PENSIERI

Pensieri

Oggi é giunto finalmente il S. Natale, e mi sento più buono. Fortuna che domani arriva S. Stefano e cosi potrò di nuovo, come ieri, odiare senza problemi il mio prossimo.

Natale. Un castrato impotente ed un asino hanno, in una stalla, scaldato un povero Cristo.

I potenti e gli intelligenti erano al caldo, a casa loro, a scaldare i propri interessi.

Potenza del computer! Con un buon programma, che cataloga i doni che giungono dagli altri, sono finalmente sicuro di non regalare quest’anno a mio fratello lo stesso oggetto che ho ricevuto da lui lo scorso Natale.

Siamo uguali come due gocce d’acqua. Ho sempre pensato che quella inquinata fosse quella degli altri, non la mia.

Amor di fratello, amor di coltello. Forse qualche volta é meglio essere soltanto cugini.

È opportuno esercitare la tolleranza purché non sia quella a suo tempo professata in alcune case.

Tradimento. Al partner piacciono gli asparagi, a me i cavolfiori. A casa, questi ultimi non sono mai presenti sulla tavola, quindi al ristorante, se capita, ogni tanto li mangio.

Il problema sorgerà quando non mi piaceranno più i cavolfiori e mi piaceranno gli asparagi.

Non avrò più occasione di lamentarmi.

Logicamente potrei dare solo a chi vuole avere e pofrei avere solo da chi vuole dare.

Stranamente ricevo quasi sempre da chi pensa di non voler dare, mentre io sovente, per altruismo, o perché fa più missionariato, mi intestardisco a dare a chi non vuole ricevere nulla.

Malgrado la mia buona volontà, in entrambi i casi, comunque, a qualcuno, me compreso, resta qualcosa.

Bianco e Nero. Non sono Einstein. Credo di vivere consapevolmente la pienezza del mio grigiore.

Uomo avvisato mezzo salvato. Purché l’avviso non sia quello di garanzia.

Il lavoro nobilita l’uomo. Quando quest’ultimo, di lavoro si ammazza, non è che sia più nobile è solo più stupido.

31

E facile mantenere il segreto su qualcosa di cui ignoriamo l’esistenza.

L’occasione fa l’uomo ladro. Poco si concilia con l’altro suggerimento di non perdere le occasioni.

Forse sarebbe meglio, prima di cercare la luce, cercare l’interruttore.

Sia fatta la luce: e la luce fu. Poi, quando si spense, purtroppo lo fu per davvero e per lungo tempo.

L’erba del vicino è sempre più verde. Fa eccezione l’erbaluce di Caluso. Da qui si deduce I ‘Importanza della luce.

Vogliamoci bene. Siamo tutti, o quasi, d’accordo. L’unico problema è di definirne il come.

Chi si ferma è perduto. Così gridò quel poveretto inseguito da un pensiero buono.

O mangi questa minestra o salti dalla finestra. Nel dubbio andò ad abitare al piano terreno dove morì affogato alla prima inondazione.

Meglio per lui se avesse mangiato la minestra che passava il convento.

Se gioventù sapesse e se vecchiaia potesse! Invertendo l’ordine dei fattori il risultato non cambia. Il mondo è sempre più pieno di imbecilli e di impotenti.

L’occhio, se non ha lenti a contatto, è lo specchio dell’anima.

La gallina dalle uova d’oro. Il primo esempio di trasmutazione alchemica prima che sopravvenisse tangentopoli.

Il silenzio è d’oro, specialmente quello degli altri se voglio che lo mantengano.

L’altruismo è sovente il sepolcro imbiancato dell’egoismo.

Chi di spada ferisce, di spada perisce. Meglio diffidare dalle iniziazioni a fil di spada.

Dico qualcosa a qualcuno. Ciò che importa è se e quanto, il qualcuno di cui sopra, ha capito del mio qualcosa, sempreché io sia stato comprensibile.

Il mio prossimo è molto più cretino di quanto io non pensi. Il mio prossimo è molto più intelligente di quanto io non pensi.

Mi dico: per quanto attiene il prossimo, cerca, nel primo caso, di essere il più chiaro possibile e nel secondo di non prenderlo, per usare una espressione non triviale, per cretino.

E. Scld 15 giugno 1995 e:.v:. (1 0 Grado)

32

Pubblicato in Varie | Lascia un commento

SIMBOLISMO E RITUALITÀ INIZIATICA IN PINOCCHIO

SIMBOLISMO E RITUALITÀ INIZIATICA IN PINOCCHIO

Siamo Lieti presentare ai nostri Ospiti questo lavoro del Carissimo Franco Cuomo, passato all’Oriente Eterno a Luglio del 2007.

Pinocchio è un burattino che vuole diventare “un ragazzo come tutti gli altri” , possibilmente “un ragazzine per bene”.

Cioè: farsi uomo.

Il ruolo materno se lo assume una “fata dai capelli turchini”, già iconograficamente assai sospetta, che riesce a diventargli madre restando vergine.

Il padre è un vecchio falegname, che sicuramente non ha mai avuto né avrà mai rapporti con la Fata, del resto tanto giovane: è una Bella Bambina.

“Allora si affacciò alla finestra una bella bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale, senza muovere punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo:

“In questa casa non c’è nessuno. Sono tutti morti.”

“Aprimi almeno tu!” – gridò Pinocchio piangendo e raccomandandosi.

“Sono morta anch’io.”

“Morta? E allora cosa fai costì alla finestra?

“Aspetto la bara che venga a portarmi via.”

Così piccola com’è, la Fata potrebbe essere soltanto – e così la storia simula sul principio – la sorellina di Pinocchio. Invece no. È lei stessa che, crescendo prodigiosamente in un limitatissimo arco di tempo (come per un improvviso concepimento), si immerge di prepotenza nel ruolo di madre:

“Ti ricordi? Mi lasciasti bambina ed ora mi ritrovi donna; tanto donna che potrei farti quasi da mamma.”

E Pinocchio, poco più avanti:

“Sarebbe ora che diventassi anch’io un uomo come tutti gli altri.”

Seguono altre indicazioni sconcertanti, che gradualmente ci introducono nelle spire di una grande metafora sacro-magica.

Il tradimento ha il suono delle monete d’oro che tintinnano sotto la bocca serrata di un impiccato. Due ladri camminano accanto al burattino che vuole farsi uomo. Un provvidenziale colombo prende sulle spalle Pinocchio per condurlo in riva al mare, dove il padre sta scomparendo tra i flutti. Ed è nel ventre di un grande pesce che i due si ritroveranno incolumi per vivere insieme l’ultimo stadio dell’iniziazione di Pinocchio alla condizione umana.

La metafora religiosa nella fiaba del burattino che deve “farsi uomo” si sposa dunque alla liturgia di un cammino iniziatico che prevede dure prove da superare, errori da compiere per poterli poi riparare, ma sopratutto penetrazione del mistero della morte per poter rinascere alla vita. E questo è tipico di qualsiasi rito di iniziazione, dai più elementari a quelli più elaborati: il passaggio a una condizione esistenziale rinnovata presuppone la morte simbolica di ciò che si era prima di arrivare alla soglia del mutamento. La trasformazione di Pinocchio in asino e il suo ritorno alla condizione di burattino, dopo essere precipitato in fondo agli abissi marini ed essere stato liberato della pelle asinina da una torma di pesci, risponde dunque a regole magiche precise. E così l’immagine dell’ultima metamorfosi, allorquando il ragazzo in cui si è trasformato Pinocchio indugerà a guardare “con grandissima compiacenza le spoglie senza vita del burattino che era stato:

“Com’ero buffo quand’ero burattino! E come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!”

Ma al di là dell’iniziazione, l’intero gioco della metafora è calato in un contenitore esoterico, nel quale tutto ciò che è straordinario viene dato per scontato, dagli scherzi stile poltergeist del legno animato che diventerà Pinocchio alla gran copia di animali parlanti. Il burattino insomma conversa in corretto italiano risciacquato in Arno con una varietà infinita di animali – per lo più moralisti saccenti e presuntuosi, ma anche imbroglioni e opportunisti, sempre coalizzati contro di lui implacabilmente – che vanno dall’insopportabile Grillo al Gatto e alla Volpe, al Pappagallo indisponente del Campo dei Miracoli, al Granchio raffreddato e alla serva Lumaca, ai Conigli becchini e al Merlo bianco. E come se tutto questo non bastasse, Pinocchio è già notissimo tra le creature (animate o inanimate, come le marionette di Mangiafuoco) che di volta in volta incontra nel corso del suo travagliato cammino. Lo chiamano tutti per nome, lo acclamano o lo ammoniscono, lo esaltano o lo umiliano, ma sempre con grande cognizione di causa ed identità.

 Siamo sicuri che, per “farsi uomo”, questo burattino debba davvero essere iniziato ad uno stadio superiore? Siamo sicuri che diventare “un ragazzo come tutti gli altri” costituisca per lui un progresso rispetto alla condizione in cui si trova? Non siamo forse di fronte al depositario di occulti segreti che la gente comune stenta a cogliere? Non è per caso, questo Pinocchio, l’adepto di una società segreta all’interno della quale sa muoversi con un’agilità che ai profani appare invece goffa ed illegale? Una cosa è certa: conosce segni e simboli che gli permettono di comunicare e farsi riconoscere con tutte le creature che incontra, soprattutto se lontane dall’universo degli umani.

 Molte tentazioni offre la zoologia fantastica di Collodi a chi volesse addentrarsi in una lettura simbolica della fauna rappresentata nel romanzo. Pensate a quali conclusioni potrebbe condurci un’analisi approfondita dei significati rintracciabili nell’immagine del serpente con la coda che fuma, o in quella del pescecane nel cui ventre il burattino ritrova il proprio padre per ricondurlo alla luce, o infine in quella del grillo che tanto si presterebbe a una spregiudicata riflessione psica-nalitica. Inesauribile potrebbe risultare l’avvio semplicemente – non dico la trattazione – di un discorso intorno agli animali che Pinocchio incontra lungo il suo fantastico itinerario dal legno alla resurrezione nella carne.

Volendo dunque soffermare su di uno di essi la nostra attenzione – uno soltanto, a scopo esemplificativo, in funzione del metodo più che dei risultati della ricerca – scelgo la lumaca. Perché?

In primo luogo perché è bella ed inquietante anche se abitualmente tali aspetti sfuggono all’attenzione di chi l’osserva, nella meraviglia della spirale che connota la crescita del suo fragilissimo guscio. In secondo luogo perché l’insieme dei suoi caratteri, dall’ermafroditismo al letargo, stimola più di una lettura simbolica.

Cominciamo dalla spirale, che imprime alla conchiglia la dignità della perfezione geometrica. In essa il tempo s’interseca con la dimensione fisica: la spirale non conta più di un giro e mezzo alla nascita della lumaca, ma poi, nell’arco di tra anni, raggiunge la quattro circonvoluzioni e mezza. E c’è una regola in questa evoluzione: salvo eccezioni rarissime, la spirala i sempre destrogira. Trovare una lumaca con la spirala inversa, rivolta verso sinistra, è come trovare un quadrifoglio, come ricevere dalla natura un segno bene augurante.

La spirale che segna la crescita della lumaca, inoltre, rappresenta geometricamente (al contrario della linea retta) il cammino più lungo per spostarsi, seguendo regole precise, da un punto a un altro. Ma è anche il cammino che scelgono gli esecutori di molte danze o processioni sacre, appartenenti a paesi ed epoche diverse. Spiralico è ritenuto il percorso della danza dionisiaca, ma anche quello di certi riti funerari primitivi, laddove la bara del defunto viene posta nel punto centrale perché i partecipanti possano gradualmente avvicinarsi alle sue spoglie ed altrettanto gradualmente allontanarsene.

Se ne potrebbe dedurre che il percorso del dolore segue l’itinerario spiralico dall’area esterna verso il centro, e viceversa, il percorso della liberazione (allontanamento dalla bara, ma anche ritualità orgiastica della danza) segua l’itinerario dal centro all’infinito.

Al di là delle deduzioni connesse alla lettura simbolica della spirale, c’è un altro aspetto da non sottovalutare nella lumaca, ed è la matura particolarissima del suo letargo, nel quale ricorrono molto più vistosamente che in molte altre specie animali i segni della morte e della rinascita. All’approssimarsi dell’inverno, infatti, la lumaca non va in letargo addormentandosi come una tartaruga o un plantigrado, ma letteralmente muore: la lumaca si crea praticamene una bara sigillando ermeticamente il proprie guscio con una secrezione mucosa che, al pari di calce, s’indurisce al contatto dell’aria. Il suo cuore quindi cessa di battere e, con l’intensificarsi del freddo, il corpo diventa duro come una pietra. Pronto a rianimarsi con il tepore della primavera.

E a queste punto, la lumaca rinasce nella schiuma della propria bava, che nelle analogie di certi riti della fecondazione richiama le secrezioni femminili. Così come la conchiglia è assimilata alla vulva, mentre il corpo molle che ne fuoriesce simboleggia il parto.

Ma sempre per quella sua secrezione, la lumaca è considerata ricettacolo di sperma, quindi fecondatrice della terra.

Per cui il suo guscio rappresenta un riferimento preciso nei riti del ciclo agricolo, al punto che la conchiglia tritata viene mescolata alla semenza, presso molte comunità primitive, a fini propiziatori. Al fine, insomma, di assicurarsi un buon raccolto.

Secrezione femminile – seme maschile: non v’è nulla di contraddittorio in questa lettura analogica. Al contrario

si tratta di una interpretazione che in entrambi i casi tiene conto di un dato naturale concreto: la lumaca è madre e padre, dimensione solare e lunare al tempo stesso, nella cui natura rivive correttamente il mite dell’androgino. Nella lumaca dunque (per la quale ci ostiniamo ad usare il genere femminile solo perché nel lessico italiane manca il neutro) si esprime un’idea perfetta di concepimento e di parte, di fecondazione e di nascita, armoniosamente fondata sulla simbiosi di elementi maschili e femminili.

