzi, sono diventato l’irritazione stessa, mi sono identificaro con l’irritazione, perdendo con ciò ogni consapevolezza, ogni distanza, ogni capacità di osservazione serena. Ma il passato è passato; devo pensare solo a cosa posso fare ora e chiedermi: “Ora che sono di nuovo consapevole, cosa posso fare’? “. Posso fare questo: ritenermi fortunato che la meditazione si sia impigliata proprio in quel sentimento, finora silenzioso, di irritazione che covava a mia insaputa sotto le ceneri e che in tal modo si è fatto spazio verso la superficie ed è diventato virulento e così ben leggibile. Posso ritenermi fortunato perché ora posso semplicemente approfittarne di ciò che è emerso per svolgere un compito imprevisto, ma liberatorio: quello di osservare tranquillamente questo “metallo”, di accettarlo come mio e poi prenderne le distanze. Devo comprendere che io non sono l’irritazione, bensì ho ora quella specifica irritazione. L’irritazione non è la mia mente, bensì un contenuto attuale, o magari anche abituale, della mia mente. L’irritazione è un mio compagno di viaggio, non è “me stesso”. E un contenuto impennanente, che entra ed esce, che sorgee si dissolve. Inoltre mi devo chiedere un ‘altra cosa, non è forse probabile che io stia ora proiettando la mia incapacità su un altra persona c che svaluti lui per non svaIutare me, per difendermi dall ‘angoscia di riconoscermi inadeguato?

Se così è. sono irato in verità solo contro me stesso. Dunque, a questo punto, onestà, salute mentale e status massonico vogliono che io ritiri dal maestro la mia incapacità e me la riprenda. E con essa mi riprenda anche tutta la rabbia che vi era connessa, legata; operazione conveniente, questa, dal momento che si tratta di riprendermi un’energia potente che, essendo appunto “legata”, non era più disponibile e utilizzabile per la creatività. Se divento consapevole di questo metallo “vile”, smetto di identificarmi con lui e di agirlo con fatica inutile e inconsapevole. E posso anche trasformare alchemicamente questo metallo in oro. Se accetto di essere incapace e rabbioso (c mi perdono per questi due difetti). allora la mia energia libera cresce e io posso riprendere il mio cammino con rinnovato vigore, anziché rimanere legato ad un risentimento che mi tiene fermo ad un evento del passato.

Dunque il processo da compiere è: vedere. accettare (o integrare) e convertire.

Cominciamo dal vedere. Come si fa a vedere?

I frammenti grezzi, i metalli. i pregiudizi, i condizionamenti sono pensieri o emozioni che vengono sentiti o visti facilmente solo quando si crea in noi un particolare silenzio mentale. Provare per credere. Certo, occorre essere istruiti su come creare questo silenzio. Ma per fortuna esistono tecniche precise per farlo, alcune segrete che si apprendono solo per via iniziatica, altre che raccontano maggiormente e più liberamente di sé. Quando creiamo in noi questo silenzio il limite della coscienza si abbassa e allora possiamo “vedere” (o diventare coscienti di) cosa c’è più giù, negli strati sottostanti della nostra psiche. Alcune parti, prima inconsce, diventano in tal modo coscienti e non perchè sono salite alla coscienza, conie si dice in psicoanalisi, ma perché la soglia della coscienza è discesa (ubbidendo al comando [Scendi e] Visita l’interno della terra) e abbiamo potute vedere quelle parti grezze in basso là dove esse stanno. Questa prima fase è quella della consapevolezza o della presenza a sé stessi.

Dopo aver visto la scaglia grezza, sia che essa rappresenti una proiezione o una introiezione, non dobbiamo però, per rimuoverla, usare in modo inesperto uno scalpello qualsiasi, bensì lasciare che un particolare scalpello mentale osservi il frammento, lo consideri e ne decida il destino. Per far questo, tale scalpello deve dapprima “annotare” la scaglia grezza e accettarla; poi riconvertirla o lasciarla svanire e decidere per il perdono di sé o dell ‘altro, a seconda di che frammento si tratti.

La pietra levigata allora è per noi in questo contesto la mente tersa, e non i suoi contenuti non permanenti; è la rnente tersa che viene trovata (invenies) col lavoro meditativo, dopo che i contenuti della mente individuati, sia pregiudizi che metalli, sono stati riconosciuti come ospiti non permanenti e non più come il nostro sé. Abbiamo così completamente ottemperato al comandamento VITRIOL. Non solo abbiamo visitato l’interno, ma, dopo averla pulita dai contenuti che la offuscavano, abbiamo anche trovato e visto la nostra mente nascosta.  La nostra mente nascosta è la pietra occulta. Per trovarla si doveva andare oltre i pensieri mmorosi e le emozioni tumultuose della coscienza grezza.

Dobbiamo dunque creare il silenzio in noi stessi con la esperienza della meditazione, anzi con la pratica di una opportuna meditazione; dobbiamo farlo per ascoltare i pensieri sottili. i

messaggi appena sussurrati, per osservare i frammenti grezzi così come si manifesteranno e lasciarli svanire nel perdono. Nella pratica massonica più comune la meditazione sulla pietra grezza e sui metalli è quasi sempre, esclusivamente, una riflessione intellettuale e non anche esperienziale come dovrebbe essere; del resto. quando ci accingiamo a fare questa esperienza, spesso non sappiamo come fare.

Meditare dunque … qui non significa riflettere, ma sentire nella carne. La riflessione intellettuale non può, da sola, raggiungere una parola che si è fatta carne ed abita nel nostro corpo. Per raggiungere la carne occorre una meditazione di carne. Tutti noi, per esempio, ricordiamo come nel Gabinetto di riflessione, quella prima indimenticabile sera, non abbiamo riflettuto in modo speculativo, ma abbiamo provato una forte emozione. Giustamente questo luogo viene talora chiamato anche Gabinetto di Meditazione ed è con grande sapienza che la tradizione iniziatica ne ha perpetuato I ‘uso. Occorre tuttavia precisare che, per essere veramente tale, la meditazione deve accompagnarsi ad una consapevolezza che immagino possa spesso mancare nel Gabinetto di meditazione. Non siamo, purtroppo, molto abituati alla consapevolezza, abitudine che può nascere solo da una severa ed allenata disciplina interiore.

E poiché non ci siamo abituati, la consapevolezza può apparirci una sorta di magia capace di creare in noi un ‘insolita esperienza, di produrre in noi, in modo apparentemente prodigioso, uno stato, una condizione, un prodotto improbabili, e che può farlo senza che i suoi artifici siano particolarmente visibili e perciò comprensibili. Rendendoci del tutto presenti alle fragole, la consapevolezza può farci dimenticare le tigri. Si tratta dunque di uno strumento magico e potente.

La nostra curiosità sta crescendo e si chiede con sempre maggiore insistenza: “Quale è questa magia che può far dimenticare due tigri affamate? E quale magia dello stesso tipo potrebbe possedere la Massoneria? Quale magia, capace di trasformare gli uomini nel Gabinetto di meditazione con il suo metodo, se davvero applicato? Inoltre, tale magia trasformativa ha un metodo preciso? E, se sì, tale metodo può essere appreso’?”

Credo che la risposta a tutte queste domande sia in ogni caso affermativa e che il metodo di questa magia possa essere rivelato dalla frase di Leonardo da Vinci messa in epigrafe alla prima parte di questo lavoro: L’architettura lavora per via di porre; la scultura per via di torre. Togliere e mettere: ossia, in altre parole, proicttare e introiettare, cancellare e generalizzare

Per operare questo cambiamento di stato di coscienza, e dunque anche per levigare la pietra, dobbiamo compiere sempre due operazioni fondamentali: da un lato togliamo allo stato profano di partenza le caratteristiche grezze, che non devono essere presenti nel modello ideale levigato, e dall’altro enfatizziamo quelle caratteristiche levigate già presenti che ci interessa mantenere.

L’operazione di mettere consiste in una sottolineatura, in un potenziamento degli elementi richiesti, o in una loro generalizzazione, come preferisce dire la PNL (Programmazione Neuro-Linguistica). L’operazione di togliere consiste nella eliminazione di caratteristiche non utili al nostro progetto o disturbanti.

Nel caso in cui un uomo decida “da grande” (specificamente da massone) di levigare la sua pietra, deve avvenire in lui, ora, per la seconda volta, tutta una serie di operazioni. Una serie di operazioni uguali e contrarie ad altre già avvenute in passato. La prima fase. quella già avvenuta in passato, talvolta ripetutamente, consiste in un condizionamento naturale alla intolleranza e al pregiudizio che hanno formato le in crostazioni che rendono grezza la pietra. La seconda consiste in un decondizionamento e un ricondizionamento “terapeutici”, voluti dalla coscienza dell’adulto e, questa volta, per scopi consapevoli e buoni. Entrambi i condizionamenti sono delle magie ed è merito del secondo mago aver saputo intuire, scoprire, le arti del primo e imparare a riprodurle … identiche e invertite. Nella prima fase il mago è la vita stessa. la storia personale dell’individuo, che ha agito sul soggetto, ipnotizzandolo, condizionandolo. Nella seconda fase, ad operare la magia è la saPienza cosciente dello stesso soggetto che era stato vittima del primo malaugurato condizionamentoll ). Come avviene in pratica tutto ciò?

Cercherò di descrivere come avvenga tale seconda condizionamento, di descrivere come si trasformi una configurazione psichica indesiderata in una favorevole, una configurazione grezza in una levigata.

Noi viviamo il nostro presente con la mente purtroppo piena di riflessioni in cessanti rivolte a organizzare le difese contro l’angoscia, sentimento che nasce per lo più o dalla paura del futuro o dalla rabbia e dal dolore del passato (sappiamo che anche l’intolleranza e il pregiudizio nascono dalla paura). Noi possiamo oggi imparare ad uscire da tali stati di coscienza ordinari rendendoli inattuali, distraendoci, e attualizzando altri stati di coscienza ora inattuali. Come nella parabola zen dell’uomo appeso all’ arbusto, impariamo a distrarci dallo stato di pensiero angoscioso (paura delle tigri) notando e gustando le fragole, concentrandoci sulle fragole e rendendo inattuali le tigri. Vivere la bellezza della pianta di fragole, quando questa ci si presenta. dovrebbe essere il normale, ordinario stato di coscienza. Invece non lo è. In molte occasioni esso viene totalmente relegato nelle zone inattuali della mente. La paura del dispiacere attrae tutta la nostra attenzione e la distoglie dalle piacevoli sensazioni che, attualizzate, potrebbero accompagnare più spesso, per non dire sempre, la nostra vita

Dovrebbe esser naturale percepire le sensazioni attuali e probabilmente per gli animali lo è; ma per le nostre menti evolute e specializzate è diventata invece abituale l’elaborazione continua dei piani di difesa contro il nemico. Questo nemico è rappresentato dall ‘insieme dei sentimenti spiacevoli che provengono dal pas sato e dal futuro (paura, rabbia, dolore, vergogna, delusione, ecc.); è diventato quindi naturale per noi vivere nel passato (tigre che sta die tro) o nel futuro (tigre che sta davanti). Così che percepire le sensazioni del presente (sapore delle fragole) diventa meta di un progetto non facile e di un processo lungo e paziente che, per realizzarsi. deve mutare il naturale flusso dei pensieri. Percepire le sensazioni dunque, anziché essere un evento del tutto naturale, è un’operazione forzata. inusuale, che dobbiamo ottenere con artifici, destrutturando la coscienza attuale che ha contenuti di solo pensiero o sentimento e strutturando un nuovo stato di coscienza fatto di sensazioni piacevoli e focalizzate.