Non possiamo tuttavia ridurre questo simbolismo unicamente alla fecondazione. Se il guscio della lumaca è presente nei riti propizia tori del ciclo agricolo, esso ricorre con altrettanta frequenza nei riti funerari. In numerose tombe di età arcaica sono state ritrovate conchiglie d’ogni dimensione, talvolta legate tra loro come una collana al colla del defunto, oppure disposte in funzione ornamentale.

A centinaia, i gusci di lumaca sono stati ritrovati accanto ai resti dei defunti nelle tombe paleo-cristiane e in quelle d’età carolingia. Che significato attribuire alla loro presenza se non un potere simbolico connesso alla speranza della resurrezione?

Non mancane le raffigurazioni artistiche che parrebbero sostenere tale tesi. Ma altri elementi, al di là della perfezione geometrica della spirale dei cicli vitali, suffragano il mistero della lumaca: le sue antenne retrattili, in primo luogo, che oltre a stabilire un contatto “intelligente” con l’universo esterno all’ermetico contenitore del guscio, lasciano intuire indecifrabili rapporti con entità (astrali?) non identificabili.

A quali segnali rispondono le antenne nell’emergere dal letargo? Innumerevoli sono le sollecitazioni che la matura provoca in direzione della fantasia più sfrenata. E non è detto che si debbano seguire ad ogni costo, ma registrarle – tenerne conte, filtrarle, sublimarle attraverso la nostra, immaginazione – questo sì.

Così, con le sue corna e la spirale, con la sua bava bisessuale, la lumaca è tra i protagonisti, a buon diritto, del bestiario simbolico d’ogni età.

 E qui mi accomiaterei dalla lumaca e da tutto ciò che simbolicamente rappresenta per tornare alla realtà (ripeto: realtà, non fantasia) del nostro burattino che vuole farsi uomo. Di questa creaturina che con la sua sfrenata urgenza di libertà finisce per turbare la quiete feroce della tranquilla società umbertina. Subendone le conseguenze più spaventose: Pinocchio comincia con l’essere affamato e costretto a mangiare torsoli di frutta (con motivazioni “edificanti” non bisogna sprecare niente), poi mutilato dei piedi bruciati in un braciere accanto al quale si è incautamente addormentato per ripararsi dal gelo, quindi perseguitato da gendarmi e malfattori, da magistrati e sfruttatori, tutti uniti in una sorta di congiura plenaria.

Anche la lumaca, nella fiaba di Pinocchio, è strumento di questa crudeltà. Una crudeltà che si esprime, nel suo caso, attraverso quelli che sono i limiti naturali della sua condizione, cioè la lentezza, ma di conseguenza anche l’indifferenza per quanto le accade intorno, su cui sa di non poter incidere.

Nel caso di Pinocchio, la crudeltà di cui è strumento la lumaca, va oltre l’indifferenza e l’impossibilità pratica di aiutarlo: è punitiva. La lumaca impiega nove ore a discendere dall’ultimo piano al portone, dove Pinocchio attende al buio, tremando di freddo e di paura, tutto infradiciato dalla pioggia. E a un certo punto perfino inchiodato al portone – fisicamente immobilizzato – perché in un impeto di rabbia ha dato un calcio ed è rimasto conficcato con un piede nel legno.

Pinocchio, dopo essere rimasto in queste condizioni per nove ore, implora la lumaca di aiutarlo. Ed ecco il loro dialogo: “Che cosa fate con codesto piede conficcato nell’uscio? – domandò ridendo (la lumaca) al burattino.

È stata una disgrazia. Vedete un po’, lumachina bella, se vi riesce di liberarmi da questo supplizio.

Ragazzo mio, ci vuole un legnaiolo, e io non ho mai fatto la legnaiola.

Pregate la Fata da parte mia!

La Fata dorme e non vuoi essere svegliata.

Portatemi almeno qualcosa da mangiare, perché mi sento sfinito.

Subito! – disse la Lumaca.

Difatti dopo tre ore e mezzo Pinocchio la vide tornare con un vassoio d’argento in capo. Nel vassoio c’era un pane, un pollastro arrosto e quattro albicocche mature.

Ecco la colazione che vi manda la Fata, – disse la Lumaca.

Alla vista di quella grazia di Dio il burattino senti consolarsi tutto.

Ma quale fu il suo disinganno quando, incominciando a mangiare, si dové accorgere che il pane era di gesso, il pollastro di cartone e le quattro albicocche di alabastro. Voleva piangere, voleva darsi alla disperazione, voleva buttare via il vassoio e quel che c’era dentro: ma invece, o fosse il gran dolore o la gran languidezza di stomaco, fatto sta che cadde svenuto.”

Bene, questa cattiveria inaudita, questa perfidia raffinata nei confronti di una creatura (bambino o burattino) che ha freddo e fame, ci aiuta ad inoltrarci in un aspetto del romanzo – con il quale vorrei concludere – che non è secondario a quello esoterico. Direi anzi che, al di là della lettura simbolica, la fiaba di Pinocchio sottintende una denuncia storica e sociale che non può essere sottovalutata in termini di amore per il prossimo e di attenzione al progresso generale dell’umanità.

Umanità cui appunto il burattino si sforza in ogni modo di appartenere nonostante i motivi che essa gli da invece per discostarsene.

E qui, con ogni verosimiglianza, la lettura sociale (o d’amore, se così vegliamo chiamarla) si lega a quella esoterica (o dei simboli). Il fuoco e l’acqua, per esempio, saranno sempre presenti, nelle avventure di Pinocchio, come manifestazione esplicita di un’alleanza tra elementi contrapposti ed uniti nel fine comune di arrecare danno, sofferenza e paura all’indifeso burattino: il rischio di morire annegato o bruciato vivo è sempre presente nella storia. E sempre nei modi più atroci: Mangiafuoco vuol metterlo nel camino per cuocersi il suo montone, il Pescatore Verde lo infarina e lo vuole friggere in padella come un pesce, e quand’è ormai soltanto un ciuco azzoppato viene gettato in fondo al mare con una pietra al collo. E che farà l’uomo che ha tentato di annegarlo come asino quando lo vedrà riaffiorare in forma di burattino? Decide, subito di rifarsi del cattivo investimento rivendendolo “a peso di legno stagionato per accendere il fuoco nel caminetto”.

Tutte queste crudeltà sono tuttavia nobili da un punto di vista letterario perché rientrane nella pura retorica dalla fantasia. Ma è spaventoso come l’aspetto fantastico diventi secondario, per quanto predominante rispetto alle finalità “edificanti” del romanzo. Anche se infine le disavventure di Pinocchio, lungi dall’essere un monumento alla morale del secolo, finiscono invece per denunciarne le più aberranti crudeltà.

Vogliamo vedere? Ecco.

Se il ragazzo Pinocchio viene preso in una tagliola per avere tentato di cogliere un grappolo d’uva, il contadino che lo sorprende con la gamba mezzo massacrata non si darà da fare per curarlo, ma lo legherà alla catena e troverà il modo di sfruttarlo mettendolo a sostituire il cane da guardia. E nessun lettore s’indignerà, nessun precettore troverà in alcun modo deplorevole il comportamento del contadino, poiché è giusto in quella società punire un bambino affamato che ha tentato di cogliere l’uva non sua. Così, quel turpe individuo che meriterebbe di essere arrestato diventa un gran brav’uomo, di quelli sui quali i benpensanti umbertini possono fare pieno affidamento.

Allo stesso modo, se qualcuno approfitta della fame di Pinocchio per proporgli lavori pesanti come tirare un carretto di carbone o caricarsi sulle spalle un secchio di calce, nessuno è sfiorato dall’idea che in simili preposte si configurino gli estremi di un reato odioso come lo sfruttamento del lavoro minorile. Al contrario, se c’è qualcuno nei cui confronti mettere in moto meccanismi di austera condanna, questi è il bambino nonostante la fame, rifiuta di sottomettersi a tali angherie sociali.

La crudeltà del romanzo di Collodi è raffinata, in quanto metafora di un credo morale senza scampo, che perfino in chi ne subisce le vessazioni non suscita ombra di ribellione o pietà. È anche per questo, evidentemente, che la denuncia di Collodi ha un suo terrificante potere, che ogni coscienza di piccolo lettore non ha mai mancato di registrare in termini di smarrimento e di angoscia, senza bisogno di ricorrere a quella “lettura critica” che invece per un adulto è il più delle volte indispensabile.

In definitiva, Pinocchio è un esemplare saggio di occultamento della crudeltà dietro pretesti morali, una parabola il cui protagonista è perfino privato dell’elementare diritto – comune a tutti gli altri bambini – di dire le bugie. Non può farlo fisicamente: gli cresce mostruosamente il naso.

Ne colse il senso profondo Carmelo Bene, anni addietro, in una memorabile trascrizione scenica del romanzo.

Dalle sue note di regia:

“Sarebbe stato meglio ne avessero fatta una bara di questo legno, invece di una crocetta di bambino che non sa dire nemmeno una bugia.”

A conclusione di questo studio del carissimo F:. Franco Cuomo riportiamo alcune considerazioni del F:. Emilio Servadio sul “Pentimento di Collodi”.

Collodi, negli ultimi anni della sua vita, non ricordava di aver terminato le avventure di Pinocchio nel modo che tutti sanno, ossia con la trasformazione del burattino in un «ragazzino per bene». Lo hanno affermato vari Autori degni di fede e, ancora recentemente, quel buon conoscitore del mondo collodiano che è Renato Giuntini.

Dato che le facoltà di Collodi, morto non troppo vecchio, risulta fossero intatte anche nei giorni della sua non lieta senescenza, non si può non chiedersi a che cosa potesse esser dovuta l’anzidetta cospicua amnesia. L’ipotesi che ci sembra più plausibile è quella che in Collodi, nei riguardi della sorte finale della sua creatura, sia intervenuta una vera e propria «rimozione», ossia quel meccanismo automatico di difesa, per cui molti contenuti psichici sgradevoli vengono accantonati, e relegati nel buio dell’inconscio.

Ma se così è stato, per qual motivo Collodi si sarebbe, in un certo modo, «pentito» di aver mutato il burattino in ragazzo, a tal punto da cancellare, psicologicamente, l’accaduto?

A nostro avviso, non si può capire l’anzidetta «rimozione» se non si tiene presente che il vero senso di Pinocchio consiste, ai più vari livelli, per l’appunto nel suo presentarsi a noi come personaggio magico, erratico, surrealistico, appartenente a un mondo «tangenziale» rispetto a quello umano, e non identificabile con esso. Considerato come portatore d’istinti elementari, Pinocchio si dibatte fra «cose più grandi di lui», ma non vuole saperne della «ragione», rappresentata dal Grillo Parlante. Visto sotto il profilo religioso, Pinocchio è «senz’anima». Da un altro punto di vista, è dura «materia» (si noti che in Spagnolo madeira vuol dire legno), e come tale indistruttibile, ma incapace di spiritualizzarsi…

Verso la fine del racconto, la necessità di una tale trasformazione si è indubbiamente affacciata alla mente di Collodi. Con una di quelle intuizioni di cui sono capaci gli artisti, egli immagina allora Pinocchio come protagonista di una vera e propria prova iniziatica, del tutto analoga a quelle indicate in molte tradizioni spirituali, che sistematicamente descrivono la permanenza del profano in una caverna, o sepolcro, o ventre di un grande animale, e la sua finale uscita quale nuovo essere, «puro e disposto a salire le stelle», per citare soltanto un esempio, quello della fine dell’esperienza terrena nella Divina Commedia. Ci si chiede ovviamente qui se e quanto Collodi abbia attinto, e con quanta consapevolezza, al racconto di Giona, o a quel che ci è stato tramandato circa le discese iniziatiche nell’antro di Trofonio, o sui «sepolti vivi» di certe pratiche tibetane; o anche, più semplicemente, a quel che aveva potuto sapere circa il «gabinetto di riflessione» massonico…

Ma dopo? Dopo, Collodi non è stato all’altezza dell’impostazione, non è riuscito a far di Pinocchio un vero risorto, un illuminato, l’equivalente di un giovane cavaliere del Graal. Si è accontentato della soluzione più modesta e più borghese. Dopo la tremenda prova del mostro marino, la conquista di un’indipendenza che gli consente di reggere il proprio padre sulle spalle, la traversata magica delle «grandi acque» a cavallo di un pesce che parla… Pinocchio, approdato a nuove rive, diventa… nulla più che «ragazzino per bene»!

Ben si comprende come tale mortificante conclusione non soddisfacesse Collodi (sia pure a livelli profondi e non consapevoli); e come egli, pertanto, l’abolisse infine addirittura dalla scena delle sue riflessioni, e dalla sua coscienza.

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

??? TRE PUNTI INTERROGATIVI

Ama te stesso come il prossimo tuo. Ama il prossimo tuo come te stesso.

In fondo il concetto può essere equipollente: l’unica differenza, non del tutto secondaria, è legata alla priorità data al soggetto primo: il prossimo o me stesso.

Ma poi cosa significa amore? Il fatto stesso di pormi il quesito, potrebbe significare che non ho idee chiare e concrete sul significato dello stesso.

Cosa vuol dire amore?

Sacrificare se stesso per gli altri? Se cosi fosse non ci potrebbe essere identità tra noi stessi ed il prossimo, a meno che io riesca ad uscire dal conformismo e quindi legga la parola sacrificare con una differente chiave di lettura: sacrum facere. Rendere sacri noi stessi affinché il prossimo possa essere reso sacro. Si tratta in definitiva di un sacrificio reciproco.

Amare il prossimo.

Fare del bene al prossimo. Ma cosa significa concretamente fare del bene? Fare del bene può significare trasferire il mio concetto di bene, soggettivo (e quindi, perché no? , egocentrico) sugli altri. Ma quello che è bene, secondo il mio punto di vista, lo è necessariamente anche per gli altri?

Se così fosse, tutto dovrebbe essere a mia immagine e somiglianza, il che può evidentemente essere in contrasto con la valutazione del bene secondo l’ottica degli altri, perdendo quindi di vista quello che dovrebbe essere il bene universale, assoluto. Se è assoluto, non è ne mio ne degli altri, è ANCHE mio, è ANCHE degli altri.

Amare potrebbe anche essere il fare ciò che può far piacere (?) al prossimo, anche se questo può essere in contrasto con quello che potrebbe far piacere (?) a me.

Amare potrebbe essere l’azione passiva: essere disponibile per le necessità, i bisogni, del mio prossimo. Potrebbe significare: far capire agli altri la mia disponibilità ad essere disponibile.

E, a mio giudizio, anche, e forse soprattutto, un giusto equilibrio tra parità e tra identità. Il me stesso che è contemporaneamente il prossimo e viceversa. Questa parità di identità crea la necessità di parità di trattamento.

L’imperativo è categorico, ama. Quindi non puoi odiare te stesso: non puoi odiare il prossimo. La parità si trattamento è a via unica: ama il prossimo tuo. Non dice odia il prossimo tuo. Se io odio me stesso, odio il mondo.

49

Ma l’odio e l’amore sono le due facce della stessa moneta, e quindi anche l’odio potrebbe essere, in fondo, una forma d’amore.

L’importante potrebbe essere solo la presenza di una pulsione e in questo caso il negativo potrebbe essere non l’odio ma l’indifferenza.

Se una moneta, tirata in aria, quando ricade rimanesse perpendicolare al piano sul quale si ferma, ci troveremmo dinanzi all’indifferente (né amore né odio) ma anche forse piuttosto dinanzi al giusto equilibrio tra amore e odio.

Assenza di moto. il pendolo inerte. Equilibrio perfetto e stabile

Eros, pathos, philia, caritas! Amore: quale? il termine italiano è sfumato, impreciso e non ci aiuta a capire.

Ma è proprio necessario capire? Capire è uno sforzo della mente ed ogni sforzo non armonico è una forzatura della natura.

Forse sarebbe meglio lasciarsi andare per intuire cosa significa amare noi stessi, accettando nel contempo il modo di amare del nostro prossimo.

E se il primo passo per amare noi stessi fosse quello di accettare noi stessi? E se il primo passo per amare gli altri fosse quello di accettare gli altri?

E. Scld, 26 ottobre 1995 e.•.v.•. (1 0 Grado)

50

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

DIRITTO DI SCELTA

DIRITTO DI SCELTA

Nasciamo senza averlo chiesto, moriamo desiderando di continuare a vivere e talvolta continuiamo a vivere pur desiderando di morire.

Con il Cristianesimo si impose l’obbligo, sulla base di una verità di ordine metafisico. Oggi ha un carattere sociale, avendo la sublimazione della sofferenza perso ogni giustificazione religiosa, sostituita solo da quella sorta di ottimismo pressoché obbligatorio della società dei consumi e da quella cosa, vaga, definita progresso.

Questo spiega perché oggi la parola più temuta, quasi impronunziabile, certamente rimossa dai più, è : suicidio.

I medici, questi detentori di un sapere, e pertanto di un potere, di un patrimonio di conoscenze tecniche di cui sono detentori esclusivi, forse tacitamente, senza clamore e senza alcuna pubblicità, forse già fanno quello che un medico fiorentino ha fatto, cioè ha “aiutato” una persona che glielo chiedeva, a morire dolcemente. Mettendo così molti di fronte ad uno scandalo che non giusto più, almeno per noi, sottacere!

Per i profani, nominarlo, costringere a pensarci è un oltraggio che la nostra società può a mala pena tollerare: caso mai, se si deve fare, che lo si faccia, ma almeno non se ne parli poiché ciò di cui si tace “tanquam non esset”.

Le volontà di vita sono così forti che alcuni, giunti a livelli di sofferenza tali che la mente umana non riesce neppure ad immaginare od a stati di malattia chiaramente finali, si illudono di avere ancora speranza e respingono l’idea della propria morte.

Costoro, che forse rappresentano la maggioranza, hanno tutti i diritti di essere assistiti e sostenuti, pur nell’ingannevole speranza.

Molte altre persone, tuttavia, chiedono disperatamente, reiteratamente e lucidamente la morte: perché negare, a costoro, questo diritto in nome di un patto sociale da loro certamente mai sottoscritto, né riconosciuto?

Penso che la medicina sia diventata un “qualche cosa” di svincolato dal suo fine primitivo, che trova la sua giustificazione dell’esercizio di una sua volontà di potenza.

Trascuriamo gli aspetti economici, che pure hanno in questo momento storico una rilevanza niente affatto secondaria, e guardiamo quale possa essere il suo obbiettivo sul piamo ideologico: sembra voler costringere l’individuo ad una ulteriore, terribile sofferenza anche se, secondo la legge della natura, oramai avrebbe già dovuto cessare di soffrire. Sovente ridotto ad un insieme di sofferenze e di dolore, spogliato di quello che ha di più sacro: la propria dignità.

Insomma, il prolungamento della vita porta a sofferenze che la natura, di per sé né buona né cattiva, nella sua indifferenza verso il singolo e nella tutela verso la specie, non ha previsto. L’uomo insomma viene cosi sottoposto a torture brutali e senza scopo senza alcuna giustificazione, neppure metafisica.

59

Mi domando come possa la Chiesa cattolica, ormai lontana da un contenuto spirituale, ma divenuta una specie di centro di assistenza verso i popoli del Terzo Mondo, opporsi alla morte voluta. In nome di che cosa?

Credo che la morte voluta, e concessa, al malato senza più né speranza. né forza per sopportare il male sia solo un aspetto del problema. Si può desiderare la morte per sottrarsi al degrado psicofisico, giocando d’anticipo.

La vita è l’attesa della morte, è una sorta di debito che contraiamo nel momento stesso in cui nasciamo: possiamo pagare a rate, morendo un po’ tutti i giorni, oppure dovrebbe esserci concesso di pagare tutto subito, in contanti. Ma si può voler morire anche solo perché la vita per noi non ha più senso alcuno.

Insomma, deve essere riconosciuto a ciascuno di noi un diritto inalienabile, sulla base della dignità stessa della di essere un uomo libero: quello di poter decidere, in ogni istante della propria vita, se vivere o no.

E sento che, se così fosse, il significato stesso della nostra vita diventerebbe infinitamente più intenso.

Nell’antichità l’etica era tutta altra cosa dall’attuale: l’immagine del vecchio saggio che dolcemente si spegneva nel bagno caldo, in compagnia degli amici fidati, con il medico che gli rallentava il flusso del sangue man mano che la discussione procedeva, oggi non è più possibile.

TAVOLA  DEL  FR.’. A. Bgg,

60

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

IL PREGIUDIZIO EVOLUZIONISTICO

IL PREGIUDIZIO EVOLUZIONISTICO

Premessa

Considero questo un argomento di importanza del tutto particolare poiché ritengo che il pregiudizio evoluzionistico svolga nel mondo moderno una precisa quanto nefasta funzione: quella di dirottare ogni possibile ricerca della spiritualità nella direzione sbagliata.

Questo perché chiunque voglia ricercare e conoscere la propria natura profondo, quindi spirituale, deve volgersi verso la propria origine, e non viceversa, cercando di risalire a ritroso il corso della manifestazione. Questo è il percorso del viaggio iniziatico (che mi sento di definire “il Viaggio” per eccellenza) di cui, come tutti i viaggi, è indispensabile innanzi tutto conoscere la direzione. E evidente che più procediamo nella manifestazione, più ci allontaniamo dall’Origine, in regioni meno ricche di spiritualità e in cui si accentua la possibilità di deviazioni e di errori. Pensare di trovare nel presente o nel futuro un’evoluzione o un miglioramento rispetto al passato è, quindi, commettere un chiaro errore di valutazione.

Alcune considerazioni sui pregiudizi in generale

Mentre i giudizi sono il frutto di un lavoro di sintesi che effettua ogni individuo, per mezzo di intuizioni intellettuali prima, ed operazioni razionali poi, i pregiudizi nascono da influenze e da suggestioni che gli esseri ricevono in modo passivo dall ‘ambiente.

Essi si insinuano favoriti da un offuscamento e da un intorpidimento delle capacità discriminative (che può essere transitorio o anche durare per una vita intera, come spesso disgraziatamente avviene) grazie all’ingerenza di elementi di natura sentimentale e passionale nella sfera intellettuale.

Questo processo non è esente naturalmente da responsabilità personali. La pigrizia mentale svolge un ruolo di primo piano, favorita dalle tendenze alla passività e dalla mancanza di desiderio di verità che caratterizzano oggi disgraziatamente la maggior parte degli individui.

Ci si può chiedere legittimamente da dove provengono i pregiudizi. La risposta non può che essere netta: sono le correnti di pensiero controiniziatiche che se ne servono per formare la mentalità delle masse, che potranno poi influenzare e dirigere con maggior facilità.

I meccanismi con cui i pregiudizi vengono inculcati sono ben congegnati: suggestioni esercitate con tutti i mezzi di comunicazione; affermazioni presentate come conquiste sociali del pensiero facendo appello alla cultura ufficiale e ai suoi rappresentati; procedimenti discorsivi (libri, conferenze, congressi, ecc.) realizzati da presunti specialisti che lasciano, in un pubblico normalmente impreparato, impressioni di grande razionalità e intellettualità.

Un grosso ruolo in questo processo lo svolgono gli obblighi a cui è sottoposto l’uomo moderno per adempiere a quelli che potremo definire “doveri sociali” con infinite complicazioni di carattere burocratico e formale la cui osservanza conduce ad enormi perdite di tempo e di energie. In paralllo, troviamo le tentazioni, innumerevoli, che vanno dalla televisione, agli spettacoli sportivi, alla pornografia, alla droga, ai mille richiami della pubblicità.

Questo autentico bombardamento psichico conduce al risultato di assorbire l’attenzione degli individui, ne affievolisce le capacità critiche, orientandoli verso scopi che nulla hanno a che vedere con la spiritualità, rinchiudendoli così in un autentico letargo intellettuale.

Quando i pregiudizi acquisiscono una particolare cronicità, oppure diventano fenomeni collettivi investendo intere popolazioni e caratterizzando dei periodi storici, li si può definire “superstizioni”. In questo senso René Guénon nella sua opera “Oriente e Occidente”, capitolo “La superstizione della scienza”, traccia magistralmente il quadro di uno dei pregiudizi che caratterizzano la mentalità moderna. Così egli si esprime: “La civiltà occidentale ha, fra le altre pretese, quella di essere essenzialmente scientifica; sarebbe opportuno precisare meglio che cosa si intenda con tale parola, ma di fatto questo generalmente non si fa, poiché essa è una di quelle a cui i nostri contemporanei sembrano annettere una sorta di potere misterioso, indipendentemente dal loro significato. La Scienza, con la maiuscola, come il Progresso, la Civiltà, il Diritto, la Giustizia e la Libertà, è anch’essa una di quelle entità che è meglio non cercare di definire e che rischiano di perdere tutto il loro prestigio non appena si incominci ad esaminarle un po’ troppo da vicino. Tutte le cosiddette conquiste, di cui il mondo moderno va tanto fiero, si riducono così a grandi parole dietro le quali non c’è nulla, o molto poco: suggestione collettiva, abbiamo detto; illusione che, per essere condivisa da tanti individui e mantenersi come fa, non può essere spontanea …”l

Il pregiudizio non fa distinzione di razza e di religione, di età e di cultura. Colpisce chiunque non abbia la sufficiente difesa da opporgli. Può esserci un pregiudizio religioso (da parte di chi, ad esempio, si applica troppo alla lettura di certi dettami trascurandone lo spirito) e può esserci il pregiudizio antireligioso, da parte di chi è prevenuto nei confronti della religione ed arriva a stravolgerne il significato. Si possono citare ad esempio correnti di pensiero quali il materialismo che nega l’esistenza delle realtà spirituali, o della psicanalisi che attribuendo le realtà spirituali al subconscio arriva a negare la trascendenza.

Avviene così che chi considera una certa mentalità viziata da pregiudizi, può essere affetto da pregiudizi egli stesso; di qualità differente, ma sempre relativi allo stesso soggetto e con lo stesso effetto di distorcere la vera natura di ciò di cui si tratta.

Per comprendere la gravità degli effetti dei pregiudizi, basta osservare le ripercussioni che ha comportato la perdita della Tradizione da parte delle attuali società profane. Gli effetti credo siano visibili con facilità da chiunque! (Se dovessero servire delle conferme, sarebbe sufficiente sfogliare un qualsiasi quotidiano o accendere un apparecchio radio o televisivo, per avere l’idea del degrado a cui è pervenuta la società di oggi!).

Presupposti del pregiudizio evoluzionistico

Il pregiudizio evoluzionistico basa la sua ragione d’essere sul presupposto che dal meno possa scaturire il più: questo asserto di così vistosa assurdità è il perno su

Chi desiderasse approfondire la varietà dei pregiudizi moderni ne troverà esauriente trattazione nell ‘opera di René Guénon “11 regno della quantità e i segni dei tempi”

cui poggia tutta la teoria evoluzionistica. Un colosso dai piedi d’argilla, dunque? Evidentemente; ma grazie all ‘apparato che ne ha sostenuto e continua a sostenerne l’esistenza, riesce a sedurre molti spiriti, anche tra quelli animati dalle più sincere intenzioni.