Per fortuna tutto questo universo di attenzione e consapevolezza, pur essendo “soltanto” un mondo psichico, ha eiTetti del tutto reati e può costruire un uomo altrettanto reale, un massone, un levigato. Dunque, anche se levigare è costruire un uomo reale. questo processo costruttivo. come afferma Assagioli in epigrafe, può essere fatto di pensieri. sensazioni. allucinazioni positive. Cause spirituali queste che producono tuttavia effetti materiali. Per avere una mente tersa da frammenti grezzi, libera da avversioni e attaccamenti possiamo semplicemente coltivare la presenza, la attenzione-consapevolezza al momento presente.

Tale pratica, così diffusa in ambito orientale, non è estranea nemmeno a certi ambienti massonici. Nel rito di Menphis Misraim, per esempio, mi risulta che sia prevista la meditazione di gruppo, fatta in Tornata. Noi, che questo rito non abbiamo, possiamo però meditare da soli, con una pratica simile a quella che i Fratelli del Menphis fanno in gruppo, traendone sicuramente effetti simili (di levigatura). Io apprendo questa loro pratica da un testo di Francesco Brunelli, ex Sovrano Gran Maestro dell’ Antico e Primitivo Rito di Menphis e Misraim, allievo di•Roberto Assagioli e debitore verso di lui del metodo psicosintetico. Il testo da cui traggo spunto è Principi e metodi di Massoneria operativa, una guida ai lavori di Loggia, Ed. Bastogi, Foggia, 1981. Dice in quell’opera il Brunelli (P.1 13): “Non una sterile esercitazione mentale proporremo come lavoro di Loggia ed

individuale, ma la meditazione [ossia una esperienza corporea. un modo di vivere)”

In quel testo il Brunelli si dilunga nella descrizione della meditazione di gruppo e delle tecniche assagioliane: parla anche di visualizzazioni guidate e di meditazioni creative. Non scende però nel dettaglio dei vissuti interiori che si provano alla vista dei metalli, né parla a sufficienza del loro trattamento, che rimane comunque una operazione molto delicata, che ci può dare molto, ma anche togliere molto se siamo incauti nell’effettuarla. Credo dunque che siano proprio le tecniche per affrontare questi vissuti grezzi quelle che risultano le più necessarie da conoscere operativamente per un progresso spirituale. Queste tecniche (di tratta mento dei cinque impedimenti) dovrebbero costituire la prima fase della meditazione sulla pietra grezza. Può certamente essere messo a punto un sistema organizzato di meditazioni che sia specifico per il raggiungimento degli obbiettivi massonici. Nella fattispecie, per la seconda fase di visualizzazioni creative, quelle che anche il Brunelli descrive, si può metterc a punto una serie di meditazioni che possono vertere su argomenti spirituali caratteristici: dalla scalata della montagna alla discesa nell ‘abisso, dalla conquista del Graal all’ottenimento della pietra filosofale, ecc. Tali meditazioni massoniche potrebbero essere trattate in una sede successiva o in una sede diversa. Una sede che abbia comunque una caratterizzazione fortemente pratica.

Per ora ci basti l’aver indicato almeno una traccia di un modo per levigare. Se levigare è lasciar perdere gli attaccamenti profani (restituire le introiezioni o togliere) e riconoscere i propri difetti (riprendersi le proiezioni o mettere) occorre creare una condizione di silenzio meditativo per vedere attaccamenti e difetti; cosa ben diversa sarebbe l’attività (che temo ahimè sia prevalente nella prassi) di individuare solo i difetti del Fratello•anziché i propri: questo sarebbe ancora proiettare o far sì che l’anima investa in nuovi attaccamenti. In definitiva sarebbe ancora introiettare materiale grezzo e ci allontanerebbe ulteriormente dall ‘obbiettivo di conoscerci ed emendarci.

Riassumendo diciamo che conoscere è levigare e levigare è “mettere e togliere”, lo stesso mettere e togliere che ha prodotto un giorno la pietra grezza, attraverso il proiettare e introiettare, il cancellare e generalizzare.

Oggi, in sede di levigatura, mettere e togliere diventano “integrare e lasciar andare”, attraverso l’osservazione meditativa e la disidentificazione, le vecchie proiezioni e le introiezioni, i metalli e i pregiudizi.

Sto semplificando, è evidente; ma non più di quel che serva, credo, per comunicare con [e sole parole di carta un ‘esperienza emotiva. L’esperienza umana è troppo ricca, per poterla cogliere e raccontare senza semplificarla. Non si sostiene qui che meditare sia necessario e sufficiente per levigare; si sostiene che attraverso la meditazione si può svolgere una notevole mole di lavoro in tal senso. Non conosco una strada altrettanto efficace per lavorare da soli all’ardua impresa di conoscere se stessi e trasformarsi.

Così, anche se semplificando, mi sento di riaffermare che levigare è meditare e che, reciprocamente, meditare è levigare.

Ma come meditare? Beh, credo di aver fatto intuire al Lettore che quest’ultimo è un intero pianeta a sé stante. In estrema sintesi la meditazione può esser definita come un orientamento consapevole e tranquillo ad un oggetto specifico. Tale oggetto può essere il respiro, un pensiero (spesso un mantra) o una sensazione (visiva, auditiva o tattile). Fare questo produce in noi etTetti reali, leviga la nostra realtà preesistente; ma lo fa solo attraverso il superamento di prove, di impedimenti, talvolta dolorosi e durevoli. La meditazione è un complesso di esperienze molto grande e molto ricco. Ed è ovvio che non se ne possa parlare qui. Tuttavia se si vorrà, alla meditazione in generale e alla sua modalità massonica, si potrà accennare in un momento successivo.

BIBLIOGRAFIA

ASSAGtOLI, R., Principi e metodi della psicosintesi terapeutica, 1973, Roma, Astrolabio

BANDLER, R., Grindcr, J. , La struttura della magia, 1981. Roma, Astrolabio.

BRUNELLI, F.. Principi e metodi di massoneria operativa. Una guida ai lavori in Loggia, 1981, Foggia, Bastogi

FERRUCCI, P., Crescere: teoria e pratica della psicosintesi. 1981, Roma, Astro labio.

FERRUCCI, P.. Esperienze delle verte, 1989, Roma, Astrolabio.

GOLDSTEIN, J.. Kornfield, J.. Il cuore della saggezza, 1988, Roma, Ubaldini.

GOLDS(EIN, J., La pratica della libertà, 1995. Roma,

Ubaldini,

KORZYBSKI, A. , Science and Sanity, 1933, Lakevillc

MAHARiSH(, M., Y. , La scienza dell’essere e l’arte di vivere, 1970, Roma. Astrola.

NOTE

(l) Entrambe le trasformazioni avvengono per via di togliere c di mettere. Possiamo immaginare la prima come una incrostazione difensiva. la seconda come una levigatura. una pulizia. Nella prima fase, guardando fuori di noi e imparando, togliamo qualcosa al mondo intorno a noi, al territorio (introiezione del pregiudizio) e mettiamo qualcosa di nostro nel territorio (proiezione del difetto): la rappresentazione davanti a noi ovviamente finisce, ad operazione fatta. per risultare diversa dal reale, ossia ne risulta una mappa che non è uguale al territorio. Noi vediamo davanti a noi uno scenario che è un territorio ricoperto dalla nostra mano di venice. Nella seconda fase si va poi a cambiare consapevolmcnte la mappa risultante dalla prima fase per creame una seconda scelta dall ‘individuo. vuoi perché è più sana. vuoi perché è più massonica. Si restituiscono al territorio le introiezioni precedenti c si ritirano le proiezioni.

In estrema sintesi l’operazione terapeutica di levigatura mette ciò che è stato tolto dalla malattia profana c toglie ciò che è stato messo dalla malattia stessa. Ma questa seconda volta il mettere non incrosta più, perché le proiezioni ritirate vengono in parte lasciate andare, in partc riconvertite in energia pulita.

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PIETRE LEVIGATE prima parte

PIETRE LEVIGATE (prima parte)

di Paolo Rossi

L’architettura lavora per via di porre; la scultura per via di rorre.

Leonardo da Vinci

Il levigatore, nella sua opera di “rectifica”, è sia architetto che scultore: lavora sia per via di porre che per via di togliere, così il massone leviga se stesso restituendo le introiezioni (togliere) e ritirando le proiezioni (mettere).

Esposta lapidariamente la tesi, vediamo ora di chiarirla.

Spesso accade (ancorché troppo poco per la verità) che una persona non si senta “costruita” come vorrebbe. Può accadere per esempio che si sente “grezza”, o incrostata da scorie, o appesantita da “metalli”; o ancora può accadere che non si senta libera da difese limitanti o costellazioni fastidiose0 ).

In tal caso sarebbe veramente auspicabile che quella persona volesse cambiare la sua condizione psicologica, che volesse perdere (togliere) alcune delle caratteristiche apprese, per riprendere invece (mettere), o evidenziare nei loro contorni più puliti e levigati, alcune delle sue caratteristiche originarie che sente ora di poter reintegrare perché profondamente proprie e assolutamente legittime.

Quando accade che una persona riconosca i propri difetti (di abbondanza e/o di assenza) e decida di cambiare è una fortuna: per lei e per chi la circonda. In tali casi fortunati questa persona comincia a desiderare, più o meno consciamente, ma sempre di più, di operare una trasformazione in sé, di compiere un’operazione costruttiva su di sé: questa operazione sarà da effettuarsi, come dice Leonardo da Vinci, in parte per via di togliere e in parte per via di mettere.

Naturalmente la persona in questione, a meno che non sia un esperto della materia, non sa granché di queste modalità di cambiamento. Magari sente disagio, ma non sa bene di che si tratti e men che meno sa come porvi rimedio. Vediamo perciò di fissare alcuni punti elementari che possano aiutare I uomo di desiderio nella sua trasformazione.

Oggi sappiamo che è possibile la “costruzione” di una Persona, prendedo  naturalmente questo termine con le pinze e intendendo con esso la modificazione strutturale della sua esperienza. E, cosa certamente più importante, sappiamo oggi anche come si fa a mettere in opera tale modificazione.