Secondo questa teoria, il mondo vegetale scaturirebbe dal minerale, quello animale dal vegetale, l’uomo dalla scimmia, l’intelligente dallo stupido; gli organismi si adatterebbero alle modificazioni dell’ambiente in cui vivono grazie ad un lento e costante mutamento del patrimonio genetico, reso possibile dal trascorrere di un numero inverosimile di anni. Si fa appello alle leggi del caso, alla selezione naturale, escludendo I ‘intervento di una qualsiasi intelligenza ordinatrice.

Le ragioni del successo

Questa teoria di così chiara audacia e illogicità non è sicuramente frutto del caso; come già detto i pregiudizi non nascono mai soli; essa difatti, una volta accettata, consente all’uomo di “liberarsi” dall’idea di Dio e quindi dall’obbligo etico e metafisico di sottomettersi a Lui. Questo spiega il successo incontrato dall’evoluzionismo ai suoi tempi (sembra che quando Darwin pubblico il primo dei suoi libri sull’argomento “l’origine della specie” nel 1859, la prima edizione andò esaurita in un solo giorno). Era esattamente ciò che la borghesia di allora aspettava per potersi meglio esprimere, eliminando dei freni inibitori. Da quel momento, qualunque iniziativa si giustificava in funzione di un ipotizzato quanto certo perfezionamento futuro, cosa che rendeva più accettabili a tutti rinunce e sacrifici (spontanei o imposti); un invito a produrre (industria moderna con gli aspetti quantitativi che ben conosciamo e con la negazione dell’antico mestiere visto come mezzo di realizzazione spirituale – la Massoneria operativa tra questi) e a creare sistemi di pensiero che dovevano essere per definizione più evoluti di quelli precedenti. Era il germe della teoria del superuomo e la sconfitta delle antiche tradizioni, destinate a diventare, da quel momento, pure superstizioni del passato! Complice tutt’altro che trascurabile la soddisfazione di sentirsi uomini evoluti e perfezionati, al cospetto dei quali gli antichi apparivano come dei poveri imbecilli!

Tutto ciò quando è noto, da fonti scientifiche stesse, che la probabilità che una modifica casuale del patrimonio genetico rappresenti qualcosa di positivo per un essere vivente e non una semplice aberrazione o malformazione, è praticamente inesistente (qualcuno ha scritto che corrisponde alla probabilità che il vento, passando per un deposito di rottami, monti i pezzi di un’automobile!).

Le posizioni antitetiche delle dottrine tradizionali

Sulla base delle dottrine tradizionali si può dire invece che ogni specie è caratterizzata da un insieme di qualità le quali, una volta manifestate, possono essere trasmesse alla propria discendenza, ma non possono essere alterate, salvo pregiudicare la sopravvivenza della specie stessa.

Inoltre, le possibilità che si manifestano per prime in ordine temporale sono quelle di ordine superiore poiché è la manifestazione che si irradia da Dio, analogamente alle onde concentriche di un sassolino caduto nell’acqua. Poiché le prime forme manifestate sono quelle più vicine al Principio, è evidente che riceveranno maggiormente la sua influenza (spirituale), rispetto a quelle che verranno manifestate in tempi successivi.

Psicologia dell’evoluzionista

Chi è affetto dal pregiudizio evoluzionistico è convinto che l’uomo di oggi vive una vita qualitativamente progredita, risultato di un perfezionamento e di una evoluzione tuttora in corso, il cui fine, ammesso che esista, riserverà all’uomo gioie immense.

Interpreta le contraddizioni che emergono dal confronto con la realtà come dei trascurabili incidenti di percorso; un inevitabile prezzo da pagare per chi è in lotta per il proprio perfezionamento. Accetta con supina rassegnazione la vita frenetica di oggi: la delinquenza, la corruzione, la disoccupazione, lo stato di malattie diffuse grazie, altre che allo stress, all’alimentazione sbagliata e all’inquinamento dell’ambiente; la mancanza di un’etica che non sia il proprio tornaconto individuale; le divisioni e i disaccordi dovuti alla mancanza di principi comuni, che vanno dalla sfera della famiglia, a tutti i centri detentori di potere, alla società intera.

Tutto questo (l’elenco potrebbe continuare a lungo) viene giustificato in nome dell ‘evoluzione.

Credo si possa legittimamente esclamare: potenza del pregiudizio!

L’evoluzionismo in Massoneria

Mi soffermerò ora sulle ripercussioni (e sulle contraddizioni) che emergerebbero se il pregiudizio evoluzionistico venisse applicato in seno alla nostra Istituzione.

Perché parlare ancora in questo caso di Tradizione in generale, e massonica in particolare, dal momento che questa ci perverrebbe attraverso uomini inferiori a noi? Che senso avrebbe inoltre:

  • ricercare la parola perduta?
  • ricercare le proprie origini?
  • ricercare il significato dei simboli trasmessici?
  • attenersi al Rituale, cercando di conservarlo e di interpretarlo, vivificandolo nella sua integrità?

Conclusioni

Le considerazioni sopra riportate dovrebbero essere sufficienti a chiunque per vanificare il pregiudizio evoluzionistico. Il primo passo consiste sicuramente in una presa di coscienza.

Ma chi ne è affetto, vorrà o saprà farlo?

TAVOLA DEL FR.’. R. My,

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

BREVI CONSIDERAZIONI SU DI UN SUGGESTIONE COLTA IN UNA TAVOLA DI ISTRUZIONE

BREVI CONSIDERAZIONI SU DI UN SUGGESTIONE COLTA IN UNA TAVOLA DI ISTRUZIONE

Venerabile Maestro, Cari Fratelli,

la sempre più incalzante impressione di degenerazione che invade ogni livello di società, di declino di ogni principio che possa avvicinarci al Grande Architetto, mi ha indotto a riprendere l’argomento del “Risveglio” già introdotto tempo addietro da un nostro Fratello nella propria tavola, con la seguente asserzione: “Permettetemi di esordire con un concetto molto importante: io non insegno, tutt’al più io risveglio”.

Desidero esprimere gratitudine a questo Fratello, poiché con l’introduzione di questo tema, oltre a sottolineare una funzione che ritengo propria di un iniziato, mi ha stimolato ad approfondire alcune considerazioni.

Innanzi tutto il fatto che ciascuno abbia in se il Tutto, fondamentale riflesso del Principio Divino che esiste in tutti gli esseri, e per mezzo del quale essi possono aspirare alla propria salvezza spirituale. Tutti gli esseri sono, chi più chi meno, vittime delle spire insidiose e asfittiche di questo mondo degenerato, nel quale si può identificare simbolicamente il serpente della Genesi per l’atmosfera cui esso dà luogo. Gli esseri infatti non hanno più una specifica Tradizione a cui fare riferimento, in quanto le Tradizioni stesse sonno degenerate. Dicendo Tradizione mi riferisco a tutto ciò che è appannaggio di un popolo e costituisce elementi completi e integrali di importanza vitale, il cui carattere può essere solo Sacro e legittimato dal Grande Architetto; questi elementi assicurano alla Tradizione il suo regolare funzionamento.

Viviamo dunque in tempi caotici; i segni del disordine appaiono nella mancanza evidente di tradizioni, e gli uomini, slegati dalle loro origini, sono influenzati in vari modi da correnti di influenza che conducono a offuscamento, torpore, assopimento e corruzione sia interiormente che esteriormente.

Si assiste allora a uno squilibrio della mente e della ragione come pure dell’anima e dei suoi sentimenti. Tale squilibrio è l’inevitabile conseguenza dell’obnubilamento della luce intellettuale. È ad essa che si fa riferimento in un particolare momento dell’apertura dei lavori massonici che viene ripetuto in ogni tornata rituale: “Che la Sapienza illumini il nostro Lavoro”.

Vi è da pensare che in tempi così caotici più che mai sia necessario un riequilibramento e una restaurazione, riproponendo a tutti coloro che ne sono interessati, la meditazione su simboli che hanno fortunatamente conservato la funzione implicita di risvegliare in noi stessi le nostre effettive possibilità spirituali in vista di detta restaurazione -, ampliandole ed esternandole per operare in modo reale ed effettivo al piano del Grande Architetto dell ‘Universo.

Questo lavoro è quanto si propongono di fare le istituzioni iniziatiche; attualmente, in particolar modo, la Massoneria durante i suoi convegni rituali – le Tornate -: “Per edificare Templi alla Virtù, scavare oscure e profonde prigioni al vizio e lavorare al bene e al progresso dell’Umanità”. Questo progresso è da intendersi prevalentemente spirituale, pur avendo quest’ultimo inevitabili riflessi su tutto quanto è di ordine subalterno.

In un passato ormai lontano credo che anche i luoghi di culto e di meditazione avessero probabilmente questo compito, sicuramente oggi non più operativo, se non addirittura perduto, lasciando così sempre più spazio a parodistiche imitazioni dei Riti veri e propri, come le cerimonie delle ormai numerose sette di ogni genere che infestano il mondo.

Le funzioni erano espletate da persone ordinate ad esse e a tutt’oggi sopravvivono ancora nella Massoneria, unica istituzione ancora tradizionale nella quale gerarchicamente vengono consumati gli antichi Riti.

Per Rito intendo una comunione prevalentemente essenziale con il Grande Architetto, comunione il cui supporto è la forma dei simboli. Per Cerimonia, invece, intendo tutto ciò che, sovrapponendosi al Rito vero e proprio senza però alterarlo, ha lo scopo di impressionare sentimentalmente coloro che non sono in grado di concentrarsi sull’aspetto essenziale del Rito, al fine di mantenere il rispetto della pratica e anche la conservazione di quest’ultimo. Infatti è il “Rito” che consente effettivamente di beneficiare di una vera e propria “Influenza Spirituale”. Quanto al potere reale della Cerimonia, qualora sia svincolata dal Rito che la può giustificare, è in tutta evidenza un mero apparato esteriore. Il nostro essere individuale, a simulazione del Tempio, viene eretto mattone su mattone, squadrato pietra su pietra, affinché la sua costruzione proceda secondo la volontà del Grande Architetto, coinvolgendo ogni nostra facoltà a immagine delle Tre Colonne e dell’Officiante del Tempio Massonico.

I Lavori Massonici avvengono in Templi ad essi consacrati, luoghi che presentano caratteristiche tali da determinare, appunto, il “Risveglio” in noi stessi da questa realtà in via di degenerazione, sollecitando la ricerca verso la salvezza spirituale.

Tali caratteristiche sono rappresentate da vari e molteplici simboli, il più importante dei quali, ritengo, è il “Quadro di Loggia”, detto anche “Quadro mistico”. Esso è in pari tempo il cuore sia dell’uomo che del Tempio stesso, e rappresenta, con i suoi elementi simbolici, l’Influenza Spirituale caratteristica del Grande Architetto dell’Universo.

Nessun altro luogo, pertanto, come molti sarebbero invece propensi a ritenere, potrebbe essere adatto allo scopo – assenti i simboli -, poiché cono proprio i simboli che allontanano in fase rituale, influenze profane di qualsiasi ordine, che interferirebbero negativamente sul Rito. Il Rito, in quanto Sacro, contrasta inequivocabilmente il profano.

Il Lavoro, che si compie quindi con i mezzi simbolici che tali luoghi mettono a disposizione, è precisamente il fine che essi si propongono, quello cioè di risvegliarci rendendoci coscienti del Sacro ruolo Spirituale della nostra istituzione iniziatica che talvolta taluni purtroppo tendono a dimenticare.

TAVOLA  SCOLPITA  DAL FT.’. L. Orlnd,

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

LE VIE DEL MASSONE

DCF 1.0

LE VIE DEL MASSONE

Maestro Venerabile e fratelli tutti carissimi,

per diventare Libero Muratore ciascuno di noi deve, durante il Rito di Iniziazione, aver già affrontato, e vinto, la Morte. Lo scopo dell ‘iniziazione è quello di mettere ordine nelle varie questioni che sono, per il profano, in disordine perpetuo, un po’ per definizione. In fondo, la differenza tra mondo iniziatico e mondo profano sta tutta qui !

Credo di poter affermare che lo sviluppo del Libero Muratore avviene su TRE diversi ma contemporanei percorsi:

l) nell ‘interiorità 2) nel Tempio

3) nel mondo

LA PRIMA VIA: l’interiorità

il Libero Muratore non ha paura di stare solo, anzi! È proprio nella solitudine e nel silenzio che gli riesce più facile lavorare: leggendo, meditando, confrontando e macerandosi. E insomma dentro di sé che trova pace e sviluppa idee, intuizioni e convincimenti. E insomma quello che noi diciamo costruire il Tempio interiore. Solo, in compagnia di se stesso, il L.’.M.’.  sta veramente bene.

Ma, affinché questo lavoro non sia sterile, o peggio ancora per evitare pericolose deviazioni dalla retta via, ecco la necessità, per l’iniziato, della seconda via.

LA SECONDA VIA: il Tempio

è la dimora ideale, rituale e profonda di cui Rito e Simboli sono gli elementi di maggior rilievo. Il Rito deve essere ripetuto sempre uguale, o con quelle piccole modifiche che lo migliorino (grazie alla sempre maggior comprensione e partecipazione di tutti i Fratelli). Esso agisce anche grazie ai Simboli che, costantemente proposti, sono base e suggerimento. Base e suggerimento utilizzabili per meditare e comprendersi. Ed è in queste condizioni che dovrebbero emergere e manifestarsi sia le propensioni che le speranze; ed è ancora qui che si deve gioire dei progressi (anche solo parziali) di ogni singolo fratello!

E qui, tra le, che si viene iniziati: ed è in compagnia dei Fratelli che si impara sia la Tradizione che l’uso dell’esoterismo. È questo, insomma, il luogo privilegiato della vita massonica. Ed un massone è tale nella misura in cui partecipa alla vita di Loggia, qui imparando ad amare ed a perseguire la Verità e la Virtù, ad usare la tolleranza e ad incrementare la propria spiritualità. Ed in base alle inclinazioni, alla cultura ed alle nozioni qui imparate, al confronto con i Fratelli che si deve scegliere quale metodo iniziatico si vuole seguire, in libertà: possiamo essere razionali e seguire la dea ragione, o sentirsi più vicini ad un “verbo” rivelato (sia da una religione che da un filosofo o da un grande illuminato): potremo cercare di comprendere il Fine attraverso il simbolismo o l’esoterismo, sentirci religiosi o mistici. Ma, infine, quello che diverremo sarà in ogni caso un uomo migliore. E questo risultato verrà proiettato nel mondo in cui si vive: proprio quel mondo che, nel bene e nel male, usufruirà del nostro cambiamento, ossia delle conquiste e delle realizzazioni avvenute.

LA TERZA VIA: il mondo al contrario del Tempio, questo è la dimora della esteriorità, della profanità, del fenomenico, dell’umano e del sociale, del transitorio e dell ‘homo (lupus? sapiens?). Insomma, dell’imperfezione!

Lo possiamo vedere, e spero proprio siate concordi con me nell’affermare che esso è difettoso, bacato! E, ammettiamolo, anche la stessa Massoneria ha finito per esserne contaminata.

Il male c’è, esiste, ci circonda!!

Tuttavia noi sappiamo, o meglio possiamo immaginarlo, che un mondo senza male (e quindi enormemente migliore) può esistere. Ed è a questo scopo che noi dobbiamo lavorare e dobbiamo impegnarci. Ripensiamo un attimo alla frase del Rituale che afferma che dobbiamo: …lavorare al bene e al progresso dell’umanità…” senza sosta.

Ipotizziamo allora che sia accaduto qualche cosa di terribile che ha modificato l’ordine preesistente nelle leggi della natura. Di conseguenza noi ora viviamo una forma “distorta” della vita e del cosmo.

Ciò mi pare sia perlomeno plausibile.

Per avvalorare l’ipotesi, posso affermare che quell’ordine ancora esiste: pensiamo a tutti quegli aspetti in cui l’uomo non è riuscito a mettere il proprio zampino: tutto quello che esiste nel cosmo inteso come “sistema”, ma anche la perfezione del corpo umano e degli altri esseri viventi in genere, insomma dall’enormemente grande all’enormemente piccolo.

Allora credo di poter affermare che l’uomo ha, FORSE, il compito e la funzione di, almeno in parte, contribuire al

RISTABILIMENTO DEL SISTEMA

e dell’ordine preesistente per far ritornare quell ‘armonia che abbiamo ipotizzato come iniziale.

E un compito difficile, impegnativo, irto di tanti e tali ostacoli da apparire insuperabili, ma non per questo IMPOSSIBE.

Tra le difficoltà immediate certamente vi è:      e la non consapevolezza del compito,

  • le incomprensioni cui è soggetto chiunque proclami una cosa del genere poiché ai molti (tutti?) interessa il “tutto e subito” inteso in senso materiale, ovvero ‘egoismo più esasperato,
  • le varie forme di superstizione (leggi ignoranza) con i vari tabù che ne sono la più diretta conseguenza. In tutte le religioni rivelate constatiamo il messaggio molto esplicito di un Eden seguito da una caduta con il risultato di costringerci a vivere in “questo” mondo definito valle di lacrime.

Ed è in questa specifica, e forse illusoria, visione che il Libero Muratore può diventare utile e funzionale: penso, in questo momento, ad uno dei precetti fondanti la nostra Istituzione, la Fratellanza (universale). Essa non può che basarsi su:

  rispetto

 comprensione

  • tolleranza o, in una parola, Amore per il prossimo.

Questo è, secondo me, il solo modo per poter operare, per partecipare o meglio cooperare al compito suddetto che, lo ripeto, è estremamente arduo.

Condizione primaria e necessaria il saperci vedere tutti, ma proprio tutti, come operai muratori chiamati alla costruzione del Tempio o, meglio e in parole povere, al nuovo mondo e nuovo uomo. Qui ciascuno avrà un suo compito ed un ruolo, recuperando fin dall ‘inizio quella visione gerarchica e quell ‘abitudine all ‘obbedienza verso il Maestro (o architetto?) tipica di ogni società tradizionale.

Se condividete idea e analisi fin qui esposte occorre concludere che la marcia verso l’unità diventa prioritaria. E allora ben venga tutto quanto serve ad unire, sia esso lingua, religione o cultura e, viceversa, consideriamo nefasto e negativo tutto quanto tende a separare, sia razza, patria, ideologie varie, ceti sociali e quant’altro. Cerchiamo di abolirlo dal nostro modo di pensare e, peggio, di giudicare: non può far altro che ostacolare il raggiungimento della meta. Ecco un’ottica per vedere meglio il divieto di parlare di politica e di religione in Loggia.

Riassumendo e traendo la debita morale: se quanto detto fin qui è corretto, se ne deduce che se non ci impegniamo in questa strada sbagliamo o, meglio ancora, pecchiamo. Per modificare l’ordine esistente (meglio sarebbe dire il disordine!) così ben radicato occorre non aver paura di percorrere vie nuove. Bisogna cercare alternative e soprattutto azzerare TUTTE le conoscenze che abbiamo finora accumulato.

Occorre     ELIMINARE  DOGMI.

                    RIDISCUTER E  TUTTO.

Poiché è solo mettendo in dubbio anche ciò che ci è, da sempre, apparso non solo giusto ma anche ovvio, possiamo sperare di aprire quella porta su quel nuovo mondo che sia finalmente GIUSTO.

Fratelli, all’opera!!

TAVOLA  DEL FR.’. A. Bgg,

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL “MAESTRO SPIRITUALE

ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL “MAESTRO SPIRITUALE”  ed il suo insegnamento durante lo svolgimento dei lavori di Loggia

Maestro Venerabile, Fratelli carissimi, ogni organizzazione iniziatica regolarmente costituita si distingue essenzialmente ed incomparabilmente da qualunque altro tipo di organizzazione per una particolare qualità. Un’organizzazione iniziatica è innanzitutto la depositaria ed il supporto di un’influenza spirituale che le è stata trasmessa e che a sua volta trasmette a coloro i quali posseggono determinate qualificazioni atte a permettere il loro ricollegamento alla catena iniziatica di tale organizzazione. La Libera Muratoria, in quanto organizzazione iniziatica, trasmette un’influenza spirituale la quale vivifica i riti ed i simboli che sono i regolari veicoli e supporti di questa influenza spirituale.

L’origine del patrimonio simbolico e spirituale della Tradizione Muratoria, ovvero dei principi immutabili che la reggono e la definiscono quale essa è, deve intendersi come essenzialmente sovra-umana, spirituale dunque nella propria essenza e di conseguenza intemporale. Se però le si vuole dare un’origine storica o temporale sarà necessario, da questo particolare punto di vista, risalire di gradino in gradino lo sviluppo ciclico dell’umanità fino alle origini di questa; da Adamo stesso dunque. Questo ricordo della propria origine viene indicato dalla Massoneria inglese con la frase “from immemorial time”, ossia da tempo immemorabile, e la simbolica datazione anno di Vera Luce ci rammenta tuttora questa origine riportandoci all’età primordiale, a quell’età dell’oro, quando l’umanità del Paradiso Terrestre poteva percepire la Luce Spirituale, direttamente e coscientemente, dalla fonte divina.

La Libera Muratoria lavora nel Nome di un principio spirituale che ne è l’origine, il sostegno, il mezzo ed il fine, simbolo esso stesso: il G.A.D.U.; del quale Dante dà la seguente definizione: “Colui che col suo compasso segnò i limiti del mondo e regolò dall ‘interno tutto ciò che si vede e tutto ciò che è nascosto” (da questo si può dedurre che, al tempo di Dante, vi furono degli stretti legami tra i Fedeli d’ Amore e la Libera Muratoria).. Una volta chiarito quale è il Nome e quale è di conseguenza la natura del principio reggitore del nostro Rispettabile Ordine è necessario capire, anche solo teoricamente, come questo principio manifesta la propria Presenza, quando la Loggia è regolarmente costituita e ne viene invocata I ‘assistenza, e quindi di fatto aperti i lavori. Per fare ciò dovrò necessariamente cercare risposte in dati tradizionali ed in particolare da quanto è possibile evincere dai nostri riti e simboli, cominciando ad attingere dal Libro della Sacra Legge, soprattutto dal Vangelo di S. Giovanni, dove vengono abitualmente sovrapposti compasso e squadra all’apertura del lavori.

Il Maestro Spirituale – La Loggia, il mondo del Libero Muratore, ovvero il “luogo”, lo “spazio” qualificato dalla Presenza Spirituale della Divinità.

La Loggia è tradizionalmente considerata un simbolo del mondo (cosmos = mondo, ordine) dove tutto si compie secondo il rito, ossia in conformità all’ordine cosmico, ed è pure considerata come il luogo illuminatissimo e regolarissimo, in opposizione alle tenebre esteriori corrispondenti al mondo profano (pare che la parola Loggia sia verosimilmente ricollegabile, tramite il latino locus = luogo e lux = luce, alla parola sanscrita loka = mondo, luogo derivata dalla radice lok = vedere. Vi è in questo accostamento etimologico uno stretto rapporto fra il mondo, il rito, e la luce).

Il motivo delle riunioni di Loggia dei Liberi Muratori è quello di trovarsi appunto in un luogo illuminatissimo e regolarissimo; luogo che è quello spazio ordinato e qualificato dalla manifestazione della Luce che essi desiderano vedere con l’occhio spirituale del proprio cuore.

Il Libro della Sacra Legge, posto sull’altare, viene abitualmente aperto, conformemente alle antiche forme rituali, alla prima pagina del Vangelo di S. Giovanni, protettore della Libera Muratoria (da cui uno dei significati simbolici dell’espressione Loggia di S. Giovanni). Sulla prima pagina del Vangelo di S. Giovanni, dove vengono sovrapposti compasso e squadra, si legge: “In principio era il ver. È risaputo che il  è un aspetto, un attributo del Verbo in quanto principio della costruzione universale, il quale, dagli antichi costruttori, veniva identificato al Cristo medesimo. A quel Cristo che dice di sé stesso, definendo la propria funzione ed il principio di questa funzione manifesta: “Io sono la Luce …” (Gv. 8, 12-13). Egli dunque, in quest’ottica, è da considerare come l’incarnazione del Verbo, come la manifestazione della Luce.

Sempre nel Libro della Sacra Legge, viene affermato da Gesù Cristo: “Dove sono due o tre riuniti nel mio Nome, Io sono in mezzo a loro” (Mt. 18, 20-21). Il medesimo equivalente di questa importante e chiarificatrice affermazione si può leggere in antichi documenti, contenenti dei rituali della Massoneria Operativa, datati 1620, 1630, 1663, 1686 e conservati nella biblioteca civica di Londra (pubblicati parzialmente nella rivista France anti-Maçonnique no del 16 ottobre 1913), dove all’apertura dei Lavori il Fratello Jachin (detentore della Sacra Lzgge – attuale Oratore) invoca la presenza e l’assistenza di El-Shadday, il G:.A :. del Cielo e della Terra, con queste parole: “Tu … che hai promesso che là dove due o tre persone si riuniranno nel Tuo Nome, Tu sarai in mezzo a loro; nel Tuo Nome noi ci riuniamo… Questa presenza spirituale, emanazione diretta del G:.A:.D:.U:. non è assente nel ricordo dei Massoni attuali, anche se per la maggior parte di essi tale ricordo si è affievolito. Se ne può ad ogni modo trovare traccia nei nostri rituali, in particolare nella promessa solenne del primo grado dove questa presenza viene implicitamente affermata quando l’Apprendista Libero Muratore promette “solennemente alla presenza del G. ‘.A . ‘.D. ‘.U.’. Tutto ciò dà per scontata la presenza Spirituale del G.’. A.’.D.’.U.’ a lavori aperti, ed è veramente questa presenza che, a mio avviso, seppur non percettibile dai sensi, sostiene, ispira e guida il lavoro collettivo di Loggia.

Come si determini da questo punto di vista tecnico la discesa di tale presenza è difficile dirlo con certezza, in quanto ciò presupporrebbe, ritengo, un avanzato grado di realizzazione spirituale; è comunque possibile con i pochi dati tradizionali di cui dispongo tentare di dame un accenno. Da quanto è tradizionalmente esposto in merito si può dedurre che la presenza spirituale del  per manifestarsi, quando la Loggia è regolarmente costituita ed aperta nel Suo Nome, prenda come supporto per la discesa l’entità collettiva, non solo corporea, ma anche psichica, dei Liberi Muratori  che per comunità di intenzione desiderano cooperare alla costruzione del Tempio interiore, sfruttando la possibilità che si esplicherebbe nel corso del lavoro iniziatico collettivo, nella misura delle proprie capacità intellettuali. La Loggia, in questo contesto, da un punto di vista macrocosmico, corrisponde in un certo senso ad un essere vivente completo delle tre modalità: spirituale, psichica (animico-sottile) e corporea.

Il Maestro Spirituale – Il suo insegnamento durante lo svolgimento dei lavori di Loggia, ovvero il tempo qualificato che si trascorre in sua presenza con lo scopo di recepire i suoi insegnamenti.