Non abbiamo però ancora finito di compiacerci della nostra conoscenza (pur se scarsa) che già si deve prendere atto di un limite importante. Il limite è che purtroppo nessuno può fare questa operazione per un altro; non è davvero possibile a qualcuno costruire un ‘altra persona, un suo simile, l’altro da sé. E solo possibile ristrutturare se stessi. Certo è possibile che il mio inconscio ristrutturi la mia esperienza attraverso l’ascolto della voce di un altro, un terapeuta, ma l’utilizzazione della voce altrui devo farla io stesso. Del resto in un certo senso la gnosi, sul piano del metodo, non è nient’altro che questo.

Preferiamo dire ristrutturare anziché costruire perché non appare possibile per I ‘uomo costruirsi come vuole. Gli è invece possibile diventare quello che già egli è nel suo profondo; gli è possibile far emergere domani quel che oggi ancora non può emergere. Gli è possibile costruirsi come già egli è dentro la grezza forma della pietra di cava, liberandosi da ciò che opprime e imprigiona la sua forma pura, dai metalli che incrostano e appesantiscono la sua forma levigata già presente all ‘interno di lui.

Una volta affermato che è possibile per l’uomo costruirsi, diciamo anche che è possibile per un uomo conoscersi. Egli può farlo se conosce le operazioni da compiere e se può vedere le parti di sé che sposta nel costruire se stesso. L’operazione che l’uomo compie, per realizzare quel detto lapidario, e sconosciuto, che è il ben noto “conosci te stesso”, è quella di vedere, accettare, mettere o togliere pensieri e sentimenti, sensazioni e intuizioni, esprimendo ciò che fa con parole dette all ‘altro, o agli altri, di fronte a sé, vuoi che egli si trovi in uno studio di psicoterapia o in un Tempio massonico.

E’ tuttavia questa un’operazione complessa che non può essere improvvisata, né in un ambulatorio, né in un Tempio massonico. L’operazione resta sconosciuta perché troppo spesso diciamo agli altri: ‘Sii te stesso, conosci te stesso”; ma poi evitiamo accuratamente di dire loro come si fa a farlo. Questa volta ci proponiamo invece di essere espliciti e ci assumiamo la responsabilità di dire in termini tecnici, speriamo non troppo ostici (ma inevitabilmente un po’ lo saranno), in cosa consista, m teoria e in pratica, questa operazione trasformativa della levigatura.

La levigatura ha delle regole che possono essere apprese. La magia del cambiamento iniziatico ha una struttura che può essere insegnata. Ma sono regole complesse e delicate. Se non si conoscono in profondità meglio lasciare perdere l’ aspetto esoterico della levigatura, meglio lasciare che gli Apprendisti si nutrano del solo pane caldo e profumato dell’Amore e della Fratellanza che in qualche modo sconosciuto li levigherà. Vediamo allora di dare qui alcune informazioni teoriche sulla levigatura della pietra come operazione gnostica.

Le riflessioni, di cui scriviamo qui, non appartengono ad una disciplina ben precisa; si situano piuttosto in quel terreno gnostico che sta al crocevia di svariate discipline fra cui le principali appaiono essere oggi la filosofia, la psicoanalisi, la pedagogia, la PNL (programmazione-neura-linguistica Il suo utilizzo è perciò di pertinenza, più che dello specialista, dell’uomo in quanto tale, ed è a lui che sono rivolte; anche se il filosofo, l’educatore, e soprattutto lo psicoterapeuta, si troveranno più spesso  ad aver a che fare con questo tema.

Ci occuperemo principalmente di una varietà particolare, sagace e fattiva, di homo sapiens che chiameremo l’Artefice, e che altrove abbiamo chiamato Artifex o uomo che costruisce se stesso. Però, per arrivare a lui, dovremo partire dal concetto di Artificiale.

Ma chi è questo Artifex di cui stiamo parlando’?

Artifex è colui che costruisce se stesso. Artifex sono io mentre scrivo queste riflessioni: io che vado conoscendo la cosa da me scritta mentre la costruisco; Artifex siete voi mentre leggete: voi Lettori che andate conoscendo la cosa da voi letta mentre (la riscrivete e) trasformate il territorio del testo da me scritto nella vostra mappa personale. Artifex sono io mentre scrivo, io che vado conoscendo me stesso, in quanto cosa costruita, nello stesso istante in cui la costruisco; Artifex siete voi che leggete, che andate conoscendo voi stessi nella cosa letta mentre la trasformate con la vostra percezione.

L’Artifex è un Artificiale, sia in quanto oggetto che in quanto soggetto del costruire, oggetto della costruttività dell’Artifex soggetto. Nell’accingervi a leggere questo saggio cercate, Vi prego, di dimenticare ogni idea pregiudiziale che avete adesso di artificiale con la a minuscola. Il mio Artificiale ha tutt’altro significato rispetto a quello che il senso comune attribuisce all’artificiale; il termine assume qui un significato nuovo, inedito.

Fate lo sforzo di intendere, durante questa lettura, l ‘ Artificiale come voi stessi, come il Sé quindi; e fate lo sforzo di intendere il Sé come Conoscenza di sé e la Conoscenza di sé come Costruzione di sé. Perché per noi \\\\\”conoscere è costruire”. Fate infine lo sforzo di intendere l ‘ Artificiale come il Levigato.

Simili costruzioni di noi stessi siamo abituati a vederle, a livello psicologico individuale, come processi naturali che possono avvenire durante l’infanzia, l’adolescenza, o, meno spontaneamente, durante la psicoterapia; e noi massoni durante la levigatura. Conosciamo dunque tre costruzioni di sé: costruzione infantile, costruzione adolescenziale e costruzione terapeutica o massonica.

Di che costruzioni si tratta? Cercherò di essere il più semplice possibile nell ‘esposizione, ma il meccanismo è complesso e non posso essere semplice al punto di alterarlo. D’altro canto mi pare che un’operazione di levigatura si sostanzi proprio di questi meccanismi ancorché non ce ne rendiamo conto. Mi armerò dunque di squadra nella scelta dei vocaboli, mentre chiedo a voi di armarvi, ancora un po’ di pazienza.

I contenuti psichici sono frammenti autonomi di personalità che entrano (i mattoni nuovi dell’Architetto) ed escono (le schegge grezze dello Scultore) continuamente dai confini simbolici della psiche. Siamo noi a farli entrare ed uscire; lo facciamo, pur senza saperlo, per conoscerli e in tal modo conoscerci. Insomma conosciamo i nostri contenuti, e 1 nostri contorni, attraverso una serie di spostamenti di rappresentazioni psichiche, da dentro a fuori e da fuori a dentro.

Vediamo di illustrare alcuni di questi movimenti che di solito l’uomo mette in moto non solo per difendersi dall’ansia, ma anche, senza saperlo, per conoscere, per crescere. Diciamo spesso che si deve restituire all’altro ciò che di suo sta dentro di noi (l ‘opinione che abbiamo di noi) e riprenderci dall’altro ciò che di nostro sta dentro di lui (i nostri difetti). Queste operazioni possiamo chiamarle “rifiuto delle introiezioni” e “ritiro delle proiezioni”. La frase è un po’ complicata, ma le due operazioni sono semplici.

Di che si tratta? Vediamo di spiegarle un po semplificando al massimo questi concetti.

Proiettare è espellere inconsciamente una parte di noi (per esempio i nostri metalli) all’esterno e buttarla addosso ad un altra persona; terminata questa operazione cominciamo a vedere addosso all’altro la parte proiettata e crediamo che sia sua. E l’altro ad avere il difetto; è l ‘ altro, non noi, ad essere ancora grezzo. Siamo del tutto inconsapevoli di ciò che abbiamo fatto e crediamo che la cosa che “vediamo” sia davvero addosso all ‘altro.

Allo stesso modo introiezione è inglobamento di contenuti altrui, ad esempio norme morali, divieti, paure, giudizi negativi, ecc. Anche di ciò siamo inconsapevoli. Crediamo di essere noi a pensarla così e invece questo che noi abbiamo è il pensiero di un altro, che magari ci è stato ficcato dentro a forza tanto tempo fa.

Ritirare le proiezioni significa riconoscere che ciò che vediamo fuori “sta” in realtà dentro i nostri confini, ossia riconoscere che il difetto è nostro.

Restituire le introiezioni significa pronunciare il nostro “no” a pensieri riconosciuti come imposti, per vivere la nostra vita e darci la nostra etica.

Eseguite queste due operazioni i nostri contorni, i confini della nostra pietra, si precisano e noi ci conosciamo con nuovi contorni. Abbiamo operato dei movimenti, rectificando in tal modo la nostra superficie esterna. Metaforicamente il masso informe lo abbiamo reso cubico togliendo materiale dove ce ne era troppo, apportando materiale dove mancava. Se questi sono stati movimenti consapevoli, se abbiamo seguito le varie fasi della costruzione, diciamo che abbiamo una sia pur limitata conoscenza di noi.

Ma perché, se poi deve ritirarla, l’uomo ricorre alla proiezione? Per due motivi:

  1. Per motivi gnoseologici. Proiettare è necessario per conoscere se stessi fuori di sé, ossia la propria forma nascosta, la pietra occulta portata alla luce per essere vista. Si tratta di prendere distanza dalla pietra levigata per vederla meglio.
  2. Per motivi etici. Si tratta conoscere se stessi per fare evolvere (costruire) il sé e l’umanità.

Se l’aspetto di integrazione scopre la vocazione gnoseologica della precedente operazione di negazione, l’aspetto di individuazione ne rivela la vocazione etica, rivela quale è il fine del lavoro che l’artista compie; tale fine è precisamente il ritrovamento di se stesso, del Sé nascosto, della statua occulta. Così costruire è etico e gnoseologico insieme; e noi compiamo le due funzioni con un solo gesto.

Scrivevo nel ’92:

Rectificando invenies occultum lapidem” ci sussurra, premurosamente quanto misteriosamente, da tempi lontani, la Tavola smeraldina.

Tale statua, o lapis, essa ci dice, verrà trovata negando (rectificando) alcune parti della pietra data, ma, essa aggiunge, prima di tale negazione la pietra rettificata è occulta. A noi importa però soprattutto precisare che essa è occulta solo a chi non sa guardare, solo a chi non ha dentro di sé a priori la forma della statua. solo a chi non è Artista.

L’ Artista infatti “vede”, già da prima, I ‘opera dentro la pietra grezza. A lui non resta che rettificare, ossia togliere il di più. Egli vede tale forma dentro la realtà data perché essa altro non è che una sua imago interna proiettata all’esterno, una forma con la quale egli veste la materia.

Egli prima proietta la propria anima dentro il masso poi la riprende dicendo: la bellezza di questa statua è solo mia.

Nuovi contorni vengono allora fomiti alla pietra grezza, ossia alla pietra-in-sé, naturalmente data. Attraverso la negazione dei metalli, attraverso la separazione delle scorie, lo scultore trasforma, con paziente opera di scalpello, la vecchia forma del Naturale già dato, nella nuova forma dell’Artificiale costruito col lavoro.

Ma l ‘ Artifex vede tale forma prima dell’opus, prima del Lavoro, e questo è a lui possibile perché il figlio dell’Opera sua è forgiato a immagine e somiglianza del suo pensiero( 5 .