Come ho detto in precedenza„ chi sostiene, ispira e guida il lavoro iniziatico collettivo di Loggia è la presenza Spirituale, emanazione diretta del  questa presenza qualifica il lavoro collettivo in modo• che questo possa produrre, durante ogni Tornata rituale, dei risultati effettivi, nella misura delle capacità di assimilazione di coloro che partecipano a tale lavoro. L’insegnamento del Maestro Spirituale o della Presenza Spirituale si esplica necessariamente tramite quegli stessi Massoni che partecipano ai lavori di Loggia. Si esplica mediante aspetti rituali e simbolici: medianti i simboli che i Massoni rappresentano, attraverso le funzioni principali, quali le tre Luci di Loggia o regolatori visibili e le funzioni secondarie, mediante gli indirizzi che vengono dati ai lavori, mediante le tavole che vengono lette, gli interventi e gli atteggiamenti dei partecipanti, mediante l’apparente fatto accidentale che viene talvolta a verificarsi. E molto chiarificatrice, a questo riguardo, la frase simbolica: “dalla discussione scaturisce la Luce“, riportata in qualche rituale massonico; avendo però cura di non intendere per discussione quel procedimento eminentemente profano, ma qualcosa di trasporto a livello iniziatico, conforme alle regole della via massonica. Ritengo che la frase rituale trasposta e corretta sia: “dal confronto scaturisce la Luce”; intendendo per confronto, molto probabilmente, il confronto dei dati tradizionali e punti di vista relativi a questi, che dovrà svolgersi nella più rigorosa ortodossia massonica. In questo contesto la frase citata è abbinabile al tradizionale “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” (LC. I l, 9-1 1) che trova la sua applicazione operativa mediante il confronto costante tra i Fratelli (soprattutto durante il lavoro collettivo di Loggia), i quali rappresentano dei simboli nei loro atti e nelle loro parole. Non bisogna dimenticare che “è il valore simbolico che dà alle cose il loro significato profondo perché esso è il mezzo che stabilisce la corrispondenza con realtà di ordine superiore, ma per determinare effettivamente questa corrispondenza, bisogna essere capaci, in una maniera o nell’altra, di percepire nelle cose stesse il riflesso di quelle realtà”. Quale migliore luogo per imparare quanto appena detto se non la Loggia dove tutto è illuminatissimo e regolarissimo, dove esiste una Presenza Spirituale alla quale bisognerebbe accostarsi, come ci si accosterebbe ad un Maestro Spirituale umano, con l’intenzione vera di conoscere e quindi di chiedere e la certezza che esiste la possibilità di ottenere gli insegnamenti e gli orientamenti che più ci abbisognano? Ovviamente tali insegnamenti, tali suggerimenti saranno proposti dalla sintesi dei lavori di Loggia; ed è per questo che dobbiamo, in quanto iniziati, imparare a leggere i simboli ed essere accorti a vedere i segni. Un Maestro Spirituale orientale dice a questo proposito: “in un simbolo si può scorgere un bicchiere d’acqua o un oceano, secondo la profondità di comprensione dell ‘osservatore“. Dante, sempre in proposito, afferma che tutte le

scritture , e non soltanto quelle sacre, “si possono intendere e debbonsi sponere massimamente per quattro sensi. L ‘uno si chiama litterale,… l’artro si chiama allegorico,… lo terzo senso si chiama morale, lo quarto senso si chiama allegorico” (Convivio T. II, cap. 1 0). Per dare un esempio di come armonizzano questi quattro sensi, pensiamo alla parola Gerusalemme, la quale secondo il senso letterale è una città della Palestina, secondo quello allegorico è l’immagine della Chiesa, secondo il senso morale è l’anima del credente, ed infine, secondo il senso anagogico è la Gerusalemme Celeste, archetipo dell’anima e del mondo, contenuto nello spirito divino. Ovviamente quanto è detto del simbolo fissato (la scrittura, le figure geometriche, gli oggetti rituali) vale parimenti per quanto riguarda il simbolo agito (movimenti rituali, tra i quali la pronuncia verbale ed il tracciamento del Quadro di Loggia).

È indubbiamente il senso più profondo, quello spirituale, che, in quanto iniziati Liberi Muratori, dobbiamo sforzarci di comprendere; poiçhé non dobbiamo dimentica che il dovere di ogni Massone è quello di fare emergere la Luce dalle tenebre. Ad ogni Tornata rituale noi costruiamo, nel Nome del G:.A:.D:.U:., adeguandoci al Suo piano architettonico, mediante il supporto dell’interscambio collettivo, una parte del Tempio interiore che corrisponde a quelle possibilità che devono venire esplicate nel corso di quel particolare lavoro di Loggia. Però, quanto riusciremo a recepire dell’insegnamento proposto dalla sintesi dei Lavori di Loggia, e questo varierà di intensità a secondo del grado di purificazione e quindi di rispettiva ricettività raggiunta, dovrà necessariamente avere la sua logica ed ordinata estensione nella vita di tutti i giorni; infatti un vecchio rituale ci rammenta che “il lavoro del Massone non si arresta mai”.

Per rendere proficuo tale lavoro occorre fortificare continuamente la propria volontà, essere perseveranti nella via Massonica intrapresa discriminando attentamente sulle proprie azioni e su quanto ci accade, in modo da rettificare e correggere gli errori. L’essenziale dovere del Libero Muratore è quello di conoscere sé stesso, e per fare ciò dovrà necessariamente lottare contro tutti quegli elementi che, in lui, si oppongono all’ordine e all’unità, fino alla risoluzione delle proprie opposizioni, possibile solo mediante l’effettiva riunificazione di tutti gli elementi che compongono la sua manifestazione individuale. In virtù di questa riunificazione, il Libero Muratore avrà resa effettiva la propria iniziazione (la Maestria, naturalmente) e si sarà identificato con la Luce Spirituale (avendo realizzato la Presenza Divina nel proprio cuore), mentre la sua volontà diverrà, per questa ragione, una con la Volontà del Cielo.

L’aiuto, il confronto ed il sostegno ritengo possano essere degli ottimi supporti per rendere efficace questo lavoro di rettifica e riunificazione, la cui natura, ricordiamolo Fratelli, è essenzialmente spirituale. Il confronto ed il sostegno reciproco di natura fraterna che dobbiamo rendere effettivi sono, a mio avviso, delle tecniche operative di adeguamento all’insegnamento di Cristo: “Amatevi gli uni gli altri” (Gv. 13, 34-35) ed al precetto universale ed eterno ribadito nel nostro rituale: “non fare altri (Fratelli) ciò che non vorresti fosse fatto a te e fa ‘ agli altri (Fratelli) tutto il bene che vorresti che gli altri (Fratelli) facessero a te“.

I precetti di Cristo citati significano, a mio avviso, che chi ama veramente non esita a confrontarsi con i Fratelli ed a correggere ed aiutare il Fratello che commette degli errori, poiché il suo dovere fraterno gli suggerisce di fare questo. Bisogna comunque avere presente che l’Amore è quello di cui parla Dante: “L ‘Amor che move il sole e l’altre stelle“. Questo Amore è tutt’uno con la conoscenza del G.A.D.U. conoscenza che per noi attualmente si traduce, molto probabilmente, soltanto in termini di Verità. Per questa ragione sono portato a ritenere che dove non c’è Verità non vi sia affatto Amore. L’Amore intenso in senso iniziatico è di natura Spirituale, sublimato dunque, il che mi pare più attinente alla natura ed agli scopi del nostro Rispettabile Ordine.

Noi Liberi Muratori dobbiamo diventare i servitori coscienti della Verità e dell’Amore, che detto in termini Massonici vuol dire cooperare coscientemente (Bhakti = partecipazione) alla costruzione del Tempio secondo il piano del

TAVOLA DEL FR.’. G. Cnl,

68

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

LUNGA LETTERA

LUNGA LETTERA

Cari fratelli, nel mio ultimo soggiorno all’ospedale di Bordeaux, avendo a disposizione molto tempo, feci riflessioni e letture che, al ritorno sottoposi a un Fratello in una “lunga lettera”. Per me era stata una esperienza importante che mi aveva indotto a rivisitare (ma la parola è inadeguata) completamente i miei venti anni in Massoneria. Il M:. V :. mi ha chiesto di leggerla in tempio, e eccola qui. Non ho cambiato neanche il “tu” col quale indirizzavo il Fratello. Ho menzionato riflessioni e letture, e comincio dalle letture.

Mi sono accorto che in tutti questi anni ho letto un mucchio di roba sulla Massoneria, omettendo ciò che è più importante, e cioè i documenti. Stufo di sentire banalità su quell ‘oggetto vago e indistinto che è la “tradizione”, ho pensato di cercare le fonti, per quanto possibile. Quasi tutte inglesi, ma ho scoperto che in Francia sono state estesamente tradotte. Almeno una (il “Regius”) anche in Italia. Per fonti intendo i testi massonici pre-andersoniani. Per inciso, le Costituzioni di Anderson sono un malloppo di un centinaio di pagine. Di tutti quelli che ne parlano (generalmente male) vorrei sapere quanti le hanno lette.

Mi sono letto due testi di epoca decisamente operativa (1390 e 1410 circa) e cioè i due manoscritti noti come Halliwell (Regius) e Cooke. Non so se tu li hai letti (forse li ignori avendo fatto il mio stesso errore), e comunque te ne riassumo i tratti essenziali (molto simili nei due testi).

Vengono riepilogate le origini mitico-storiche della Massoneria a partire da Noè e da Nemrod (costruzione della Torre di Babele) per passare al mondo ebraico (Abramo che in Egitto iniziò Euclide alle arti liberali, Davide, Salomone, il Tempio). Sempre presente (qui come in testi successivi) il mito delle due colonne sulle quali era stata incisa tutta la sapienza pre-noaica (quella che poi Abramo trasmise a Euclide), e che sopravvissero al diluvio.

Si insiste molto sull’importanza delle sette Arti Liberali considerate essenziali per l’architetto, e sulla connessione e quasi identità tra Massoneria e Geometria, questa ultima inventata da Euclide per misurare la terra di Egitto e le piene del Nilo.

Si passa alle origini cristiane (i Quattro Santi Coronati che cristianizzarono l’Inghilterra). Ognuno dei due testi contiene una preghiera e il tono nell’insieme è decisamente cristiano-devozionale.

Ci sono riferimenti al passaggio della Massoneria dal vicino Oriente alla Francia e da questa all ‘Inghilterra.

Il grosso dei due testi è composto da Antichi Doveri e cioè da un insieme di norme morali-deontologiche-organizzative e di regole sull’assunzione degli apprendisti e sul rapporto col nobile committente eccetera eccetera. Già presente un vincolo di segretezza.

Quei che non c’è è forse ancora più importante di quel che c’è: è infatti assente qualsiasi riferimento a un rito di iniziazione, così come qualsivoglia altro elemento di carattere esoterico.

Di quasi due secoli più tardivo (1583), il manoscritte “Grand Lodge no I” non è molto dissimile dai due più antichi per la parte normativa. E assai più ricco di riferimenti ai vari re cristiani protettori della corporazione. Inoltre compare il riferimento ad un rito di ricevimento nel quale il recipiendario tiene tra le sue mani il libro della Costituzione.

Siamo qui al periodo della transizione verso la Massoneria speculativa, aperta ai non-muratori, come dimostrano alcuni catechismi di poco successivi. Questi vari catechismi seicenteschi esprimono un’evoluzione che si manifesta con alcuni caratteri e in particolare:

  • compare una forma arcaica di iniziazione che si esplica con la comunicazione dei due nomi delle colonne del tempio di Salomone (“Mason Word”, che è anche un mezzo di riconoscimento: si cita anche un segno manuale);
  •  la forma è quella del dialogo
  1.  alcuni aspetti simbolici sono accentuati (Salomone)
  •  c’è un riferimento alla “Mason Word” in connessione con la “seconda vista” (esoterismo).

Nel “Manoscritto di Edimburgo”(ultimi anni del ‘600) c’è un breve rituale con caratteri simbolici più accentuati, un giuramento, riferimenti al Tempio di Salomone.

L’ultimo manoscritto pre-andersoniano che ho letto (il “Dumfries n. 4” del 1710) presenta ancora i caratteri arcaici dei testi operativi (preghiera, il mito delle due colonne ante-diluviane della conoscenza, le arti liberali), ma ha già molta esegesi biblica e molti riferimenti al Vangelo di Giovanni. La parte mitico-storica è sostanzialmente quella di tre secoli prima, ciò che indirettamente testimonia della validità (continuità) di questi documenti. Il riferimento alla fede cattolica è breve, ma preciso. Il rituale ha già elementi simili agli attuali. Compare Hiram, figlio di Vedova. Il  è chiamato

Lasciamo perdere Anderson (più o meno conosciuto) e passiamo alla successiva pietra miliare, e cioè al “Discorso” di Ramsay. Nell ‘opera di Ramsay, in particolare la seconda stesura (1737), si trovano per la prima volta molti caratteri che diventeranno tipici della Massoneria, come pacifismo, enciclopedismo, cosmopolitismo, il mito dell’origine cavalleresca, e soprattutto (guarda, guarda) l’esoterismo con concetti quali quello di scienza segreta, misteri massonici, trasmissione orale, parole sacre, e soprattutto conoscenza per pochi, originante da Salomone e “ritrovata” dai Crociati a Gerusalemme. C’è il bando alle donne (per prevenire eccessi e orge) e c’è l’esplicita affermazione del significato simbolico del lavoro svolto dagli operativi. E come sempre c’è l’elogio delle Arti Liberali considerate come indispensabili qualificazioni. Mi fermo qui con le letture, e passo alle riflessioni.

Non pretendo affatto che quel che ho letto sia tutto lo scibile massonico preandersoniano. Però lo considero un campione significativo: non ci sono poi moltissimi documenti di epoca operativa. Personalmente, ha rafforzato la convinzione che i concetti di iniziazione, luce massonica ecc., che hanno corso in Pedemontana, sono distorti. Ero già su questa strada, ed è quello che avevo oscuramente in testa un paio di anni fa quando avevo fatto una tavola nella quale argomentavo che con “iniziazione” si intendono cose svariate ed eterogenee.