Egli trasforma, per via di togliere, una pietra grezza in una pietra definita. In tal modo la pietra grezza si adegua al suo desiderio. Ossia è la realtà che si adegua all’intelletto umano, non viceversa. L’intelletto umano è così immaginato come un grande costruttore di rappresentazioni esterne della sua anima, di rappresentazioni sue fuori di lui, rappresentazioni di sé fuori di sé. La Grande Opera dunque, essendo un ‘adaequatio sui ad imaginem sui. Potremmo tradurre massonicamente così le precedenti espressioni: la Grande Opera essendo un adeguamento della realtà grezza al desiderio iniziatico, diviene allora un adeguamento del sé profano all’ immagine iniziatica di sé. “Cosa” e intelletto vengono nell’Artifex a coincidere, ad essere l’una ad immagine e somiglianza dell ‘altro. Ma non per adeguamento dell ‘uomo alla realtà bensì per adeguamento della realtà all’uomo. Noi diventiamo quel che l’intelletto vede e desidera. Noi vediamo ciò che l’intelletto costituisce.

Alla pietra togliamo materiale (grezzo) suo cd aggiungiamo forma (iniziatica) nostra.

Come è per la statua, così è anche per noi; anche noi abbiamo scorie da togliere, così come abbiamo ricchezze da aggiungere.

(Fine della prima parte).

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SULLA OPPORTUNITÀ Dl DISTINGUERE SIMBOLO E SEGNO NELLA LIBERA MURATORIA

SULLA OPPORTUNITÀ Dl DISTINGUERE SIMBOLO E SEGNO NELLA LIBERA MURATORIA di Luciano Rossi

La mia memoria non è delle migliori; le fonti non le trovo più. Ricordo appena che, in un suo dialogo, Galileo disputa con un interlocutore. Quest’ultimo sostiene, credo, che i pianeti come Marte, Giove, Saturno non debbano chiamarsi pianeti ma stelle. Al che Galileo risponde, sempre che io non ricordi troppo male, che questo gli può andare benissimo, ad un patto: che sia chiaro che Venere ha una natura diversa dalla stella polare. Insomma Galileo fa così poca difficoltà circa i nomi con cui le cose vengono chiamate, che senza problemi può accettare che i pianeti vengano chiamati stelle, purché resti chiaro che essi son stelle diverse da quelle che intende lui.

Se il mio ricordo è molto inesatto chiedo di essere scusato; in fondo tanta precisione non è importante qui. Anche se quel che ricordo non fosse aderente al testo di Galileo, o, di più, anche se Galileo non la avesse mai detta, quella affermazione esprime nondimeno esattamente quel che io voglio comunicare. In effetti capita quasi sempre che in Massoneria si chiamino “simboli” delle entità che io chiamerei più opportunamente segni. ln merito a ciò, devo dire che la mia posizione è la seguente: va benissimo continuare a chiamarli “simboli”, purché sia chiaro che per trovarne la profonda valenza simbolica non ci si può limitare ad una semplice traduzione segnica. Più avanti farò in modo che si capisca, magari senza definirli, cosa intendo per entrambi i termini. Ogni definizione scontenterebbe qualcuno: invece a me serve solo promuovere l’impegno a fare esperienza del simbolo. A questo scopo una sola evidenza è necessaria per noi: la ricerca della profonda natura del simbolo è essenziale in Massoneria, altrimenti ci si ferma alla superficie; al di là dei nomi è dunque importante che siano distinte due operazioni profondamente diverse, perché esse si rivelano due esperienze profondamente diverse. In questo contesto suppongo che le due esperienze facciano capo, per convenzione provvisoria, ai termini Simbolo e Segno.

La trattazione delle concordanze e discordanze fra Simbolo e Segno è davvero vastissima nel Novecento. Se ne sono occupate l’Ermeneutica e la Semeiotica, la Psicologia e la Filosofia, la Comunicazione e la Medicina, la Linguistica e la religione.

Tutti noi abbiamo notato che la gente parla di segni di impazienza o dei segni della peste, e che, qualche volta, invece di parlare, si esprime a segni, o che, quando ci vede, si sbraccia in segni di saluto; in altri casi, più spesso in privato, si fa il segno della croce o dà segni di squilibrio. Consentitemi di rinunciare a dare la definizione di segno: “Troppe cose sono segno e troppo diverse fra di loro”. Mi sia permesso di limitarmi al classico: “qualcosa che sta per qualcos’ altro”, con la sola condizione che questo qualcos’altro io sappia che cosa è. Il contrassegno caratterizzante del termine pare essere allora: “io so” (cosa sta dietro il segno). Io so cosa sono l’impazienza e la peste, la croce e lo squilibrio, ecc.

Non dando le definizioni di simbolo e di segno non privo nessuno di qualcosa di importante: la vastità degli scritti su questi due termini appare imponente, anche se ricca di discordanza di opinioni. Non riassumerò nemmeno telegraficamente quelle ricerche; sarebbe per me opera ponderosa e occuperebbe un ‘inutile spazio. Inutile per due motivi: per i non addetti ai lavori sarebbe troppo, per gli addetti troppo poco. Darò tuttavia qualche indicazione nelle note bibliografiche con la speranza di stimolare qualcuno.

Io qui tratterò molto brevemente l’argomento e in un modo assai semplice e ristretto. Mi limiterò infatti al solo campo massonico e alla dimostrazione della tesi seguente:

“E opportuno individuare due diverse operazioni per descrivere certi termini, perché esistono davvero più modi di ‘conoscere’ la squadra e il compasso, il piombo e la livella, ecc.”

Generalmente questi strumenti vengono dai Liberi Muratori chiamati “simboli “, senza tanti problemi; è un uso ormai invalso ed accettato, ma qualcuno più pignolo (è infelice la vita dei pignoli!), in qualche caso, in qualche loro uso, preferisce chiamarli “segni Ebbene, essi non sono né l’uno né l’altro. Essi sono semplicemente strumenti di lavoro massonico che possono essere conosciuti ed usati in tanti modi, riassumibili in due differenti livelli principali. Simbolo e segno sono soltanto quindi due diverse qualità semantiche di detti strumenti che derivano unicamente da due nostre diverse capacità di conoscere.

Perché è utile per la Libera Muratoria, anzi importante, distinguerli? Lo è, credo, per promuovere e per stimolare ancora di più, ove necessario, quella capacità di conoscere, per lei ineludibile, che è propriamente gnostica e iniziatica; qui la definirò, con un atto arbitrario ma largamente condiviso, come autenticamente simbolica. Appena appare chiaro che l’operazione di accedere all’autenticamente simbolico serve per suggerire, stimolare, indurre un desiderio di profondità e di infinito sperimentati nella carne, allora la distinzione tra simbolo e segno non appare più una pignoleria ma un bene indispensabile: è necessario che la Libera Muratoria sia sempre accompagnata dalla convinzione che, dopo aver interpretato o tradotto tutto ciò che ci era possibile, dovrà continuare a scavare ancora in altri siti più profondi di quanto non lo sia la mente conscia.

Faccio un esempio.

La Squadra è uno strumento che può servire certamente come segno e che in dubbiamente può essere considerato (prendiamone uno fra i tanti che vengono riferiti) segno di rettitudine, ma questo tipo di interpretazione è caratteristico del sapere convenzionale e dunque squadra è rettitudine solo se i due che stanno comunicando fra loro, scrittore e lettore, oratore e uditore, sono d’accordo (ossia convengono) su questa segnatura e per tutti e due vale la stessa convenzione. Convenzione per altro non arbitraria, in quanto così si è convenuto perché era conveniente (mi scuso per il gioco di parole); infatti rettitudine suona come retto modo di costruire, come angolo retto, ossia angolo normale, ossia norma, ossia obbligazione, quindi retto modo di comportarsi: tutte cose che lo strumento ‘squadra’ indubbiamente è nell’arte edile o muratoria. Ma passando al modo simbolico, e ripetendo ciò che fa Eco nel suo esempio della ruota

posso sentire la squadra in un modo peculiare che non riesco a presentare con parole; e se proprio ci sono costretto comincio ad esprimermi con termini quali: l’obbligazione da me liberamente accettata, il cammino iniziatico stesso che sto facendo, il mio divenire, la scalata del monte sacro, il lavoro su me stesso, quel senso piacevole di giustezza e quiete interiore che avverto di me nei rari giorni in cui mi sento un buon Muratore, ecc. Tutti modi per cercare d’ esprimere un’esperienza che va al di là delle parole.

Squadra come simbolo, ai suoi estremi confini, è dunque un’esperienza. Sì, … ma esperienza di che cosa? Semplicissimo: la squadra è esperienza della squadra. E questo è tutto per chi sa ed è nulla per chi non sa. Le parole, che trionfano nell’illustrazione del segno, si fermano impotenti davanti al simbolo. Il linguista, che si dilunga sul segno ed ivi culturalmente si esalta, è costretto a restare fuori dal simbolo così come il profano resta fuori dalla porta del tempio. Squadra, nel modo simbolico non si può dire; squadra si può solo esserlo. La squadra che si può dire non è la vera squadra, .. per parafrasare così il celebre versetto: il tao che si può dire non è l’eterno tao. Solo due iniziati che siano già squadra sanno cosa sono squadra, pietra, levigatura. Solo due iniziati che siano già squadra possono passarsi con uno sguardo quell’esperienza intima che è la squadra: questo è il comunicare iniziatico. Fuori di questa espressione Intima i segni massonici non sono veri simboli, ma solo formule astratte, vuote di esperienza. E i profani, proprio perché non hanno questa esperienza, spesso lo pensano. Pensano, e se ne sorprendono, che uomini seri, dignitosi, spesso di cultura e di successo si riuniscano in stanze scure per fare delle cose buffe e vuote, delle pantomime ridicole e prive di senso. Non sanno che quei gesti sono la ripetizione consapevole e rivissuta di ciò che accadde in illo tempore. O forse alcuni lo sanno, ma ciò che non sanno, perché non lo possono provare, è che questi gesti non sono la ripetizione formale di gesti, bensì emozioni del cuore. E quando pensano ad una tradizione, allora pensano spesso ad un segreto operare di antichi congiurati, ad un mistero fantastico e inquietante di cui magari diffidare e da cui stare lontani. E tutto questo perché non c’è accesso al simbolo se non vivendolo,

se non facendo. A chi chiede del simbolo possiamo purtroppo opporre solo un invitante “provare per credere”. Al simbolo si può accedere solo con un atto di fiducia e coraggio. Occorre varcare una porta al di là della quale non si sa cosa ci sia; si sa solo che c’è l’esperienza del simbolo. Bussare la prima volta con paura ed entrare tre mando nel Tempio sono i primi atti costruttivi di se stessi e i primi atti di conoscenza, perché conosciamo in quel momento l’emozione che abbiamo costruito varcando la soglia del tempio e di noi stessi. Dopo quel passo non siamo più quelli di prima perché abbiamo sentito, accettato ed espresso quella emozione; ne siamo già stati un po’ trasformati ed abbiamo conoscenza della trasformazione avvenuta. Provando la gioia, il dolore, la rabbia, la paura, noi le conosciamo e ci conosciamo perché queste emozioni sono quel noi che già esisteva ma che era sconosciuto.