In particolare, l’idea che la unica iniziazione valida è quella che si ricollega a una sorgente primordiale attraverso catena ininterrotta, se si sta ai testi preandersoniani che ho letto, risulta fasulla. Ma di questo ero convinto senza bisogno di leggere quegli antichi documenti. Per inciso, se così non Cosse, considerato il mediocre livello della pratica rituale in Massoneria, saremmo tutti iniziati fasulli.

Alcune cose risultano chiaramente dalle fonti storiche. Una è l’origine settecentesca e post-andersoniana (Ramsay) di moltissimi tra i caratteri essenziali della Massoneria, in particolare, dell’esoterismo. Un’altra è il carattere essenzialmente morale dell’insegnamento rituale massonico. Questo viene fuori chiarissimamente da tutti i documenti antichi che ho letto, e in particolare dai più antichi, dove l’insegnamento morale-deontologico è pressoché l’unico, mentre vi si associano da una parte la orgogliosa rivendicazione della nobiltà culturale (sì, culturale: tutta l’insistenza sulle sette arti liberali!) delle nostre radici; dall ‘altra parte il carattere francamente cristiano e insieme un approccio decisamente devozionale verso la problematica religiosa, senza altre velleità od ambiguità. Certo, a nessuno di quei fratelli pre-andersoniani sarebbe venuto in mente di mettere sull ‘altare il Corano o la Baghavad Gita al posto della Bibbia, come a volte è stato quanto meno ipotizzato in Pedemontana (in nome dell'”unità trascendente delle religioni”)! Di duale” neanche l’ombra.

Va detto che il carattere morale dell ‘insegnamento massonico emerge altrettanto chiaramente dai nostri moderni documenti, e in particolare dai rituali: basta leggerli per quel che sono, e non per quel che siamo stati abituati a pensare che fossero sulla base di interpretazioni forzate. Un fratello della Brofferio ha provato a definire la Massoneria sulla base di ciò che si trova nei nostri rituali e costituzioni e, al termine di un’analisi invero rigorosa, è arrivato al risultato seguente: La Libera Muratoria è Una Società privata dotata di regole tradizionali che integra i propri membri attraverso un progresso di gradi e un esoterismo specifico e tradizionale del linguaggio e della drammaturgia, i cui membri, singolarmente e come insieme, perseguono un percorso aperto di perfezionamento morale, interiore e sociale, il cui fondamento è dato dall’esistenza dell’Essere Supremo, i cui principi sono i principi fondamentali della Libera Muratoria, il cui fine è il bene morale dell’individuo membro, che si concreta nello stesso percorso aperto di perfezionamento, e il bene della società in generale, che si concreta nella applicazione e diffusione dei principi della Libera Muratoria.

Quando ho letto questa roba mi è parsa stravagante, ma in effetti, rileggendo tutta la relativa argomentazione, ho concluso che stravagante non è (la tavola è a disposizione di chi vuole leggerla).

Va ora detto che la nostra “deriva” massonica ci ha portato a approdi che con la Massoneria non hanno più niente a che fare, ma niente veramente. Ho pensato a questo una sera quando il Fr. Silvano, in una tavola che io peraltro condivido quasi totalmente, ha detto di essersi formato la convinzione che gli affetti famigliari sono un ostacolo sulla via iniziatica. È questa un’idea tipicamente indù (malgrado una fugace, citatissima comparsa nel Vangelo), e con questo arrivo all’ultima parte della mia lettera: è in India che un uomo di casta brahmanica, arrivato a cinquanta anni, butta via il cordone brahmanico e si fa monaco itinerante. Non c’è niente di simile nella nostra cultura, e tanto meno nella tradizione massonica.

Quella frase di Silvano non era particolarmente importante nel contesto, ma ho voluto citarla qui come esempio. Tuttavia, ben altro ci è arrivato dall’Oriente. Perché è sulla spinta di venti orientali che la nostra barca ha fatto la sua rotta. In particolare, ci sono arrivate due idee fondamentali: la natura divina dell’Uomo e (figlio di quella) il concetto di realizzazione iniziatica.

Mi chiedo come hanno potuto farsi strada due concezioni così estranee al bagaglio concettuale della nostra istituzione. Due concezioni che in Occidente si incontrano solo in qualche corrente mistica, alla Meister Eckart. Nei sopra citati testi medievali massonici l’atteggiamento è totalmente devozionale, e (ripeto) di “advaita” non c’è neanche l’ombra. E sì che il Domenicano (eretizzante) Meister Eckart era quasi loro contemporaneo. La mia risposta è semplice: queste idee sono puro Vedanta. Ora, chi ha portato il Vedanta in Pedemontana? Chiaramente, Mario Bianco.

Concedimi allora una considerazione dichiaratamente speculativa. Ho provato a cercare di ricostruire l’itinerario intellettuale e spirituale di Mario nei suoi ultimi anni. Sono arrivato alla conclusione che nei riguardi della Loggia ha perpetrato un affettuoso inganno. Non so se fosse un cultore delle Upanishad quando è entrato in Pedemontana, o se lo sia diventato dopo. Certo, erano il suo vero nutrimento, e ricordo ancora il tono addirittura affettuoso col quale parlava della “sua Katha” e della “sua Chandokya”. Il suo tentativo quasi eroico (per le energie che gli ha dedicato) è stato quello di innestare il Vedanta sulla Massoneria. Quando si è accorto che era un fallimento, se ne è andato, ma non ha avuto il coraggio di dire ragazzi, guardate che non funziona. Ha passato la staffetta a Adriano. Personalmente, penso che abbia avuto una chiara percezione del fallimento quella sera che, per un voto di differenza, gli abbiamo preferito Leo come MV. Classica e decisiva crisi di rigetto. Ma penso anche che se lo avessimo eletto non sarebbe cambiato niente: l’equivoco sarebbe forse durato un po’ di più.

Se quel tentativo fosse stato ispirato dalla lettura di Guénon, non lo so, e non credo. Non ricordo che Mario fosse un gran consumatore di Guénon. In altre logge chiaramente il ruolo di Mario Bianco lo ha avuto la lettura dell ‘opera di Guénon. Resta che l’itinerario di Mario è stato simile a quello di Guénon. Una apparizione tutto considerato fugace in Massoneria, seguita dalla emigrazione verso lidi giudicati più genuinamente iniziatici, o verso un guru giudicato autentico, e verso un impegno forte. Altro che quello nostro all’acqua di rose.

Che cosa è rimasto di tutto questo in Pedemontana? Per molti di noi è rimasta una posizione di comodo. Sparo alto, anzi altissimo. Con le mie cento ore all ‘anno di lavoro massonico, e con la pratica di un rituale nemmeno particolarmente “strenuo” arriverò dove non arrivano certi poveri “profani”, quali ad esempio certi monaci con le loro durissime regole. I quali poveretti si accontentano di perseguire una banalità quale la salvezza e non, come noi, l’obiettivo nobile della “realizzazione” (confesso che, a sessantadue anni, non sono ancora riuscito a capire la differenza). Non si hanno nemmeno particolari obblighi morali/comportamentali, dato che tutte le prescrizioni dei rituali vanno intese come simboliche. Comunque, basta crederci o, in qualche caso, far finta di crederci.

Altri per fortuna pensano che “lavorare al bene dell’Umanità” significa semplicemente “lavorare al bene dell’Umanità”, e lo fanno. Lavorano per questo, e lavorano per migliorare sé stessi. E ci riescono. Praticano rituali che potrebbero avere valore teurgico. Oppure magico. Oppure psicologico. Dei quali comunque percepiscono l’utilità. Mettono in un cassetto la “realizzazione iniziatica”, e fanno cose. Perseguono obiettivi (quelli tratteggiati nei vari “Antichi Doveri”) che la Massoneria ha fatto propri e che giudicano buoni e che costituiscono il legante dell’Istituzione. Sono quelli che salvano [‘Istituzione (e la Loggia) dal rischio di diventare una fabbrica di fumo.

Oggi “leggo” in modo diverso anche il rifiuto della magia. Non è solo l’ossessione della contro-iniziazione (un altro animale sconosciuto ai nostri antenati, a giudicare dai testi che ci hanno lasciato) e delle potenze infere presunte responsabili degli effetti magici. C’è di più: l’arte magica ha come oggetto il mondo naturale. Opera sulle cose fisiche (ta fisikà: penso che ciò valga anche per l’alchimia). Niente a vedere con la meta-ta-fisikà. Si situa quindi su un piano giüdicato “ignobile”. Nessuna azione magico-teurgica ci promette la “realizzazione” (in senso pedemontano).

Leggo in modo diverso anche il rifiuto della “cultura”. Chiaramente, la cultura non serve quando arrivi all’illuminazione. Ma lungo il percorso, proprio inutile non è: se non altro, affina ed affila il tuo mentale. Cultura è anche apprendere cosa pensavano grandi uomini del passato sui grandi problemi esistenziali: vita, morte, fede, conoscenza, amore …. E frame insegnamento. Questo vale per un semplice come me. Ma ahimé c’è un problema: sono davvero esistiti grandi uomini in passato? Erano degli iniziati quei presunti grandi uomini? In caso contrario, non vale la pena di perdere tempo ad ascoltare la loro voce. E, ammesso che fossero degli iniziati, erano nell’ortodossia, nella mia ortodossia? In caso contrario, eccetera, eccetera. Cosa possono insegnarci quei pellegrini a nome Socrate, Bruno, Pascal, Goethe? Non erano neanche massoni …

Lungo un itinerario come questo, è facile trovarsi senza cultura e senza illuminazione, anzi è addirittura probabile. La difficoltà del reclutamento diventa insormontabile. Posso seriamente avvicinare un tizio (che di Massoneria non sa pressoché niente) e dirgli, vieni con noi e diventerai come Dio? (Come farò? Non preoccuparti, poi ti spiego). Quel che è peggio, ogni sperimentazione diventa impossibile perché comporta il rischio di uscire da quella fasulla ortodossia per la quale è importante decidere se si debba dire “di fronte al  ” oppure “al cospetto del “: un’orgia del futile, che noi “vecchi” abbiamo troppo spesso condonato (qualche volta, anche alimentato). In queste condizioni, i “normali” fuggono. A parte noi vecchi che siamo mitridatizzati.

Quanto a me, mi rimprovero di non essermi mai posto questi problemi, quantomeno non in maniera precisa e recisa. Ho sempre predicato che il Massone dovrebbe essere impegnato in una costante verifica delle sue posizioni e delle sue conclusioni, e su di esse esercitare il suo spirito critico, il suo distacco ed un giudizio affinato e reso tagliente dal lavoro di Loggia. Non mi accorgevo che a questo mio riesame sfuggivano (forse sfuggono ancora) aspetti che sono tra le basi stesse della mia visione del mondo. Potavo qualche rametto, e non mi accorgevo che il tronco era mezzo vuoto dentro.

TAVOLA DEL FR.’. R. Scch,

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

L’ARCHITETTURA NELL’ALTO MEDIOEVO

L’ARCHITETTURA NELL’ALTO MEDIOEVO

(ITALIA – FRANCIA – GERMANIA)

ALTO MEDIOEVO

Periodo storico compreso tra la seconda metà del 600 d. C. e gli inizi dell’anno 1000. Quattro secoli di diffusa depressione culturale di massa e di costante trasformazione sociale.

ALTO MEDIOEVO

Periodo storico che, per quanto concerne la Storia dell’Architettura, presenta ancora oggi delle non conoscenze notevoli e che solo negli ultimi decenni ha visto un repentino fiorire di nuove informazioni che si aggiungono alle conoscenze letterarie pervenuteci tramite le biblioteche dei conventi e tramite le informazioni trasmesseci dagli storici di corte dell ‘epoca.

Questa nuova realtà si sta delineando particolarmente per le architetture edificate tra la seconda metà del 700 e l’anno 1000, spazio di tempo in cui la Storia in Europa viene ad essere tracciata dalla famiglia carolingia prima e dalla famiglia degli Ottoni poi.

Le vicende vengono tracciate, oltre che dalla imperscrutabilità degli eventi, dalla presenza di grandi personalità politiche: da Pipino, Conte di Heristal, padre naturale di Carlo Magno (che morrà nell’814) a Ludovico il Pio, figlio superstite di Carlo Magno. Ludovico morrà nell ‘840.

Ed in epoca a noi più vicina, da Ottone I (morto nel 973) a Ottone II ed a Ottone III, che vive ormai una realtà speciale e politica nuova e si affaccia al di là dell’anno 1000.

Ebbene, il fatto che si sia riusciti a progredire nella conoscenza architettonica di questo periodo storico (e conseguentemente negli indotti della scultura e della pittura) è dovuto agli orrori ed alla stupidità della seconda guerra mondiale, con bombardamenti indiscriminati che hanno distrutto in gran numero chiese, abbazie, palazzi costruiti sopra le più antiche architetture medioevali – e quindi più recenti – e mettendo quindi in evidenza quanto è ancora rinvenibile di queste strutture più antiche.

È peraltro evidente come nella stragrande maggioranza dei casi, gli elementi architettonici che si stanno ritrovando non vengono recuperati in condizioni ottimali, anche perché – oltre alle recenti distruzioni – a partire dall ‘undicesimo secolo, a partire quindi dall ‘epoca romanica, le nuove architetture che vengono edificate non rispettano le architetture alto-medioevali cui si sovrappongono.