Dunque è il grande mistero della loro simile esperienza a render possibile fra due persone la comunicazione del simbolico. Ancora un esempio: la bandiera. L’accostamento bianco, rosso e verde è per tutti segno dell’Italia. Ma per qualcuno la bandiera rappresenta molto di più di una entità geografico-politica: essa è per lui un tremore del cuore, un’ebbrezza dello spirito, un sentire per cui egli può dare anche la vita. Diversa è la bandiera che incontriamo in dogana alla frontiera e quella che precedeva gli alpini sul Monte Grappa.

Si può fare un’altra osservazione. Il segno un tempo è stato segreto: il simbolo non lo è stato mai. A differenza del simbolo, che devi indagare da solo, perché non può essere trasmesso, il segno doveva essere rivelato; poteva esser conosciuto solo tramite la rivelazione: inutile era scavare in sé per trovarlo. Come avresti potuto mai sapere che cosa era stato convenuto, in passato, in modo libero, scegliendo una lettura fra le tante, per indicare la conoscenza o il dovere o ancora la fratellanza o la vittoria sulle passioni? Indicare le passioni col nome di metalli non era l’unica possibilità. E ancora perché sono stati necessari segni segreti e peculiari per indicare certi concetti? Se avessimo potuto dire direttamente “rettitudine” avremmo potuto evitare di dare tante spiegazioni, non vi pare? Invece no! Il linguaggio doveva essere criptico nel suo complesso perché quando nacque doveva servire per comunicare in segreto fra affiliati. Oggi i dizionari dei segni si trovano sulle bancarelle. Una cosa che invece non si troverà mai su nessuna bancarella è un dizionario dei simboli, intendendo naturalmente, e momentaneamente, per simbolo anche quello di cui diremo di qui a poco.

Come ho già detto squadra è simbolo di qualcosa di inesprimibile che si ricollega in modo oscuro alle origini dell’anthropos. E lo è in modo talmente oscuro da rendere libero ciascuno di noi di riempire quell’espressione con le proprietà più personali, più soggettive ed inesprimibili: talché non si riesce a dire, in questo senso, altro che questo: “la squadra è la squadra e basta”. Aggiungendo di solito: “e chi la conosce sa cosa intendo”.

Questa “nebulosità di contenuto” è essenziale perché un simbolo mantenga il suo carattere iniziatico e per la impossibilità di interpretazione che il simbolo presenta nel momento in cui esprime il suo carattere sacro. Finché resta non tradotto, finché non c’è l’attribuzione di un significato, il simbolo è “fresco”; se lo frusto con lunghe e dettagliate esegesi, e le ritengo esaustive, il simbolo “avvizzisce” e non è più tale: non gli rimane più quello spazio di indeterminazione che lo rende tanto più forte quanto più la sua indeterminazione è grande. La parola è forte se è equivoca, ambigua, colma di infinito; solo finché la parola, dice Scholem, resta priva di significato, è pregna di significato.

Ma la tentazione di interpretare c’è: costante e forte. Come mai? Verrebbe da pensare che la tentazione di interpretare esiste quando nell’esegeta è più forte l’amore di sé che l’amore del simbolo: insomma non gli importa che il simbolo muoia, purché lui ne abbia gloria. Ma se così fosse, se fosse così facile distruggere un simbolo, ci sarebbe da tremare . con tutte le tavole sui simboli che vengono lette nelle nostre Logge. Per fortuna non è così: il vero simbolo pare più forte del nostro intelletto, pare trascenderlo.

Abbiamo detto che conoscere la squadra non è interpretare, ma viver[a senza parlare. In altre parole conoscere la squadra non è dire: “squadra significa rettitudine e quant’altro mi riesce di dire ‘, svuotando il problema e ponendo fine a tutto; è piuttosto tacere e lasciare che 1a squadra conservi tutta la forza trasformativa che il mistero le conferisce.

Vivere il simbolo è un’esperienza che affascina e sopraffà, ti fa trovar di là senza sapere come, ti trasforma senza darti conoscenza intellettuale, ti prende per portarti dove non sai. Noi cerchiamo di interpretare il simbolo, riducendolo così a segno, perché abbiamo paura. Per svuotarlo, indebolirlo, e salvarci così da un’esperienza al termine della quale non sappiamo come saremmo. Ecco perché forse abbiamo creato il segno, o meglio il livello segnico del simbolo! Si ha simbolo ogni volta che, dopo aver attribuite al termine in questione tutte le connotazioni segniche possibili, rimane un residuo ineliminabile, un senso sottostante e inafferrabile, inesauribile e molteplice.

Fra tutte le accezioni possibili di simbolo a noi deve interessare quella che ci pertiene: ossia quella archetipica e sacrale; un “qualcosa” attraverso il quale parli una Voce che viene da lontano. L’opera dei Liberi Muratori, ormai da tanto tempo, non è più operativa: si è trasformata; la nuova opera non è più reale, ma simbolica. O meglio, tale attività è ancora reale dal punto di vista psichico, in quanto il simbolo è una potente realtà così come lo sono il dolore o la paura, ma non è più concreta; e però corrisponde ad una antica attività concreta, in un modo che é, ad un tempo, misterioso e affascinante. I nostri padri, quando smisero di costruire cattedrali, non vollero però deporre del tutto maglietto e cazzuola, squadra e filo a piombo. Ricordavano troppo bene come questi strumenti erano stati loro di ausilio nel creare le giuste linee che donavano forza e bellezza alla loro opera.

Sentivano che tali strumenti sarebbero stati ancora di aiuto, che non si poteva smettere di lavorare in modo simile a prima. E così può essere capitato che essi abbiano imitato dapprima gli antichi gesti teatralmente, come in un rito; e che sia accaduto allora, come per associazione di idee, come per programmazione neurologica, che essi abbiano provato le stesse esperienze interiori che avevano provato quando con quei gesti sollevavano e muravano mattoni concreti. Capirono forse allora che quei gesti, privi ormai di efficacia esteriore, avevano però conservato tutto il loro potente effetto psichico. Così, coloro che erano depositari di tanta maestria smisero di costruire templi di pietra, ma non smisero di costruire interiormente. Solo che i loro gesti erano diventati apparentemente strani. Strani perché vuoti ormai di oggetto esteriore, strani perché solamente psichici. Ma lo psichismo ha sempre un significato, anche se quasi mai a noi è dato di sapere quale esso sia. Dunque nell’operare di oggi ogni Libero Muratore che continua a compiere quei gesti strani, deve non dico capire l’esatto correlato perché questo non gli è possibile, ma intuire, attraverso sensi misteriosi e lungo vie di penombra, che cosa essi possano mai significare, quale messaggio essi gli inviino dalle lontane regioni buie e luminose da cui essi provengono. Nessuno lo può aiutare a capire. Gli deve bastare il conoscere la legge generale ossia che ad ogni utensile concreto corrisponde un utensile psichico; dopo di che deve procedere da solo. Noi invece siamo spesso abituati a cercare le cose sui libri; ma questo è pigrizia, sfiducia, forse inganno, certo lenta atrofizzazione delle nostre migliori qualità intrinseche. Ho detto altrove che dobbiamo rompere i libri affinché non si rompano i nostri cuori. Credo che sia la sede giusta per ripeterlo.

Se guardiamo cosa è il simbolo del compasso nei libri dei nostri Autori preferiti troviamo le loro interpretazioni del simbolo. Verità soggettiva per loro, ma non per noi. Per noi la loro resta una intuizione estranea, per quanto affascinante essa sia. Così come resterebbe estranea, a loro, la nostra fantasia soggettiva. Dobbiamo cercare una via personale, perché il simbolo sfugge a tutti e la verità del mito, per ognuno di noi, è solo il processo con cui ognuno di noi insegue la propria verità. Per tornare ai libri è doveroso aggiungere che si rivela, tuttavia spesso necessario, specialmente all’inizio del cammino, affidarci ai libri allo scopo di s6stenere il nostro passo incerto, nelle buie giornate in cui questo vacilla, ma quello cui dobbiamo tendere è un altro processo. Quello cui dobbiamo tendere è poterci fidare di noi stessi, è poterci affidare ad un sapere senza fondamento in visioni altrui, ad un sapere che sgorga solo da noi, ad una mistica che non si appoggia ai profeti, ma riconosce, fa proprio ed esprime ciò che le porta la visione diretta della propria divinità interiore, del proprio segreto. Questo esercizio mistico appare inevitabile per poter accedere al segreto massonico.

Come fare?

Semplicemente mettersi al lavoro anche se non si sa ancora come. Solo lavorando si diventa capaci di lavorare. Fabricando fit faber, ci suggerisce una massima latina: ossia “è solo costruendo che il costruttore diventa tale”.

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QUANDO GLI EBREI ERANO “GIUDEI” E FRAMMASSONI 1 LIBERI MURATORI

QUANDO GLI EBREI ERANO “GIUDEI” E FRAMMASSONI 1 LIBERI MURATORI

Padre Giuseppe De Rosa S.J.narra la storia della “Civiltà Cattolica ” di Aldo A. Mola

Nel 1500 dalla fondazione “La Civiltà Cattolica” propone una pacata riflessione sulla propria storia. Ne è autore p. Giuseppe De Rosa S.J., una tra le colonne del “Collegio degli Scrittori” dell’importante quindicinale della Compagnia di Gesù. ln diciotto capitoli (poco più di duecento pp. compresa l’utilissima appendice sui Direttori della rivista, a cura di p. Guido Valentinuzzi S.J.) l’Autore (che si vale anche degli studi dei p. Pirri, Mucci, Fiocchi, G. Martina… S.J. e degli apporti di laici quali Gabriele De Rosa, Roger Aubert, A. Cestaro e altri spiega in sintesi “che cosa è” la “C.C.”, quale ne sia stata la storia dalla fondazione a oggi, e quali i terreni del suo maggiore impegno di “fedeltà a Gesù Cristo, alla Chiesa e al Papa”.

Il testo è intercalato da una scelta di fotografie che costituiscono quasi una storia nella storia per chi sappia leggere nei volti e cogliere i tempi di cui i corpi redazionali qui ritratti sono testimonianza emblematica.

Padre De Rosa attesta che “ancor oggi ogni articolo che viene presentato al direttore per essere pubblicato sulla rivista è da questi sottoposto alla revisione di due o più membri del “collegio” (così si chiama ufficialmente il gruppo dei redattori della rivista)”. Apportati i ritocchi suggeriti dai ‘lettori’, “un’ulteriore revisione ‘interna’ è fatta da tutto il collegio quando il fascicolo è in bozze ( … ) in tal modo si concretizza il fatto che tutto il collegio degli scrittori sia sostanzialmente corresponsabile di tutto quello che esce sulla Civiltà Cattolica nelle cui pagine “possono scrivere soltanto gesuiti, salvo rarissime eccezioni” (fra le quali ci piace ricordare l’indimenticabile massonologo don Franco Molinari, che sommò il frutto delle ricerche sue a quelli degli studi rigorosi in tale materia condotti da padre Giovanni Caprile S.J.).

V’è da credere che metodo non meno rigoroso venga seguito per la pubblicazione degli Editoriali; destinati a “far testo” sulle questioni più disparate e impegnative. Tantopiù — spiega ancora p. De Rosa S.J. – che prima della stampa ogni fascicolo passa attraverso il filtro ulteriore della Santa Sede per vaglio della sua conformità con l’ insegnamento della Chiesa in materia di fede e di morale (o almeno la non sostanziale difformità) e della opportunità o meno di pubblicare taluni articoli in particolari situazioni”. Se in passato era il Pontefice stesso a ricevere quindicinalmente il direttore della Civiltà Cattolica ora, anche per via delle molte assenze del Santo Padre da Roma, a incontrarlo è il Segretario di Stato vaticano o altro autorevole membro della Segreteria.

Per tutti questi motivi va apprezzata la differenza sostanziale anche sul piano lessicale del modo nel quale negli ultimi decenni l’autorevole e prestigiosa rivista è andata affrontando realtà storiche un tempo trattate con singolare asprezza. È il caso, per esempio, della massoneria e dell ‘ebraismo. Il 7 maggio 1884 — ricorda p. De Rosa S.J. la rivista usò la formula: “La massoneria, ecco il nemico”, speculare a quella di Léon Gambetta: “11 clericalismo, ecco il nemico”. Rileviamo per altro che Gambetta, come la generalità degli anticlericali dell’epoca, non scrisse dunque la Chiesa o il cristianesimo, sibbene “il clericalismo”, cioè quanto (non solo a lui) pareva un’esasperazione del temporalismo, quasi un ‘tradimento’ del messaggio evangelico stesso o se si preferisce della Rivelazione, del magistero dl Cristo, laddove la rivista replicava investendo non tanto “il massonismo” quanto la massoneria e, concretamente, i massoni, anzi la “setta giudaico-massonica” staffilata da una moltitudine impressionante di articoli, note storiche, zibaldoni romanzeschi (pensiamo a Massone e massona di p. Franco S.J.) ispirati dall’enciclica Humanum genus ( 1 884) e sfocianti persino in “pesanti e deprecabili articoli antigiudaici” come opportunamente scrive p. De Rosa S.J.

In effetti troppo a lungo gli ebrei vennero denominati ‘giudei’ proprio per quel tanto di spregiativo che si connette al termine, rievocante il tradimento e il ‘deicidio’; così come i liberi muratori venivan liquidati come “frammassoni”: formula alludente a pratiche cultuali sacrileghe o, almeno, ad indebite appropriazioni di valori carismatici, da certa opinione addebitate alle logge.

L’ Autore ripercorre con specchiato scrupolo i diversi orientamenti enunziati dalla Rivista in tema sia di ‘conciliazione’ tra fede cristiana e massoneria sia, ciò che più conta, sulla posizione degli affiliati alla massoneria dinanzi alla Chiesa: un tempo scomunicati, ora “in stato di peccato grave”, con mutamento disciplinare non da poco, dunque. Varrebbe forse la pena aggiungere che molte severe pronunzie sui rapporti chiesa-massoneria hanno seguito da presso esagitate affermazioni di pretesi “filosofi della massoneria”. Proprio quella del 2 novembre 1991 (sulla quale si chiude il capitolo in discorso: e non fu l’ultima in materia) seguì di qualche mese la dichiarazione alla stampa di chi aveva minacciato di mettere in campo le armi e gli eserciti (??) massonici ove il Pontefice non avesse ritrattato l’accusa alla Massoneria di agire come “potere segreto”: mai pronunziata, invero, dal Santo Padre, tantopiù che — rileviamo anzi — dalla sua elezione a oggi (salvo errore nostro, per mera disinformazione; e gradiremmo essere corretti, ove sbagliassimo) papa Giovanni Paolo II non ha mai pronunziato il termine neppure il nome di “massoneria”. Del pari altri editoriali furono provocati da massoni che, non si sa a quale titolo, si ersero a interpreti autentici e supremi della natura e della dottrina della Chiesa cattolica: un’ingerenza che comprendiamo possa riuscire insopportabile e sollecitare qualche puntualizzazione.

D’altronde, ricorda p. De Rosa S.J., la massoneria venne a lungo ritenuta dalla Rivista il minimo comun denominatore delle forze via via sorgenti in lotta contro la Chiesa: liberalismo. socialismo c comunismo: tema, quest’ultimo, al quale lo stesso p. De Rosa S.J. ha dedicato quarant’ anni di note critiche informatissime.

L’ Autore, infine, non tace la “piccola apertura” della Rivista al fascismo (p. 109) e un certo ritardo nella dichiarata avversione nei confronti del nazismo.

Questo sobrio volume sulla più antica rivista italiana fa auspicare analoghe operazioni di contestualizzazione storica del proprio patrimonio e dei modi della sua proposta da parte di altri ‘filoni’ culturali attivi in Italia (e non solo), lontano dalla presunzione di percorsi rettilinei, privi di incespicamcnti e di mende.

Le pacate pagine di p. De Rosa S.J. sulla Rivista della inducono infine alla prudenza e alla temperanza anche dinanzi a certe pronunzie recenti della “Civiltà Cattolica ‘: da accogliere in una visione di lungo periodo, come soleva fare p. Giovanni Caprile S.J. contemplando pazientemente dalla sua finestra di Villa Malta il tramonto rosseggiante del Cupolone di San Pietro: promessa di sempre nuova luce, non gà di tetro definitivo crepuscolo.

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TOTO’ . . . IL PRINCIPE DI MASSONI

Totò… il principe dei massoni di Giuseppe Scaglia

(Scena prima — Un qualche luogo dell’Oriente eterno…)

Cuentan las cronicas del paraiso… raccontano le “cronache del Paradiso” che il Principe Raimondo di Sango si sia recato a colloquio con il G.A.D.U. per chiederGli la speciale licenza di ritornare sulla Terra perché, così affermava il Principe di San Severo, aveva ancora delle cose da fare, obblighi da portare a buon fine.

La proposta, afirmen los novelistas, era sicuramente inedita e, per certi versi, inaudita… però il Padre Eterno, che in fondo in fondo si diverte ad assistere al “grande film” di cui è regista, autore, sceneggiatore e produttore, tenendo conto degli indubbi meriti del Principe, lo volle accontentare.


“Però stavolta — aggiunse il Creatore — cambiamo un po’ le regole: ti permetterò di rinascere a Napoli, come mi hai chiesto, e di essere non solo di nuovo Principe, ma anche conosciuto ed amato, però tutto ciò te lo dovrai sudare, non lo avrai per nascita come l’altra volta. Arriverai, ma dovrai lottare, eccome, tra incomprensioni, invidie e cattiverie; avrai tremendi momenti di rabbia ed abbattimento e solo verso la fine della tua nuova esistenza vedrai, in parte , riconosciuti i tuoi meriti… sei tanto stolto da lasciare la pace di cui godi per accettare quel che ti ho proposto?’

Il Principe, che amava ogni genere di sfida, fu tanto stolto ed accettò… così nacque Totò… era un giorno qualunque del 1898.

(Scena seconda — Interno napoletano A. V.L. 5944)

E passato quasi mezzo secolo, l’Italia, il mondo, sono profondamente mutati… e non in meglio!

Da cinque anni milioni di uomini si stanno scannando ovunque, dalle infuocate dune del deserto libico alle inviolate steppe russe, dalle inesplorate giungle dell’Asia più lontana alle dolci coste della Normandia.

Terre, cieli e mari sono diventati dei grandi cimitcri, città d’arte cumuli di rovine fumanti, ma l’Uomo resta sempre tale, ed anche in momenti in cui tutto sembra essere perduto un barlume di Civiltà resta… la fiaccola non si spegne! E talora sono gli artisti che portano quella fiaccola… che ti fanno sorridere anche se intorno a te non vedi che lutti e macerie, che ti toccano nel più profondo del cuore e te lo senti vibrare come una corda di violino proprio quando credevi fosse indurito per sempre. Un po’ di trucco e via… la maschera è lì, pronta a ricominciare una nuova recita.

Tutto questo il giovane Antonio, detto Totò, lo sa fin troppo bene: è una fatica vera, anche fisica, improvvisare ogni sera qualche cosa di nuovo in abborracciati teatri di provincia, troppo spesso male illuminati, con recite a “braccio” non di rado interrotte dalle laceranti ed angoscianti sirene delle contraeree… beninteso, poi, facendo severa attenzione ai testi che si recitano (ad es. MAI calcare con troppa enfasi sulla parola “fascino”/fasci-no) ricordandosi di usare il romanicamente virile “Voi” e non il demo-masso-plutocratico “Lei”. e tutto ciò per poche lire e tanta fame!

Sì, Totò lo sapeva benissimo che loro, miseri guitti di periferia, erano così sprezzantemente chiamati dai loro colleghi “amici” del regime e perciò in auge, “attori di chiara fame”, ma che felicità poter dare un sorriso a gente disperata.

Sì, lo sapeva molto bene e proprio a tutto questo pensava l’ultimo dei De Curtis quella sera del 1944, non più giovane, ma non ancora vecchio… “maturotto” come si definiva!

Già… doveva essere un po’ matto a fare un lavoro come quello, ma lui, fin da piccolo, era stato un po’ ” pazzariello” … e, comunque, che dire, allora, di questi signori che lo stavano aspettando di là per, come dicevano loro, “iniziarlo”?

“Iniziarlo”? E a che cosa poi? E bardati da carnevale con guanti, sciarpe, grembiulini e cappucci neri?

Si chiamavano “Liberi Muratori” e tra di loro si abbracciavano e baciavano tre volte chiamandosi reciprocamente “Fratelli”.

In verità dei “Fratelli tre puntini” aveva distrattamente sentito parlare molti anni prima, sapeva che la loro organizzazione era stata messa fuori legge e che solo dopo la Liberazione del Sud qualcuno aveva riaperto le “Logge”, almeno a Napoli.

Certamente non li aveva mai presi troppo sul serio, cosicché quando, circa sei mesi prima, un soleggiato giorno d’aprile lo rammenta- va bene, un suo caro collega di stenti e lavoro (che era anche uno di loro senza che lui l’avesse mai nemmeno sospettato) gli chiese se gli sarebbe piaciuto diventare “Libero Muratore” fortissima era stata la tentazione di rispondergli “Muratore io? Mio caro, SIGNORI, e non muratori, si nasce ed io, modestamente, lo nacqui! ” , ma, poi, era stato come se una “voce di dentro” lo avesse frenato e diretto. E già… la “Voce di dentro” che, ogni tanto, lo guidava… lui, chissà perché, lo chiamava “O Principe” quella specie di saggio Grillo Parlante che, dalle profondità del suo essere, regolava la sua eccessiva guitteria.

E così, adesso, grazie a “O Principe”, era lì, calzato con una scarpa ed una pantofola, a petto per metà scoperto, con una corda al collo ed una benda sugli occhi che era la cosa che più gli dava fastidio… Dio che brutta sensazione non vedere nulla!

Tutto durò quasi un’ora: per tutto quel tempo lo avevano fatto camminare piegato come se dovesse passare sotto chissà quali forche caudine, dapprima contornato da un rumore assordante ed angoscioso di spade tintinnanti, poi il rumore era vieppiù calato fino a sparire del tutto, mentre dopo avergli soffiato su una mano, nel giro successivo gliela avevano immersa in una bacinella colma d’acqua per poi quasi abbrustolirgliela alla fine dell’ultimo “viaggio” compiuto. Ma non bastava! Gli avevano fatto bere un liquido dolciastro e successivamente un bevanda molto amara spiegandogli che il passaggio dal dolce all’amaro era simbolo di quel che avrebbe provato qualora avesse “tradito”.

E tutto ciò mentre era bendato!

Ma adesso basta… non ne poteva proprio più! O lo sbendavano o li avrebbe mandati tutti quanti al diavolo! Checchè! Un uomo ha la sua dignità, accidenti, ed il gioco era durato già fin troppo a lungo per i suoi gusti! Mica era un “guaglioncello” … e già da parecchi anni per di più!

Fu proprio allora che la benda gli venne tolta e vide: l’emozione lo stordì, quasi gli tolse il respiro!

Nelle due file, tra i banchi, molte persone, alcune delle quali assai note in città, bardate con paramenti multicolori, sorridevano battendo le mani in modo rituale mentre il Tempio, ora illuminato a giorno, risplendeva di simboli e luci. Ma quello sul Trono non è l’Avvocato… principe del foro di Napoli? Ma sì, è proprio lui, non stai sognando povero Totò… ecco ora ti è vicino, ti cinge i fianchi con un grembiulino bianco con la bavetta rialzata, ti abbraccia tre volte e ti dice “Ti proclamo Fr.•. App.•. di questa R•. Palingenesi all’Or.•. di Napoli. Tu sei mio Fratello!”.

Si dice che gli uomini non debbano piangere mai… i comici, per loro buona sorte, qualche volta, invece, possono anche farlo… (!) Correva l’Anno di Vera Luce 5944… era nato un nuovo Libero Muratore!

(Scena terza — Interno napoletano A. V.L. 5966)

“Ven.mo e Pot.mo Fr.•. Antonio De Curtis, 30, Delegato Magistrale della Regione Campania!” — la potente voce del Maestro delle Cerimonie annunciava stentoreamente l’ingresso in Loggia, nella nuova “Ars et Labor”, gemmata dalla Palingenesi e che aveva visto il Fr.•. De Curtis tra i promotori, di quello stranito profano di 22 anni prima ora rivestito dei superbi paramenti del suo grado dentro i quali la sua figurina secca ed angolosa sembrava quasi scomparire. “Fratelli in piedi ed all’Ordine! Volta d’acciaio! ” … questa fu la pronta replica del giovane ed emozionato della Loggia. Il Maestro delle Cerimonie lo accompagnò all’Oriente e lo aiutò a salire i tre gradini dell’ara: Totò ne era quasi infastidito, ma quei suoi poveri occhi lo facevano tribolare da troppo tempo ormai! Dio che cosa brutta non vedere nulla!

“Ti ringrazio Fratello” disse in un soffio di voce prima di sedersi pesantemente sulla panca foderata di cuscini vellutati.

Da mesi si sentiva stanco, troppo stanco, tanto che gli era pesato persino girare il suo ultimo film (perché sentiva che sarebbe stato l’ultimo!) “Uccellacci e uccellini” con quello strano tipo di Pasolini dietro la macchina da presa: aveva accettato perché, finalmente, sarebbe uscito dal suo solito cliché che aveva tipizzato 50 anni di carriera onorata, apprezzato dal pubblico e detestato dai critici, ma aveva stentato a

“Sta per calare il sipario povero Totò!” pensò… ma oggi tutto questo non aveva senso! Non avrebbe rinunciato per nulla al mondo a quella serata: le prime due Iniziazioni della “sua” nuova loggia “Ars

et Labor” che aveva fortissimamente voluto per riunire in un unico gruppo i molti artisti che vestivano guanti e grembiulini.

Eccoli lì i giovani colleghi, e tra poco nuovi FFrr.•. App.•., eccoli arrancare bendati e curvi proprio come lui quasi un quarto di secolo innanzi… eccoli lì… ed eccola qui una bella valanga di ricordi e di pensieri!

Già! Ora si sentiva commosso vedendo la “sua” creatura massonica muovere i primi incerti passi come un neonato, ma Lui, il Pot.mo e Ven.mo TRENTA, era stato davvero SEMPRE un BUON MASSONE?

Aveva realmente sempre portato nella vita profana quei sacri ideali di Libertà, Fratellanza e Tolleranza che, tra poco, avrebbe detto ai nuovi FFrr.•. di non scordare mai?

Oppure talvolta, e non di rado, si era sinceramente imbestialito leggendo le spietate stroncature che la critica cinematografica regolarmente faceva dei suoi film (così amati dal grosso pubblico!) scordando la sua rigida professionalità?

Rammentava che una volta, dopo aver letto che la sua interpretazione era paragonabile a quella di uno “squallido guitto da avanspettacolo” , profondamente amareggiato, aveva confidato al Fr.•. Gino Cervi, durante le riprese de il “Il Coraggio” che questo era un Paese assai strano dove era necessario morire per essere apprezzati! Già… quella volta la Tolleranza, l’ascetica sicurezza del Massone avevano lasciato il posto ad un acre sdegno molto profano.

Ma, a suo vantaggio, c’era anche “A Livella”, la sua poesia più conosciuta (quasi come l’indimenticabile “Malafemmina” che un po’ tutti i grandi della canzone avevano inciso) e che lui considerava una vera e propria Tavola in versi nella quale la Morte paragonata, appunto, alla Livella, strumento base del lavoro del Libero Muratore perché eguaglia tutto e tutti facendo scordare privilegi e pregiudizi di “casta”, ma non solo, perché proprio tramite l’Uguaglianza, lo sgrossamento delle imperfezioni, la Livella (e, nella poesia, la Morte corporale) ti permette di accedere a dimensioni ove realmente Tolleranza e Fratellanza regnano sovrane. Questa, in poche parole, era la sua concezione, profondamente laica, ma sacra al tempo stesso, del destino dell’Uomo e del Massone più in particolare; del resto ogni Libero Muratore, avanzando di grado, muore simbolicamente almeno un paio di volte, ma è necessario che, ogni volta, e qui sta la grandezza dell’Uomo prima ancora che del Massone, si sappia rinascere rigenerati e “nuovi” nello spirito e nell’anima.

E questo perché l’Iniziato sa che, dopo, “qualcosa” di Trascendente lo attende e sa anche come sia importante costruire la strada a questo “Qualcosa” già da questa parte della barricata: ecco perché è importante vivere la Massoneria in ogni momento, in ogni atto che si compie… 24 ore al giorno!

Tutte queste cose Totò le disse d’un fiato nel salutare i due nuovi App.•. e quasi non sentiva più la stanchezza di quella sua vita errabonda, però riservò il “tocco d’artista” nella “chiusa”: “E in definitiva, cari FFrr.•., siamo Uomini o caporali? UOMINI! Ricordatevi sempre che il Massone, se realmente riesce a realizzarsi come tale (e non pensiate sia un compito facile!), non sarà mai un meschino “caporale” pronto ad ogni sopruso, ma sempre e soltanto un Uomo nella completezza di corpo e di Spirito e come tale agirà! Buon lavoro FFrr.•. E rammentatevi di restare per sempre App.•. dentro di voi… per non essere caporali fuori! ! ” Poi, realmente, calò il sipario.

Antonio De Curtis, Principe di Bisanzio, Cavaliere Eletto Kadosh, si spense a Napoli un giorno qualunque dell’Anno di Vera Luce 5967.

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PENSIERO MASSONICO E SOCIETÀ CIVILE

PENSIERO MASSONICO E SOCIETÀ CIVILE

La cultura e la società contemporanea vivono in questi decenni la crisi del pensiero razionalista di derivazione cartesiana. Il fenomeno, che si generalizza ignorando confini e ideologie, può esser colto nella polemica, levata da tempo contro le nuove forme di pensiero e di comportamento, denunciante come pericoloso l’irrazionalismo. Irrazionale è definito tutto ciò che esorbita i limiti imposti al fare umano da un vecchio meccanicismo, svelando con ciò il carattere storicizzabile di questa partizione e l’urgenza di rinnovamento che incalza.

Non è la prima volta – né sarà l’ultima – che la società europea entra in crisi: basti pensare al tramonto del mondo classico ed ellenistico. Ma quando una cultura e una società si rivelano insufficienti e occorre rinnovarsi per proseguire il cammino dell’Universo verso stadi di maggior coscienza, allora è indispensabile l’analisi interiore e l’attivazione del Simbolo. Il Simbolo è infatti il veicolo per esprimere quella parte di noi che, per il semplice fatto di non essere ancora cosciente e concettualizzata, non per questo è meno reale.

L’operazione attraverso la quale il mistico supera le insufficienze catechistiche – e ciò vale anche ampliando il riferimento al rinnovamento della cultura – è quella per cui nessun profeta uscì mai dal clero: cioè un ritorno alla Tradizione per reinterpretarla in modo nuovo ed originale, per fame indispensabile premessa ad ogni ulteriore progresso. ln tutti i campi del fare umano, per incongruo che ciò possa sembrare a spiriti poco dialettici, ogni rivoluzione è stata fatta guardando al passato.

Questo atto dialettico per il quale l’uomo storico si volge, all’uomo metastorico, è una ricerca di nuove acque alla fonte perenne. Quando il razionale ha perso il contatto con la vita, la hybris trionfa: allora solo la fonte che è in noi può restituirci alla misura. La crisi della società contemporanea, vista ora in questa luce, non è di piccolo momento né sarà di breve durata. Stiamo vivendo infatti l’insufficienza dei modelli a guidare una società che, per l’intensa dinamica degli ultimi due secoli ed in particolare degli ultimi decenni, è radicalmente mutata rispetto a quella nella quale e per la quale i modelli furono elaborati. Ne consegue l’oscillare tra una razionalità invivibile e una irrazionalità devastante, tra la coercizione e la disgregazione: col rischio di precipitare irreparabilmente verso uno dei due poli.

ln tale contesto il pensiero massonico può e deve costituire un importante punto di riferimento per il rinnovamento della società, perché esso, alieno da spartiacque  dottrinali e rivolgendosi all’umanità tutta in nome dei grandi e comuni principi di libertà, eguaglianza, e fratellanza, ha come obiettivo un costante e fecondo contatto con il simbolo, e come matrice la Tradizione una dell’umanità tutta. Esso stimola ad approfondire quella conoscenza interiore che è base per il miglioramento di ciascuno, e quindi anche della società, della quale il Massone è partecipe e alla quale reca il proprio prezioso contributo di esperienza.

Perché il nostro fine è l’umanità tutta che noi vediamo partecipe di un divenire universale. Lavorare alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo perciò significa implicitamente lavorare per il Bene e il Progresso dell’Umanità.

T

TAVOLA DEL FR.’. G. C. B.

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CONSIDERAZIONI SU SEGRETO E VERITÀ

CONSIDERAZIONI SU SEGRETO E VERITÀ

Maestro Venerabile, Fratelli carissimi, la prima domanda da rivolgerci sul tema non può che essere: cos’è il segreto?

Letteralmente significa “cosa occulta, da non rivelare”, “l’intimo ed intrinseco dell’animo”, ma anche “mistero, cosa che la mente umana non sa spiegare”, o ancora “ricetta, metodo conosciuto da pochi o da uno solo”, ed in fine “cassetto nascosto di un mobile, congegno per aprire una cassaforte od altro”.

Segreto, quindi, nella lingua italiana, ha una grande varietà di significati apparentemente molto distanti tra loro: pensate, dall’apertura della cassaforte al concetto di mistero.

“Segreto è quanto più persone decidono di tenere celato, talvolta sotto il vincolo di un giuramento in quanto si vuole che resti ignoto a tutti gli altri”. Tale scelta può essere, o meno, volontaria, a seconda che si tratti di una forma di difesa o dell’impossibilità di rendere edotti gli altri della cosa in questione. Il “segreto” esiste anche se non c’è patto, ma è una sola persona a “conoscere”.

Riassumendo, il segreto è un rapporto tra uno o più che sanno e coloro che ne sono esclusi; analogicamente debbo ritenere che ciò che non è comprensibile alla mente umana sia deliberatamente tenuto celato dalla Natura o dal G.’.A .’.D.’.U :.

Questo ci rende immediatamente la convinzione che il “segreto” non esiste solo in Massoneria; possiamo anzi afferrnare che ognuno ha dei suoi segreti familiari, professionali.

Ma i tempi che stiamo vivendo sono caratterizzati da una sempre più diffusa (e predicata) voglia di trasparenza, di pubblicizzare, divulgare e far intendere ad un sempre maggior numero di persone.

Questo in evidente  contrasto con il concetto stesso di segreto: ciò, per fortuna, non potrà MAI avvenire perché comunque un messaggio non compreso resterà ugualmente un segreto.

Voler dire tutto a tutti renderà percentualmente elevato il numero di coloro che non capiranno e che penseranno che deliberatamente si voglia tener loro celato l’oggetto del contendere.

Ecco allora il voler semplificare nella stolta convinzione che sia opera meritoria quella di “urlare nelle orecchie dei sordi”. Essi percepiranno comunque solo dei suoni forti, ma inintelligibili e forse inquietanti.

E così il segreto, volutamente spiegato a tutti, rientra maestoso nel sistema interpersonale e, nuova Sfinge, torna ad essere custode di se stesso.

Noi massoni che, al di fuori del tempo lavoriamo per il bene ed il progresso dell’Umanità, coltiviamo il segreto poiché la Tradizione, base del nostro procedere, ci dice che il segreto è, e cercare di comunicarlo a chi non può intendere è, oltreché inutile, anche dannoso.Sia che si tratti di una Verità, che di un aspetto relativamente meno importante, la tutela del segreto può essere dettata da opportunità o utilità, ma sono elementi che rientrano nella più assoluta discrezionalità e libertà. Credo che la Verità vada tenuta celata e rivelata solo in particolari casi ed a poche persone. Essa non è accessibile a tutti, ma solo a chi è pronto a riceverla: posso allora dire che è la Verità stessa che determina la selezione tra coloro che hanno orecchi e cuore per intendere e chi no. Il cosiddetto segreto in Massoneria.

Padre Rosario Esposito scrive: “il segreto massonico si estende a tutta l’attività dell’ordine, dai nomi dei componenti della Loggia, alle cose che le appartengono, nonché a tutta l’attività che vi si svolge e vi si prepara e al metodo di operare in Massoneria. “

L’articolo 9 della Costituzione recita: “mantenere la discrezione sui lavori iniziatici . ed il giuramento che si presta all’atto dell’ingresso nella nostra Istituzione al suo primo punto dice: di non palesare i segreti dell’iniziazione muratoria . (poiché altri ancora non se ne sa), ed infine noi, al termine di ogni tornata rituale, “solennemente promettiamo …”.

E un fatto chc molte delle precauzioni, che esistevano anche solo pochi anni fa, stanno cadendo, e non so quanto ciò sia bene, ma, come dicevo, il vero segreto si difende da sé.

Quando, negli albori della civiltà, un uomo scoprì in un altro essere lo stesso fascino esercitato su di lui dal cielo stellato o dal rumore del tuono e, per non essere irrisi dagli altri, cominciarono a parlarsi sotto voce o in disparte da occhi e orecchi indiscreti, nacque il primo segreto umano. Probabilmente con il passare del tempo ed il crescere di questi individui si sentì il bisogno di difendersi.

Verità è un termine che ha due significati, uno oggettivo con le qualità e le proprietà che ha la cosa in sé, indipendentemente dalla possibilità di essere conosciuta; l’altro soggettivo, da intendere come conoscenza della cosa quale essa è realmente, con un processo di identificazione del nostro intelletto con la cosa in sé.

Così, ogni verità non posseduta è celata da un segreto. L’uomo nella sua ansia conoscitiva cerca di scoprire il segreto della somma verità, che altro non è, in fine, che Dio stesso.

Anche nel linguaggio comune esiste una sorta di identificazione tra verità e segreto: quando si dice il segreto degli astri, o della materia, dell’energia cosmica intendiamo che non abbiamo ancora raggiunto la conoscenza, e quindi la verità. C’è il segreto della vita e della morte, della natura.

Le cose sono così unite che non è possibile dire se sia la verità che si ammanta di mistero o se sia questo che copre la verità.

Non passiamo certo affermare che la Massoneria sia la depositaria della verità, intesa come Somma verità, e si sbaglierebbe nell’affermare che una rivelazione debba giungerci con i vari gradi che ci vengono riconosciuti. Se così fosse, la Massoneria esaurirebbe la sua funzione, divenendo la dispensatrice di verità (e di tesori) accumulati.

Non avrebbe più senso la costruzione, mai terminata, del Tempio ed i suoi presupposti di progresso individuale, legati allo sforzo ed alla ricerca. Di più, se cosi fosse, la verità posseduta dall’istituzione, ma non dai suoi componenti, finirebbe per trasmettersi per dogmi, tradendo i propri principi, che sono quelli di rimettere sempre in discussione ogni cosa e di non accettare verità acquisite, e forse dimostrate, da altri. Cesserebbe l’utilità dei simboli, strumenti su cui ciascuno di noi può esercitare intelligenza ed intuizione. Ci sarebbero, dicevo, verità comunicate, probabilmente incomprensibili, e non sofferte.

Attenzione però a non cadere allora nelle considerazioni, altrettanto errate, che la Massoneria non possieda Verità. Essa le ha, ma vanno conquistate, maturate!

È il suo metodo, la via che ci viene additata da tutti i Fratelli che ci hanno preceduto.

Non è affatto cosa da poco, anzi è più che sufficiente a giustificare la sua esistenza plurisecolare.

Volendo, possiamo dire che il metodo massonico è esso stesso una verità, e quindi un segreto.

Il metodo, graduale, che ci viene proposto ci offre gli strumenti idonei (i simboli, innanzi tutto) per operare, ognuno al livello più consono, quello scavo interiore. Già Marco Aurelio scriveva: “scava in te stesso, nella tua interiorità; lì c’è la fonte del bene che potrà zampillare sempre più su qualora tu proceda in questo lavoro di scavo”.

La Massoneria offre queste indicazioni graduali su sempre nuove prospettive, strumenti sempre più sofisticati per lavorare la nostra pietra. Anche se, in fondo, nessuna conquista fatta dal singolo Fratello è sua esclusiva, ma in una certa misura finisce per essere propria di tutta la Massoneria.

Acquisizione di verità, o di virtù, è imparare a dominare le proprie passioni, divenire sempre più tolleranti verso le altrui debolezze, privilegiare il lavoro come primo dovere delPuomo è certo avvicinare la verità; e così pure divenire critici verso le nostre azioni, tutte: sia quelle importanti, che quelle non.

E queste cose non sono adatte ad essere raccontate, ma si avvertono: forse volta per volta, ma come risultato di una crescita complessiva verso la realizzazione di quelli che sono i nostri trinomi: libertà, uguaglianza, fratellanza, ma anche tolleranza, benevolenza ed umiltà.

Riassumendo i segreti che gelosamente dobbiamo custodire riguardano i nostri Riti, la nostra simbologia (dei vari gradi): sono relativi insomma alla verità unica ed ultima della Massoneria che, incorruttibili, sfidano i secoli e le mode.

Il Massone, un iniziato, è un uomo posto in condizioni di vedere la Luce gradualmente, onde non essere accecato da improvvisi bagliori, uscendo da quelle tenebre che tutti ci avvolgono.

I simboli di cui la Massoneria si avvale sono per loro natura come facce di una medaglia: una mostra un aspetto, una figura che viene vista da tutti, mentre l’altra sta a ciascuno di noi scoprirla. Occorre imparare a vedere il bianco nel nero per giungere a vedere il segreto e la verità.

E la Massoneria vuole appunto occultare al di fuori e svelare al proprio interno, vuole abituarci a cogliere l’aspetto esoterico in tutti i fatti in cui scorge il solo essoterico.

Possiamo così dire che, mentre non esteriorizza affatto le sue verità, la Massoneria ci aiuta a scoprirle standovi dentro.

Ma se così è, perché preoccuparsi di nascondere e di coltivare il segreto?

La Massoneria non inibisce certo ai non iniziati di procedere alla ricerca della Verità, tuttavia mantiene con gelosa attenzione quei simboli e quei metodi che le sono propri perché, se divenissero di pubblico dominio, perderebbero una gran parte della loro efficacia: solo quello che ci appare conquistato ha per noi importanza. Ciò che otteniamo senza fatica alcuna perde inevitabilmente di valore e di efficacia. È insomma una spiegazione del “non date perle ai porci”.

La nostra Istituzione combatte ogni forma di ignoranza, quindi anche all’esterno, e tenacemente. Ma è solo per se stessa che mantiene i segreti di cui parlavo prima, sia di conoscenza, che di metodo.

E ciò viene fatto assicurando la conservazione delle conoscenze acquisite, frutto del diutumo lavoro dei suoi Fratelli che interpretano i simboli come mezzo per giungere alla Verità.

E questo lo dobbiamo fare anche vigilando con attenzione su chi bussa alle nostre porte, attenti però a cogliere l’Uomo Giusto che, spinto dal desiderio, possa raccogliere e far fruttare ciò che noi stiamo preparando.

La parola è perduta, ma il nostro impegno deve essere tutto rivolto a ritrovarla! Al lavoro, dunque, Fratelli.

TAVOLA  DEL  FR.’.A. Bgg,  

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