Gli edifici feudali che sorgono in Francia, in Germania, in Baviera, in Nord Italia ed in tutti i territori occupati dalle grandi famiglie feudatarie, a partire dalla famiglia carolingia di Heristal, sono invece ben sovente estremamente rispettose dei reperti delle classicità romane. Tra queste strutture, rispondenti a questi canoni, la più importante è il palazzo imperiale di Aquisgrana, che sorge in Germania per volontà del re franco Pipino, e si impianta per precisa scelta politica. e culturale sui resti dell ‘antica città romana preesistente distrutta verso il 370 d. C..

Il figlio di Pipino, Kerl Der GroB, ovvero Carlo Magno, così chiamato in quanto indubbiamente maschio – era alto circa 190 cm.- continuò la costruzione della reggia con lavori che si protrassero tra il 768 e 1’810. Il palazzo raggiunse la dimensione di 125 metri di lato e del medesimo resta oggi dell’epoca carolingia solo la Cappella Palatina, ed è inglobata nel Duomo di Aquisgrana, costruito successivamente. La Konigshalle, ovvero il cure del palazzo è stata distrutta e sostituita dal Municipio che conserva, al suo interno, la pianta complessiva del palazzo che si rifà integralmente nelle disposizioni degli archi, nelle pilastrature, nelle volte, agli esempi romani. Questo fatto avviene quindi ben prima del periodo romanico, che va circa dal 100 al 1200 d. C., e che, contrariamente alle informazioni correnti, favorisce il recupero dei reperti archeologici.

Nella struttura palatina viene usato come rivestimento il marmo bicromo a fasce contrapposte, anticipandosi di circa 300 anni il costume di usare marmi bicromi (verdi e bianchi) tipico dell’architetture romaniche toscane (Duomo di Pisa, ecc.).

Analizzando la pianta del palazzo di Aquisgrana e conoscendo i richiami letterari pervenutici dagli storici di corte dell’epoca, si coglie il carattere di Carlo, amante della classicità romana anche perché la conoscenza di quel sistema politico gli avrebbe dovuto permettere di creare il nuovo impero d’Occidente.

Nel palazzo esistevano locali adibiti a scuole di corte, poiché la cultura tende ad avere una maggiore diffusione ed a diffondersi anche al di fuori dei conventi e delle dimore dei potenti.

Tra i luoghi del palazzo preferiti da Carlo magno ricordiamo le camere (da letto) che egli amava visitare. Egli, oltre i suoi tre figli avuti dalla regina madre Ildegarda, ne ebbe, tra amiche ufficiali e concubine, una collezione. Di questi una ventina furono riconosciutile.

Amava peraltro nuotare nell’amplissima piscina termale la cui fonte era già stata usata dai Romani, secoli addietro; vi compiva bagni con la sua guardia del corpo che al completo consisteva di circa 100 persone e che aveva anche il compito di accompagnarlo nelle sue battute di caccia. Curate, ma non in maniera significativa, le cucine del palazzo – ricche di spiedi -, Carlo Magno tollerava il vino, ma non gli ubriachi che venivano allontanati dal palazzo.

Mentre si è oggi in grado di conoscere come si viveva nel palazzo imperiale di Aquisgrana e si è in grado di cogliere il carattere delle più grandi personalità che hanno controllato i sistemi politici, noi ancora non conosciamo a fondo la mentalità della popolazione dell ‘epoca. Sappiamo peraltro che le popolazioni già catechizzate continuavano a servirsi della magia e delle simbologie non cattoliche e ritornavano occultamente alle antiche abitudini religiose pagane nelle loro case boschive.

I simboli esoterici dell’epoca si conformano, si mescolano, si sovrappongono anch’essi ai simboli cristiani. Quanto si verifica per la simbologia così si verifica, nell’Alto Medioevo, con l’architettura che si modifica con gradualità recuperando la classicità romana, trasmettendo la conoscenza alle nuove generazioni, con le nuove esperienze. Ed anche allora sovente chi osservava, sia pur con rispetto, un disegno simbolico pagano o cristiano, sovente non sapeva da dove provenisse e che cosa rappresentasse, quale mistero, se mistero era, racchiudesse.

E trovando ad informare sulla Cappella Palatina di Aquisgrana, ricordo che questa viene inaugurata direttamente da Papa Leone III nell’805 e rappresenta architettonicamente il rapporto simbolico estremamente. valido che si è creato, tra il potere politico ed il potere papale, a partire dagli ultimi decenni del VII secolo e che con la sua inaugurazione raggiungerà la sua completezza.

È a partire quindi dal VII secolo che si impostano le esperienze che condurranno all’affermarsi, nell’XI secolo, dello stile architettonico romanico, da molti conosciuto erroneamente come lo stile che nasce nel periodo dei Liberi Comuni e delle Repubbliche Marinare.

È più preciso affermare che in un periodo “commerciale”, dopo l’anno 1000, gli edifici vengono costruiti grazie alle esperienze pregresse, generalizzandosi per la quasi totalità delle costruzioni, sia pure – a seconda delle diverse realtà geografiche europee con stili architettonici e scultorei diversi e nella diversità delle proporzioni.

Comunque il recupero delle esperienze classiche e la trasmissione delle esperienze cantieristiche prosegue in Europa anche dopo il tramonto della dinastia carolingia.

Alla morte di Ludovico il Pio, inizia la lotta tra i suoi quattro figli maschi avuti dalla regina Ermengarda e dalla seconda regine, Giuditta che conduce alla nascita del periodo feudale.

Con la battaglia di Fontaney, avvenuta tra i quattro principi il 28 giugno dell’841, è andata persa, a mio parere, la più grande occasione per raggiungere – dopo la caduta dell ‘Impero Romano – un sistema politico unitario in Europa.

Nasceranno invece i regni in Francia, in Germania, in Spagna e la non realtà unitaria italiana che tale resterà di fatto e di diritto fino al 1861, con tutte le conseguenze del caso che questo ritardo ha comportato nel nostro attuale presente.

Il periodo storico che intercorre tra quello che io definisco “la sconfitta europea di Fontanef’ e l’anno 1000 è classificato, da quasi tutti gli storici, come un periodo di crisi, con l’Europa percorsa da nuove invasioni, con sullo sfondo la ricorrenza delle carestie e delle pestilenze. Eppure è proprio nel X secolo che si assiste alla creazione di una classe dirigente di grande cultura, legata alla famiglia tedesca degli Ottoni, che trasmette al nuovo millennio, le conoscenze architettoniche carolingie, affinandole e sottilmente perfezionandole. In tale contesto le fondazioni monastiche consolidano la propria funzione economica e culturale e divengono dei veri “gruppi” che definirei (impropriamente) europei.

Primo fra tutti, l’ordine monastico cluniacense di cui ho fornito informazioni nelle mia precedente tavola.

D’altra parte gli unici in grado di opporsi, di ostacolare, ma non sempre di impedire le invasioni, sono solo le già menzionate componenti della famiglia degli Ottoni, che memori dell’incoronazione di Carlo Magno il 25 dicembre dell’anno 800, si fanno anch’essi, a cominciare da Ottone I, incoronare imperatori.

Il capolavoro dell ‘architettura ottoniana è la chiesa di San Michele a Hildesheim, iniziata, pare, attorno all’anno 978 sotto l’impero di Ottone III, allora fanciullo, con la committenza dell’arcivescovo Bernoardo, consigliere della di lui madre imperatrice-vedova Teofano, e precettore dello stesso Ottone III.

Se l’eredità cantieristica carolingia è evidente nell’impostazione della chiesa di San Michele, la coerenza e la precisione del progetto sono del tutto nuove. Infatti, i maestri architetti che hanno lavorato nel San Michele hanno utilizzato estesamente sistemi proporzionali geometrici e matematici nella definizione dell’edificio.

Semplificando il discorso, occorre che il cantiere venga impiantato con maggiore scientificità, particolarmente già dalle sue origini. Occorre una maggiore precisione a partire dal tracciamento topografico, sul terreno, una maggiore precisione ad individuare le altezze del fabbricato in corso d’opera.

Perché si è scoperto, e ciò ben prima del periodo rinascimentale (secolo XV), che le architetture classiche erano state edificate ripetendo gli schemi geometrici precisi e costanti e ripetitivi, alla ricerca di un metodico equilibrio architettonico, peraltro assolutamente non fantastico.

Si impiantarono per la costruzione di questa chiesa, e di altre ancora, officine metallurgiche che raggiunsero un livello altissimo, tecnologico ed artistico, in gado di lavorare il ferro, il bronzo ed i metalli preziosi.

Le conoscenze acquisite in quell’epoca, alla corte del fanciullo Ottone III, delle opere matematiche e musicali di Beozio, filosofo romano, e degli scritti di Vitruvio dovevano essere tradotte pragmaticamente nella pratica architettura, dalla vita di corte, alla vita di tutti. Questo si pensava alla fine dell’Alto Medioevo e certamente oggi, dopo 1000 anni, non lo si pensa “ancora”.

Nella chiesa di Hildesheim si comincia peraltro a lavorare con più grande attenzione la pietra levigata, che necessita quindi maggiore preparazione delle maestranze, per il taglio e per la lavorazione anche scultorea.

Particolarmente curati sono i capitelli, essenziali nella loro volumetria, privi di decorazioni scultoree, si presentano con sezione di base quadrata, ottenuti dall ‘unione perfetta di un cubo posto al di sopra di una semisfera: unione perfetta di solidi geometrici composti da pietra levigata con utensili d’avanguardia tecnologica. Livella, attrezzatura composita di cantiere, squadre e compassi, indispensabili utensili per la risoluzione architettonica di formule matematiche e geometriche all’interno dell’opera cantieristica.

Anche la volumetria esterna dei prospetti della chiesa si presenta come un cristallino incastro di solidi geometrici, definita da murature lisce e compatte, squadrate e precise, ben più che le architetture di epoca franca, espressione di una realizzazione abbreviata e sintetica di timbro umanistico pre-rinascimentale.

In epoca ottoniana si è andata delineando, nel cantiere edilizio, quella gerarchia di lavoro che si generalizzerà, dopo alcuni decenni, nei più importanti cantieri romanici, particolarmente nelle imprese di mestiere laiche che erano operative, a volte a livello regionale, a volte a livello europeo.

A partire dall’epoca ottoniana assumono quindi nuova importanza gli operai specializzati, assunti regolarmente ed utilizzati per lavorare superfici sempre più grandi di pietra levigata o lavorata con decorazioni.

Sono i compagni muratori e con loro lavorano gli apprendisti, che non fanno parte di diritto dell’impresa, anche se di fatto lavorano la pietra grezza, ovvero fanno il lavoro di manovalanza consistente nel colmare i muri portanti, legandoli con malta cementizia e spaccando grossolanamente i sassi alluvionali onde colmare le fondazioni.

Lavoro indispensabile, ma grossolano, che non portava loro di fatto alcuna paga costante, se non il vitto e l’alloggio, in attesa di sapere, dopo sette anni di apprendistato, se avrebbero raggiunto il loro scopo: quello di essere finalmente strutturati all’interno dell’impresa, di divenire quindi finalmente compagni regolarmente retribuiti ed assunti, pronti ad ubbidire al maestro architetto (che in genere era congiuntamente il progettista e il direttore dei lavori) ed ai suoi – pochi di numero – maestri architetti.

La maggior parte degli apprendisti che superava la prova si fermava al grado di compagno, in quanto, per evidenti necessità di cantiere, il numero dei maestri non poteva essere elevato contingentemente.

Esistono quindi per sicura documentazione nella biblioteca capitolare rinvenuta nel duomo di Modena, nella “Relazione relativa alla traslazione del corpo di San Giminiano” solo due ordini riconosciuti nell ‘impresa edilizia romanica che ha costruito il duomo: gli OPERARI ET ATIFICES (ovvero i compagni ed i maestri) che vestivano appositi paludamenti di colore, di colore tendenzialmente verde i primi, rosso i secondi, onde essere anche riconoscibili nel lavoro di cantiere, alla distanza.

L’architetto Lanfranco, progettista e direttore dei lavori del cantiere del duomo di Modena, è riprodotto mentre dà disposizioni impugnando, con la mano destra, un maglio (probabilmente nello stesso tempo strumento utile alla misurazione e simbolo di comando) ed indicando, con la mano sinistra, ai lavoranti il lavoro da compiersi.

ALTO MEDIOEVO

Periodo che prepara politicamente il nostro presente storico; a mille anni di distanza, senza che ce ne avvediamo, è ancora presente il suo influsso.

Nei 46 anni del regno di Carlo sono strati costruiti, in Europa e per suo volere, settantacinque palazzi, sette cattedrali e duecento trentadue monasteri. Con gli imperatori ottoniani assistiamo al fenomeno della rinascenza ottoniana ed a nuove iniziative di estremo significato anche nel campo architettonico. Peraltro Rodolfo il Glabro, estensore per anni del diario storico dell ‘ordine cluniacense, saluta il dischiudersi del nuovo millennio dicendo: “allora il mondo scosse la polvere delle sue vecchie vesti e la terra si coprì di un candido manto di chiese”, richiamando cioè l’attività edilizia condotta dal suo ordine religioso negli anni dell ‘undicesimo secolo.

Lo stile romanico, che si origina dopo l’anno 1000, è uno stile così diffuso in tutta l’Europa, è così presente contemporaneamente in diverse località che non può avere una struttura architettonica nuova, in quanto è architettura europea che nasce dalle esperienze architettoniche precedenti, rispondente alle nuove necessità sociali ed economiche che si vanno affermando.

Nel nostro attuale presente, mille anni appresso, tutti noi – io penso – ci poniamo degli interrogativi, come singoli individui o come facenti parte di Istituzioni, rifacendoci a quanto hanno fatto i nostri antenati, a quanto abbiamo fatto e stiamo facendo noi, a quanto sia, in una realtà mondializzata, possibile programmare.

TAVOLA DEL GR.’. V. Pssn, della R.•.L:. M. Ausonia no Il all’Oriente di Torino,

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento