IL SIMBOLISMO NEL QUADRO DI LOGGIA

Il simbolismo nel Quadro di Loggia

Venerabile Maestro, Cari Fratelli,

le prime indicazioni che in grado di apprendista furono indirizzate a me e, conseguentemente, a tutti i fratelli componenti la colonna degli apprendisti da un fratello maestro furono le seguenti: guardare il pavimento a scacchi bianchi e neri e il Quadro di Loggia, durante la sua posa in opera da parte del fratello officiante, Maestro dei Riti, oggi purtroppo sminuito di questa sua reale funzione, sostituita da quella di Maestro delle Cerimonie. Qui già le due posizioni sarebbero in una situazione antitetica e discutibile, non fosse altro perché queste due finzioni si differenziano fra loro, e perché in Massoneria ciò che disciplina ciascuna tornata in qualsiasi grado è denominato rituale e non cerimoniale.

Per Rito, infatti, s’intende l’essere conformi all’ordine cosmico, e questa conformità viene disciplinata e quindi garantita dalla comunione con il Grande Architetto per mezzo della meditazione.

Per Cerimonia s’intende, invece, l’aspetto esteriore del Rito, caratterizzato da una grande pomposità e da un vasto spiegamento di tutti i mezzi, atti a conferire sontuosità e a sottolineare l’importanza del Rito vero e proprio.

Ho voluto, con quanto scritto, puntualizzare l’interrelazione tra il Maestro delle Cerimonie e il Quadro di Loggia. Quest’ultimo, è il simbolo che riveste fondamentale importanza; esso fa da supporto, inoltre, per gli altri simboli figurati, che ne determinano la sua composizione. Il Quadro di Loggia è in pari tempo il cuore del Tempio e dell’uomo; in Esso converge l’Influenza Spirituale emanata dal Grande Architetto, e poiché quando ogni credente si trova raccolto in preghiera e quindi in Rito lo fa in un’area circoscritta alle influenze esterne, questo Quadro rappresenta il cuore di tale area in cui il fratello officiante compie il Rito della Tracciatura.

Secondo il Rituale, il Quadro di Loggia viene definito “il Quadro del Tempio, tracciato al centro del pavimento a scacchi bianchi e neri con tratti che si possono cancellare”. L’esecuzione di detto Quadro, sempre secondo il Rituale, sarebbe realizzabile mediante la sua pittura su di una tela, da collocarsi al centro del Tempio per la sola durata dei lavori. Oggi, però, assistiamo nella nostra Istituzione a opinabili prese di posizione per quanto riguarda la tracciatura del Quadro di Loggia. Tali incurie, infatti, vengono alla luce in diverse officine con il mero spiegamento di Quadri di Loggia, la cui esecuzione è già stata predisposta a priori, non si sa da chi, non si sa per quali ragioni, non si sa se secondo giusti canoni. Risulterebbe addirittura un caso di officina in cui il Quadro di Loggia è totalmente assente; non escludo, peraltro, che tale mancanza possa essere estesa ad altre logge.

Un fratello non della nostra Loggia, con cui ebbi occasione di scambiare opinioni in proposito, mi disse che il Quadro di Loggia altro non è se non il progetto di una costruzione. Ciò è indubbiamente vero; non si tratta però di un progetto qualunque, ma di quello unico, riguardante la costruzione simbolica del tempio avallata dal G.•.A

I simboli del Quadro (che per un massone è il Quadro Sacro per eccellenza, poiché rappresenta il Grande Architetto medesimo), sono tutti gli elementi formali da cui si sviluppa l’intero Universo, per cui essi sono propriamente: “il Piano deL G.’. A.’” Ora, dal punto di vista rituale operativo, niente è più importante dell’esecuzione di tale Quadro Sacro, perché in assenza di ciò e quindi in seguito all ‘abbandono completo, totale e definitivo di tale pratica rituale, le nostre facoltà si rilassano, precludendosi qualsiasi possibilità di sviluppo e, conseguentemente, la discesa dell ‘Influenza Spirituale.

Fare perciò una Tornata rituale senza avere tracciato il Quadro Sacro sarebbe come costruire un Tempio senza avere realizzato il progetto.

Il Quadro Sacro è un’opera d’arte universale, che rappresenta il piano architettonico del  il suo prolungamento e quindi i “Principi” su cui poggia la costruzione del Tempio Massonico.

Ci si potrebbe chiedere, ed è più che legittimo: perché l’esecuzione del Quadro rivestirebbe un ruolo di sì primaria importanza? Innanzitutto, come già visto, essa implica un Rito, che determina la trasmissione della Influenza Spirituale da parte del G:.A:.D:.U e la trasmissione delle funzioni di fratello officiante ad un altro fratello, da parte del fratello che ne è stato fino al momento il detentore o depositario.

Tutto ciò è l’applicazione sul piano iniziatico di ciò che parimenti sul piano profano può essere l’applicazione di un mestiere, poiché quest’ultimo in genere procede con l’apprendimento e la presa di possesso delle nozioni e degli elementi principali che costituiscono detto mestiere da parte del novizio; costui, in seguito, comincerà ad applicare questi elementi non più uno alla volta, ma in simultaneità fra loro, dando così luogo all’arte vera e propria costituente il mestiere in cui diverrà esperto, e quindi in grado di comunicarlo a chi ancora non ne fosse in possesso.

Se dunque questa trasmissione a catena viene a mancare a causa della trascuratezza e dell’oblio di coloro che ne sono i detentori, a chi spetterà l’impegno di conservare ciò che è andato perso o che corre questo rischio, per poterlo degnamente trasmettere alla posterità?

L’esecuzione del Quadro di Loggia, che comporta la corretta disposizione degli elementi che lo compongono, è di riflesso, poiché speculativa (dal latino speculum, cioè specchio), una messa a punto degli elementi nel nostro interiore microcosmico, dove per microcosmo s’intende il mondo con tutto ciò che lo costituisce, in questo caso all’interno di noi stessi, in accordo quindi con Severino Boezio, il quale afferma in una sua massima che: “l’uomo è un mondo in miniatura”, e perciò in accordo anche con René Guénon, ritenuto in questo kali yuga tra le massime autorità e i migliori interpreti dell ‘esoterismo tradizionale secondo la dottrina indù. Tale messa a punto degli elementi, giustifica il suo aspetto speculativo nel fatto che essi, riflettendosi nel cuore del Tempio, risultano capovolti, sebbene perfetta ne sia la loro impostazione. Ciò costituisce un ‘altra valida motivazione che giustifica, assieme alle altre, l’importanza del Quadro di Loggia.

Se ci si dovesse dilungare sui simboli, credo sicuramente che ciascuno di essi meriterebbe una trattazione specifica. Forse però non sarà impossibile fare ad essi tutti o in parte un accenno sulle loro funzioni, assieme a qualche piccola considerazione. Credo però sia prima utile fare nel possibile qualche accenno storico al Quadro di Loggia; penso che si possa tranquillamente affermare che le sue origini risalgono al declino della Massoneria operativa tradizionale, e conseguentemente alla presa di posizione della Massoneria speculativa, cioè quella contemporanea. Questa iniziò ad illustrare l’attività massonica operativa mediante simboli rifacentisi alla composizione dell ‘Universo e del suo Costruttore, alla composizione del progetto inerente la costruzione, alle funzioni di coloro che la sovrintendevano nel Suo Nome, alle funzioni dei subalterni dei sovrintendenti che erano principalmente di operare nella costruzione, nonché, agli attrezzi di cui allo scopo essi si servivano.

A questo proposito René Guénon ci dice in Studi sulla Franco-Massoneria e il Compagnonaggio: “I primi responsabili di questa deviazione, a quanto pare, sono i pastori protestanti Anderson e Desaguliers, che redassero le Costituzioni della Gran Loggia d’Inghilterra, pubblicate nel 1723, e fecero sparire tutti i documenti antichi sui quali poterono mettere le mani, perché non ci si accorgesse delle innovazioni che introducevano, e anche perché quei documenti contenevano delle formule che essi ritenevano molto imbarazzanti, come l’obbligo di fedeltà a Dio, alla Santa Chiesa e al Re, segno incontestabile dell’origine cattolica (universale) della Massoneria. Questo lavoro di deformazione, i protestanti l’avevano preparato mettendo a profitto i quindici anni che trascorsero tra la morte di Cristopher Wren, ultimo Gran Maestro della Massoneria antica (1702), e la fondazione della nuova Gran Loggia d’Inghilterra (1717). Tuttavia, essi lasciarono sussistere il simbolismo senza sospettare che esso, per chiunque lo comprendesse, testimoniava contro di loro altrettanto eloquentemente che i testi scritti, che essi non erano d’altronde riusciti a distruggere interamente”.

Ruggero di Castiglione, storico contemporaneo, nel Corpus Massonicum sostiene ampiamente René Guénon nei concetti sopra esposti sul simbolismo. Nei simboli tracciati nel Quadro della nostra Loggia si rileva però quanto segue: il cordone di cui si parla è composto da sette nodi. Come mai allora nel rituale di apprendista ve ne sono tre, ed in quello di compagno cinque?

Esiste per esso un’unica disposizione valida per tutti i gradi, oppure ciascun grado ha una disposizione sua propria di appartenenza? Il pavimento a scacchi bianchi e neri è previsto all ‘interno del Tempio; come mai, allora, lo si fa risultare all’esterno, cioè nella sala dei passi perduti e quindi prima dei tre gradini che conducono al Tempio stesso? I gradini che conducono al Tempio sono rispettivamente tre, sia nel rituale di apprendista che in quello di compagno, e così vengono riportati nel grado di apprendista; nel grado di compagno sono invece previsti in numero di cinque, messi in modo tale da formare una scala ricurva che, secondo il rituale, dovrebbe condurre alla camera di mezzo. Questi gradini si riscontrano in certi Quadri di Loggia in numero di sette indipendentemente dal grado. Tutto ciò induce a perplessità circa la loro giusta disposizione numerica: tre, cinque o sette gradini? Nel delta che sovrasta la porta del Tempio è prevista una scritta che rappresenta il nome dell’Ineffabile. In pratica, tuttavia, inspiegabilmente essa manca. Le due colonne, secondo il Libro della Sacra Legge, erano vuote e prevedevano entrambe sia il globo, probabilmente con funzioni differenti, sia le melegrane; infatti, per quanto riguarda l’arredamento del Tempio, il primo Libro dei Re si esprime come segue: “Così Hiram terminò di eseguire tutte le commissioni di Salomone per il Tempio del Signore: due colonne; due globi per i capitelli delle colonne; due reticolati da rivestirne i globi dei capitelli delle colonne; quattrocento melegrane per i due reticolati, due fili di melegrane per ogni reticolato.” (1 0 Re, 7/40-42).

Circa l’ordine dello stile architettonico con cui vengono eseguite le colonne e i capitelli, esso potrebbe essere l’emblema di un’unica realtà, espressa però in differenti forme. A quest’ordine non viene accordata l’importanza che gli è dovuta.

La pietra grezza e la pietra squadrata vengono poste rispettivamente a lato della colonna alla quale si riferiscono, la prima a lato della colonna degli apprendisti, la seconda a lato della colonna dei compagni. Si potrebbe pensare, anche se non è evidente, all’esistenza di una terza pietra posta all’oriente del Tempio, la quale non è più pietra ma opera compiuta.

Sulla pietra grezza sono collocati un maglietto e uno scalpello incrociati, che forse erroneamente vengono raffigurati sotto il compasso e la squadra; sulla pietra squadrata è prevista l’ubicazione di una tavola da tracciare, anch’essa mancante. La pietra squadrata, inoltre, dovrebbe terminare con una piramide sulla cui punta è posta una scure.

Vediamo inoltre la luna a sinistra e il sole a destra, più sotto una stella a cinque punte, un compasso e una squadra posti secondo il grado lavorativo. Accanto ad essi vi dovrebbe essere un regolo e una leva; ai loro lati, che sono anche quelli delle due colonne, la presenza del filo a piombo per la colonna B, unito anche ad una squadra per la colonna J. Non sono visibili le tre finestre poste rispettivamente a levante, a meridione e a ponente aventi specifica funzione di cui così parla il Libro Sacro: “Si fecero al Tempio delle finestre con grate sporgenti fisse.” (1 0 Re, 6/4).

Di questi elementi fin qui descritti alcuni mancano, altri sono male impostati. Tutto ciò fa pensare, oltre all’oblio dei simboli e della loro funzione, alla loro inversione, e poiché, in tali condizioni qualunque cosa non può che avviarsi alla dissoluzione, il Quadro di Loggia, in quanto cuore dell’uomo e del Tempio, riflette tale caotica situazione negli intelletti.

Sarebbe mio desiderio potermi esprimere in modo esauriente, circa la funzione dei simboli del Quadro di Loggia, che costituiscono non solo il Piano del ma anche il Suo linguaggio. Ognuno di essi, come già visto, richiederebbe una specifica trattazione, corrispondente allo spiegamento delle facoltà di ciascun simbolo, così come per ciascun essere nella sua evoluzione; mi limiterò perciò a fare, ad essi tutti o almeno in parte, qualche accenno su ciò che io vedo rappresentato, posticipando più ampie vedute a migliore occasione in altra sede.

Il cordone indica l’Unione Universale della Fratellanza; i suoi nodi, detti “nodi d’amore”, sono simboli di “tutto ciò che non muore”, che è appunto il significato di “amore”, in relazione a tutto ciò che rappresenta la verità e che con essa s’identifica.

Il pavimento a scacchi bianchi e neri rappresenta il Bene e il Male in tutte le cose, distribuiti in modo uguale o differente.

La Porta del Tempio può rappresentare, sia nel Tempio esteriore che nel nostro Tempio interiore, la barriera che si frappone fra questi due aspetti, governandoci così dalle cattive influenze.

Il Delta Sacro, che sovrasta la Porta del Tempio con il nome dell’Ineffabile, indica ovunque la Sua presenza, la Sua potenza, la Sua scienza. Le due colonne, secondo il Libro della Sacra Legge, avevano un significato – oltre che artistico anche simbolico espresso nei loro nomi Jachin e Boaz che, presi insieme, vogliono dire “Egli” (Dio) dà stabilità con “forza”.

La presenza dei due globi indica la relaziona tra due diverse realtà: una terrestre – si potrebbe anche dire corporea -, l’altra celeste, e conseguentemente spirituale, e la loro complementarità.

Le melegrane sono indice, oltre che della Fratellanza Universale, dello spiegamento distinto delle nostre facoltà; per questo motivo, infatti, credo che i grani rossi che le compongono nei vari comparti siano separati da quelle pellicole bianche che determinerebbero, appunto, tale distinzione.

La pietra grezza e la pietra squadrata sono la nostra anima in due condizioni differenti, la prima implicante un lavoro di sgrossatura; la seconda un lavoro di definizione e perfezionamento.

Il maglietto e lo scalpello rappresentano, rispettivamente, la potenza e l’intensità con cui viene condotto il lavoro sulla nostra pietra.

La tavola da tracciare sembra avere, invece, la funzione di supporto per gli schemi costituenti l’alfabeto massonico.

La scure, posta al vertice della piramide costituente la pietra squadrata, può indicare la volontà umana di fendere la pietra dopo averla definita, per scoprire il tesoro che essa contiene.

La Luna ed il Sole rappresentano rispettivamente la prima il nostro mentale, che è animato dalla luce solare; il secondo è l’intelligenza, cioè la Luce vera e propria che nel mentale si riflette.

Il compasso e la squadra sono indicativi il primo dell ‘ampiezza spaziale, con cui l’intelletto recepisce il messaggio divino del  e la seconda della definizione della prospettiva, al fine della migliore e corretta interpretazione di questo messaggio.

Il regolo e la leva servono a misurare l’intensità della forza applicata per rimuovere gli ostacoli, e a fare forza per rimuoverli.

Il filo a piombo, dissociato dalla squadra, indica l’Influenza Spirituale che noi riceviamo; associato alla squadra, anche qui definisce la Sua prospettiva e la regola.

Questa è dunque l’ottica secondo la quale interpreto le funzioni del Quadro di Loggia e dei simboli che lo compongono.

L. Orlnd, 25 maggio 1995 e.•.v.•. (1 0 Grado)

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PAURA DI VOLARE

Paura di volare

L’idea di scolpire questa tavola mi è venuta allorquando il Maestro Venerabile, incaricandomi di preparare la consueta relazione sulla riunione di Miasino, mi informò di possibili tensioni che tale iniziativa stava creando all’interno della Loggia.

Successive chiarificazioni sembrerebbero aver ridimensionato il problema, tuttavia la “cosa” mi ha colpito tanto da indurmi a scrivere queste brevi note.

Al termine della mia tavola su Maguzzano di qualche anno fa auspicavo che tale iniziativa potesse divenire una iniziativa della Loggia tutta e non di quella di un certo numero di Fratelli che vedevano nell’idea la possibilità di realizzare qualcosa che mirasse a colmare taluni possibili vuoti creati dalla semplice frequentazione del giovedì.

Si trattava e si tratta di rinforzare la conoscenza reciproca, creare la possibilità di amicizia, permettere ai neofiti di meglio amalgamarsi fra loro e con gli altri e, perché no, lavorare nelle migliori condizioni possibili su temi congeniali all’obiettivo che la nostra Loggia e I ‘Istituzione propugnano.

Tutte cose evidentemente non strettamente necessarie dal punto di vista della Loggia in quanto tale, ma che, ad avviso dei fautori dell’iniziativa, potevano aiutare in quel difficile percorso rappresentato dalla ricerca della verità o, più semplicemente, di noi stessi.

La ricerca del consenso all’interno della Loggia traeva origine dal fatto che non pochi fra i Fratelli che non aderivano all’iniziativa la vedevano, invece, come qualcosa di fuorviante rispetto all ‘Istituzione e portatrice, in prospettiva, di fenomeni trasversali e disgregatori.

Agli occhi di un semplice e di un idealista come il sottoscritto la tesi pareva (e pare tuttora) paradossale e cervellotica e, pur rispettando le idee altrui, si è continuato ad organizzare le riunioni nella segreta speranza di riuscire infine a convincere anche i più restii circa la bontà e l’assoluta buona fede dell ‘idea.

Rimane, in fondo, un poco di amarezza per non essere riusciti a trasmettere I ‘idea, a convincere che nulla di trasversale può nascere quando le intenzioni sono pure e che, invece, da tali incontri possono nascere spunti di lavoro per l’Officina, tutta alle prese, specialmente negli ultimi tempi, con una sorta di stanchezza intellettuale derivante, a mio avviso, da una domanda che un po’ tutti, specialmente i più anziani, cominciano a porsi: “ma cosa stiamo facendo?”

Questa sorta di stanchezza intellettuale di quasi tutta la Loggia, questa delegittimazione di Miasino un poco strumentale mi hanno convinto che il problema della Loggia possa riassumersi in quella che nel titolo di questo lavoro ho definito “paura di volare”.

Tutto ciò che è nuovo viene guardato con diffidenza come foriero di chissà quale maleficio, mentre non ci si rende conto che il vero problema da affrontare è la stanchezza e la mancanza di idee.

Ho la sensazione che per la maggioranza di noi il giovedì sera sia una “bella abitudine” ormai consolidata da anni di esperienza, ma senza più le pulsioni interiori dei primi anni, dedicati a cercare di capire, a cercare di fare.

La nostra conquista è dunque questa “bella abitudine” e nulla più?

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Distolti dal consueto tran-tran ci sentiamo perduti e cominciamo a filosofeggiare se la cosa sia aderente alle Costituzioni, se arrechi grave danno alla Loggia o, peggio ancora, se ciò sia iniziatico o meno.

L’abitudine, il tran-tran, questo l’obiettivo di una Loggia di quasi tutti Maestri?

Già tentai nella mia ultima tavola di trasmettere un messaggio che mi stava a cuore e cioè: “sviluppiamo al meglio le capacità dei Fratelli di questa Officina per tentare un lavoro collettivo che possa rendere tangibili gli effetti delle nostre conquiste e delle nostre conoscenze”.

Credevo e credo tuttora che questo sia il modo migliore per realizzare lo scopo che il rituale ci assegna che è quello di “lavorare al bene ed al progresso dell’Umanità”.

Comincio a pensare che molto più di noi fanno quei Fratelli che dedicandosi ad attività paramassoniche come gli Asili Notturni, L’Università Popolare o la Socrem realizzano con i fatti, anziché tante vuote parole, l’obiettivo che la nostra Istituzione si pone.

Ma se fino ad oggi non mi sono dedicato che molto marginalmente a tali attività è perché la mia idea, forse velleitaria, è quella che la Loggia deve cogliere dai suoi Lavori lo spunto per realizzare qualcosa che vada al di là del semplice confronto dialettico che si sviluppa nelle tornate.

Solo così tale confronto dialettico non rimarrà fine a sé stesso, non rimarrà solo “parole e parole”, ma potrà rappresentare la sintesi del meglio che la Loggia ha saputo realizzare negli anni.

Ed è questa capacità di darsi, almeno a livello di Maestri, obiettivi più ambiziosi, forse più concreti, certamente più difficili, che io definisco “paura di volare”.

Sembra quasi che la nostra Officina, dopo aver realizzato solide fondamenta, manche della capacità, o della forza, o della volontà per realizzare l’intero edificio.

Bravi nel realizzare la parte nascosta della costruzione (l ‘Officina è forte e non ha subito che piccoli contraccolpi dalle vicende esterne dell’associazione), ma incapaci di terminare l’opera (la realizzazione di un qualcosa che tale forza dimostri).

Queste, cari Fratelli, sono le mie considerazioni sulla salute della Loggia.

È Possibile che il problema sia soltanto mio. In questo caso perdonatemi si vi ho tediati.

TAVOLAQ DEL FR.’. G. F. Cmmrcc,

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PENSIERI

Pensieri

Oggi é giunto finalmente il S. Natale, e mi sento più buono. Fortuna che domani arriva S. Stefano e cosi potrò di nuovo, come ieri, odiare senza problemi il mio prossimo.

Natale. Un castrato impotente ed un asino hanno, in una stalla, scaldato un povero Cristo.

I potenti e gli intelligenti erano al caldo, a casa loro, a scaldare i propri interessi.

Potenza del computer! Con un buon programma, che cataloga i doni che giungono dagli altri, sono finalmente sicuro di non regalare quest’anno a mio fratello lo stesso oggetto che ho ricevuto da lui lo scorso Natale.

Siamo uguali come due gocce d’acqua. Ho sempre pensato che quella inquinata fosse quella degli altri, non la mia.

Amor di fratello, amor di coltello. Forse qualche volta é meglio essere soltanto cugini.

È opportuno esercitare la tolleranza purché non sia quella a suo tempo professata in alcune case.

Tradimento. Al partner piacciono gli asparagi, a me i cavolfiori. A casa, questi ultimi non sono mai presenti sulla tavola, quindi al ristorante, se capita, ogni tanto li mangio.

Il problema sorgerà quando non mi piaceranno più i cavolfiori e mi piaceranno gli asparagi.

Non avrò più occasione di lamentarmi.

Logicamente potrei dare solo a chi vuole avere e pofrei avere solo da chi vuole dare.

Stranamente ricevo quasi sempre da chi pensa di non voler dare, mentre io sovente, per altruismo, o perché fa più missionariato, mi intestardisco a dare a chi non vuole ricevere nulla.

Malgrado la mia buona volontà, in entrambi i casi, comunque, a qualcuno, me compreso, resta qualcosa.

Bianco e Nero. Non sono Einstein. Credo di vivere consapevolmente la pienezza del mio grigiore.

Uomo avvisato mezzo salvato. Purché l’avviso non sia quello di garanzia.

Il lavoro nobilita l’uomo. Quando quest’ultimo, di lavoro si ammazza, non è che sia più nobile è solo più stupido.

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E facile mantenere il segreto su qualcosa di cui ignoriamo l’esistenza.

L’occasione fa l’uomo ladro. Poco si concilia con l’altro suggerimento di non perdere le occasioni.

Forse sarebbe meglio, prima di cercare la luce, cercare l’interruttore.

Sia fatta la luce: e la luce fu. Poi, quando si spense, purtroppo lo fu per davvero e per lungo tempo.

L’erba del vicino è sempre più verde. Fa eccezione l’erbaluce di Caluso. Da qui si deduce I ‘Importanza della luce.

Vogliamoci bene. Siamo tutti, o quasi, d’accordo. L’unico problema è di definirne il come.

Chi si ferma è perduto. Così gridò quel poveretto inseguito da un pensiero buono.

O mangi questa minestra o salti dalla finestra. Nel dubbio andò ad abitare al piano terreno dove morì affogato alla prima inondazione.

Meglio per lui se avesse mangiato la minestra che passava il convento.

Se gioventù sapesse e se vecchiaia potesse! Invertendo l’ordine dei fattori il risultato non cambia. Il mondo è sempre più pieno di imbecilli e di impotenti.

L’occhio, se non ha lenti a contatto, è lo specchio dell’anima.

La gallina dalle uova d’oro. Il primo esempio di trasmutazione alchemica prima che sopravvenisse tangentopoli.

Il silenzio è d’oro, specialmente quello degli altri se voglio che lo mantengano.

L’altruismo è sovente il sepolcro imbiancato dell’egoismo.

Chi di spada ferisce, di spada perisce. Meglio diffidare dalle iniziazioni a fil di spada.

Dico qualcosa a qualcuno. Ciò che importa è se e quanto, il qualcuno di cui sopra, ha capito del mio qualcosa, sempreché io sia stato comprensibile.

Il mio prossimo è molto più cretino di quanto io non pensi. Il mio prossimo è molto più intelligente di quanto io non pensi.

Mi dico: per quanto attiene il prossimo, cerca, nel primo caso, di essere il più chiaro possibile e nel secondo di non prenderlo, per usare una espressione non triviale, per cretino.

E. Scld 15 giugno 1995 e:.v:. (1 0 Grado)

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SIMBOLISMO E RITUALITÀ INIZIATICA IN PINOCCHIO

SIMBOLISMO E RITUALITÀ INIZIATICA IN PINOCCHIO

Siamo Lieti presentare ai nostri Ospiti questo lavoro del Carissimo Franco Cuomo, passato all’Oriente Eterno a Luglio del 2007.

Pinocchio è un burattino che vuole diventare “un ragazzo come tutti gli altri” , possibilmente “un ragazzine per bene”.

Cioè: farsi uomo.

Il ruolo materno se lo assume una “fata dai capelli turchini”, già iconograficamente assai sospetta, che riesce a diventargli madre restando vergine.

Il padre è un vecchio falegname, che sicuramente non ha mai avuto né avrà mai rapporti con la Fata, del resto tanto giovane: è una Bella Bambina.

“Allora si affacciò alla finestra una bella bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale, senza muovere punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo:

“In questa casa non c’è nessuno. Sono tutti morti.”

“Aprimi almeno tu!” – gridò Pinocchio piangendo e raccomandandosi.

“Sono morta anch’io.”

“Morta? E allora cosa fai costì alla finestra?

“Aspetto la bara che venga a portarmi via.”

Così piccola com’è, la Fata potrebbe essere soltanto – e così la storia simula sul principio – la sorellina di Pinocchio. Invece no. È lei stessa che, crescendo prodigiosamente in un limitatissimo arco di tempo (come per un improvviso concepimento), si immerge di prepotenza nel ruolo di madre:

“Ti ricordi? Mi lasciasti bambina ed ora mi ritrovi donna; tanto donna che potrei farti quasi da mamma.”

E Pinocchio, poco più avanti:

“Sarebbe ora che diventassi anch’io un uomo come tutti gli altri.”

Seguono altre indicazioni sconcertanti, che gradualmente ci introducono nelle spire di una grande metafora sacro-magica.

Il tradimento ha il suono delle monete d’oro che tintinnano sotto la bocca serrata di un impiccato. Due ladri camminano accanto al burattino che vuole farsi uomo. Un provvidenziale colombo prende sulle spalle Pinocchio per condurlo in riva al mare, dove il padre sta scomparendo tra i flutti. Ed è nel ventre di un grande pesce che i due si ritroveranno incolumi per vivere insieme l’ultimo stadio dell’iniziazione di Pinocchio alla condizione umana.

La metafora religiosa nella fiaba del burattino che deve “farsi uomo” si sposa dunque alla liturgia di un cammino iniziatico che prevede dure prove da superare, errori da compiere per poterli poi riparare, ma sopratutto penetrazione del mistero della morte per poter rinascere alla vita. E questo è tipico di qualsiasi rito di iniziazione, dai più elementari a quelli più elaborati: il passaggio a una condizione esistenziale rinnovata presuppone la morte simbolica di ciò che si era prima di arrivare alla soglia del mutamento. La trasformazione di Pinocchio in asino e il suo ritorno alla condizione di burattino, dopo essere precipitato in fondo agli abissi marini ed essere stato liberato della pelle asinina da una torma di pesci, risponde dunque a regole magiche precise. E così l’immagine dell’ultima metamorfosi, allorquando il ragazzo in cui si è trasformato Pinocchio indugerà a guardare “con grandissima compiacenza le spoglie senza vita del burattino che era stato:

“Com’ero buffo quand’ero burattino! E come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!”

Ma al di là dell’iniziazione, l’intero gioco della metafora è calato in un contenitore esoterico, nel quale tutto ciò che è straordinario viene dato per scontato, dagli scherzi stile poltergeist del legno animato che diventerà Pinocchio alla gran copia di animali parlanti. Il burattino insomma conversa in corretto italiano risciacquato in Arno con una varietà infinita di animali – per lo più moralisti saccenti e presuntuosi, ma anche imbroglioni e opportunisti, sempre coalizzati contro di lui implacabilmente – che vanno dall’insopportabile Grillo al Gatto e alla Volpe, al Pappagallo indisponente del Campo dei Miracoli, al Granchio raffreddato e alla serva Lumaca, ai Conigli becchini e al Merlo bianco. E come se tutto questo non bastasse, Pinocchio è già notissimo tra le creature (animate o inanimate, come le marionette di Mangiafuoco) che di volta in volta incontra nel corso del suo travagliato cammino. Lo chiamano tutti per nome, lo acclamano o lo ammoniscono, lo esaltano o lo umiliano, ma sempre con grande cognizione di causa ed identità.

 Siamo sicuri che, per “farsi uomo”, questo burattino debba davvero essere iniziato ad uno stadio superiore? Siamo sicuri che diventare “un ragazzo come tutti gli altri” costituisca per lui un progresso rispetto alla condizione in cui si trova? Non siamo forse di fronte al depositario di occulti segreti che la gente comune stenta a cogliere? Non è per caso, questo Pinocchio, l’adepto di una società segreta all’interno della quale sa muoversi con un’agilità che ai profani appare invece goffa ed illegale? Una cosa è certa: conosce segni e simboli che gli permettono di comunicare e farsi riconoscere con tutte le creature che incontra, soprattutto se lontane dall’universo degli umani.

 Molte tentazioni offre la zoologia fantastica di Collodi a chi volesse addentrarsi in una lettura simbolica della fauna rappresentata nel romanzo. Pensate a quali conclusioni potrebbe condurci un’analisi approfondita dei significati rintracciabili nell’immagine del serpente con la coda che fuma, o in quella del pescecane nel cui ventre il burattino ritrova il proprio padre per ricondurlo alla luce, o infine in quella del grillo che tanto si presterebbe a una spregiudicata riflessione psica-nalitica. Inesauribile potrebbe risultare l’avvio semplicemente – non dico la trattazione – di un discorso intorno agli animali che Pinocchio incontra lungo il suo fantastico itinerario dal legno alla resurrezione nella carne.

Volendo dunque soffermare su di uno di essi la nostra attenzione – uno soltanto, a scopo esemplificativo, in funzione del metodo più che dei risultati della ricerca – scelgo la lumaca. Perché?

In primo luogo perché è bella ed inquietante anche se abitualmente tali aspetti sfuggono all’attenzione di chi l’osserva, nella meraviglia della spirale che connota la crescita del suo fragilissimo guscio. In secondo luogo perché l’insieme dei suoi caratteri, dall’ermafroditismo al letargo, stimola più di una lettura simbolica.

Cominciamo dalla spirale, che imprime alla conchiglia la dignità della perfezione geometrica. In essa il tempo s’interseca con la dimensione fisica: la spirale non conta più di un giro e mezzo alla nascita della lumaca, ma poi, nell’arco di tra anni, raggiunge la quattro circonvoluzioni e mezza. E c’è una regola in questa evoluzione: salvo eccezioni rarissime, la spirala i sempre destrogira. Trovare una lumaca con la spirala inversa, rivolta verso sinistra, è come trovare un quadrifoglio, come ricevere dalla natura un segno bene augurante.

La spirale che segna la crescita della lumaca, inoltre, rappresenta geometricamente (al contrario della linea retta) il cammino più lungo per spostarsi, seguendo regole precise, da un punto a un altro. Ma è anche il cammino che scelgono gli esecutori di molte danze o processioni sacre, appartenenti a paesi ed epoche diverse. Spiralico è ritenuto il percorso della danza dionisiaca, ma anche quello di certi riti funerari primitivi, laddove la bara del defunto viene posta nel punto centrale perché i partecipanti possano gradualmente avvicinarsi alle sue spoglie ed altrettanto gradualmente allontanarsene.

Se ne potrebbe dedurre che il percorso del dolore segue l’itinerario spiralico dall’area esterna verso il centro, e viceversa, il percorso della liberazione (allontanamento dalla bara, ma anche ritualità orgiastica della danza) segua l’itinerario dal centro all’infinito.

Al di là delle deduzioni connesse alla lettura simbolica della spirale, c’è un altro aspetto da non sottovalutare nella lumaca, ed è la matura particolarissima del suo letargo, nel quale ricorrono molto più vistosamente che in molte altre specie animali i segni della morte e della rinascita. All’approssimarsi dell’inverno, infatti, la lumaca non va in letargo addormentandosi come una tartaruga o un plantigrado, ma letteralmente muore: la lumaca si crea praticamene una bara sigillando ermeticamente il proprie guscio con una secrezione mucosa che, al pari di calce, s’indurisce al contatto dell’aria. Il suo cuore quindi cessa di battere e, con l’intensificarsi del freddo, il corpo diventa duro come una pietra. Pronto a rianimarsi con il tepore della primavera.

E a queste punto, la lumaca rinasce nella schiuma della propria bava, che nelle analogie di certi riti della fecondazione richiama le secrezioni femminili. Così come la conchiglia è assimilata alla vulva, mentre il corpo molle che ne fuoriesce simboleggia il parto.

Ma sempre per quella sua secrezione, la lumaca è considerata ricettacolo di sperma, quindi fecondatrice della terra.

Per cui il suo guscio rappresenta un riferimento preciso nei riti del ciclo agricolo, al punto che la conchiglia tritata viene mescolata alla semenza, presso molte comunità primitive, a fini propiziatori. Al fine, insomma, di assicurarsi un buon raccolto.

Secrezione femminile – seme maschile: non v’è nulla di contraddittorio in questa lettura analogica. Al contrario

si tratta di una interpretazione che in entrambi i casi tiene conto di un dato naturale concreto: la lumaca è madre e padre, dimensione solare e lunare al tempo stesso, nella cui natura rivive correttamente il mite dell’androgino. Nella lumaca dunque (per la quale ci ostiniamo ad usare il genere femminile solo perché nel lessico italiane manca il neutro) si esprime un’idea perfetta di concepimento e di parte, di fecondazione e di nascita, armoniosamente fondata sulla simbiosi di elementi maschili e femminili.

Non possiamo tuttavia ridurre questo simbolismo unicamente alla fecondazione. Se il guscio della lumaca è presente nei riti propizia tori del ciclo agricolo, esso ricorre con altrettanta frequenza nei riti funerari. In numerose tombe di età arcaica sono state ritrovate conchiglie d’ogni dimensione, talvolta legate tra loro come una collana al colla del defunto, oppure disposte in funzione ornamentale.

A centinaia, i gusci di lumaca sono stati ritrovati accanto ai resti dei defunti nelle tombe paleo-cristiane e in quelle d’età carolingia. Che significato attribuire alla loro presenza se non un potere simbolico connesso alla speranza della resurrezione?

Non mancane le raffigurazioni artistiche che parrebbero sostenere tale tesi. Ma altri elementi, al di là della perfezione geometrica della spirale dei cicli vitali, suffragano il mistero della lumaca: le sue antenne retrattili, in primo luogo, che oltre a stabilire un contatto “intelligente” con l’universo esterno all’ermetico contenitore del guscio, lasciano intuire indecifrabili rapporti con entità (astrali?) non identificabili.

A quali segnali rispondono le antenne nell’emergere dal letargo? Innumerevoli sono le sollecitazioni che la matura provoca in direzione della fantasia più sfrenata. E non è detto che si debbano seguire ad ogni costo, ma registrarle – tenerne conte, filtrarle, sublimarle attraverso la nostra, immaginazione – questo sì.

Così, con le sue corna e la spirale, con la sua bava bisessuale, la lumaca è tra i protagonisti, a buon diritto, del bestiario simbolico d’ogni età.

 E qui mi accomiaterei dalla lumaca e da tutto ciò che simbolicamente rappresenta per tornare alla realtà (ripeto: realtà, non fantasia) del nostro burattino che vuole farsi uomo. Di questa creaturina che con la sua sfrenata urgenza di libertà finisce per turbare la quiete feroce della tranquilla società umbertina. Subendone le conseguenze più spaventose: Pinocchio comincia con l’essere affamato e costretto a mangiare torsoli di frutta (con motivazioni “edificanti” non bisogna sprecare niente), poi mutilato dei piedi bruciati in un braciere accanto al quale si è incautamente addormentato per ripararsi dal gelo, quindi perseguitato da gendarmi e malfattori, da magistrati e sfruttatori, tutti uniti in una sorta di congiura plenaria.

Anche la lumaca, nella fiaba di Pinocchio, è strumento di questa crudeltà. Una crudeltà che si esprime, nel suo caso, attraverso quelli che sono i limiti naturali della sua condizione, cioè la lentezza, ma di conseguenza anche l’indifferenza per quanto le accade intorno, su cui sa di non poter incidere.

Nel caso di Pinocchio, la crudeltà di cui è strumento la lumaca, va oltre l’indifferenza e l’impossibilità pratica di aiutarlo: è punitiva. La lumaca impiega nove ore a discendere dall’ultimo piano al portone, dove Pinocchio attende al buio, tremando di freddo e di paura, tutto infradiciato dalla pioggia. E a un certo punto perfino inchiodato al portone – fisicamente immobilizzato – perché in un impeto di rabbia ha dato un calcio ed è rimasto conficcato con un piede nel legno.

Pinocchio, dopo essere rimasto in queste condizioni per nove ore, implora la lumaca di aiutarlo. Ed ecco il loro dialogo: “Che cosa fate con codesto piede conficcato nell’uscio? – domandò ridendo (la lumaca) al burattino.

È stata una disgrazia. Vedete un po’, lumachina bella, se vi riesce di liberarmi da questo supplizio.

Ragazzo mio, ci vuole un legnaiolo, e io non ho mai fatto la legnaiola.

Pregate la Fata da parte mia!

La Fata dorme e non vuoi essere svegliata.

Portatemi almeno qualcosa da mangiare, perché mi sento sfinito.

Subito! – disse la Lumaca.

Difatti dopo tre ore e mezzo Pinocchio la vide tornare con un vassoio d’argento in capo. Nel vassoio c’era un pane, un pollastro arrosto e quattro albicocche mature.

Ecco la colazione che vi manda la Fata, – disse la Lumaca.

Alla vista di quella grazia di Dio il burattino senti consolarsi tutto.

Ma quale fu il suo disinganno quando, incominciando a mangiare, si dové accorgere che il pane era di gesso, il pollastro di cartone e le quattro albicocche di alabastro. Voleva piangere, voleva darsi alla disperazione, voleva buttare via il vassoio e quel che c’era dentro: ma invece, o fosse il gran dolore o la gran languidezza di stomaco, fatto sta che cadde svenuto.”

Bene, questa cattiveria inaudita, questa perfidia raffinata nei confronti di una creatura (bambino o burattino) che ha freddo e fame, ci aiuta ad inoltrarci in un aspetto del romanzo – con il quale vorrei concludere – che non è secondario a quello esoterico. Direi anzi che, al di là della lettura simbolica, la fiaba di Pinocchio sottintende una denuncia storica e sociale che non può essere sottovalutata in termini di amore per il prossimo e di attenzione al progresso generale dell’umanità.

Umanità cui appunto il burattino si sforza in ogni modo di appartenere nonostante i motivi che essa gli da invece per discostarsene.

E qui, con ogni verosimiglianza, la lettura sociale (o d’amore, se così vegliamo chiamarla) si lega a quella esoterica (o dei simboli). Il fuoco e l’acqua, per esempio, saranno sempre presenti, nelle avventure di Pinocchio, come manifestazione esplicita di un’alleanza tra elementi contrapposti ed uniti nel fine comune di arrecare danno, sofferenza e paura all’indifeso burattino: il rischio di morire annegato o bruciato vivo è sempre presente nella storia. E sempre nei modi più atroci: Mangiafuoco vuol metterlo nel camino per cuocersi il suo montone, il Pescatore Verde lo infarina e lo vuole friggere in padella come un pesce, e quand’è ormai soltanto un ciuco azzoppato viene gettato in fondo al mare con una pietra al collo. E che farà l’uomo che ha tentato di annegarlo come asino quando lo vedrà riaffiorare in forma di burattino? Decide, subito di rifarsi del cattivo investimento rivendendolo “a peso di legno stagionato per accendere il fuoco nel caminetto”.

Tutte queste crudeltà sono tuttavia nobili da un punto di vista letterario perché rientrane nella pura retorica dalla fantasia. Ma è spaventoso come l’aspetto fantastico diventi secondario, per quanto predominante rispetto alle finalità “edificanti” del romanzo. Anche se infine le disavventure di Pinocchio, lungi dall’essere un monumento alla morale del secolo, finiscono invece per denunciarne le più aberranti crudeltà.

Vogliamo vedere? Ecco.

Se il ragazzo Pinocchio viene preso in una tagliola per avere tentato di cogliere un grappolo d’uva, il contadino che lo sorprende con la gamba mezzo massacrata non si darà da fare per curarlo, ma lo legherà alla catena e troverà il modo di sfruttarlo mettendolo a sostituire il cane da guardia. E nessun lettore s’indignerà, nessun precettore troverà in alcun modo deplorevole il comportamento del contadino, poiché è giusto in quella società punire un bambino affamato che ha tentato di cogliere l’uva non sua. Così, quel turpe individuo che meriterebbe di essere arrestato diventa un gran brav’uomo, di quelli sui quali i benpensanti umbertini possono fare pieno affidamento.

Allo stesso modo, se qualcuno approfitta della fame di Pinocchio per proporgli lavori pesanti come tirare un carretto di carbone o caricarsi sulle spalle un secchio di calce, nessuno è sfiorato dall’idea che in simili preposte si configurino gli estremi di un reato odioso come lo sfruttamento del lavoro minorile. Al contrario, se c’è qualcuno nei cui confronti mettere in moto meccanismi di austera condanna, questi è il bambino nonostante la fame, rifiuta di sottomettersi a tali angherie sociali.

La crudeltà del romanzo di Collodi è raffinata, in quanto metafora di un credo morale senza scampo, che perfino in chi ne subisce le vessazioni non suscita ombra di ribellione o pietà. È anche per questo, evidentemente, che la denuncia di Collodi ha un suo terrificante potere, che ogni coscienza di piccolo lettore non ha mai mancato di registrare in termini di smarrimento e di angoscia, senza bisogno di ricorrere a quella “lettura critica” che invece per un adulto è il più delle volte indispensabile.

In definitiva, Pinocchio è un esemplare saggio di occultamento della crudeltà dietro pretesti morali, una parabola il cui protagonista è perfino privato dell’elementare diritto – comune a tutti gli altri bambini – di dire le bugie. Non può farlo fisicamente: gli cresce mostruosamente il naso.

Ne colse il senso profondo Carmelo Bene, anni addietro, in una memorabile trascrizione scenica del romanzo.

Dalle sue note di regia:

“Sarebbe stato meglio ne avessero fatta una bara di questo legno, invece di una crocetta di bambino che non sa dire nemmeno una bugia.”

A conclusione di questo studio del carissimo F:. Franco Cuomo riportiamo alcune considerazioni del F:. Emilio Servadio sul “Pentimento di Collodi”.

Collodi, negli ultimi anni della sua vita, non ricordava di aver terminato le avventure di Pinocchio nel modo che tutti sanno, ossia con la trasformazione del burattino in un «ragazzino per bene». Lo hanno affermato vari Autori degni di fede e, ancora recentemente, quel buon conoscitore del mondo collodiano che è Renato Giuntini.

Dato che le facoltà di Collodi, morto non troppo vecchio, risulta fossero intatte anche nei giorni della sua non lieta senescenza, non si può non chiedersi a che cosa potesse esser dovuta l’anzidetta cospicua amnesia. L’ipotesi che ci sembra più plausibile è quella che in Collodi, nei riguardi della sorte finale della sua creatura, sia intervenuta una vera e propria «rimozione», ossia quel meccanismo automatico di difesa, per cui molti contenuti psichici sgradevoli vengono accantonati, e relegati nel buio dell’inconscio.

Ma se così è stato, per qual motivo Collodi si sarebbe, in un certo modo, «pentito» di aver mutato il burattino in ragazzo, a tal punto da cancellare, psicologicamente, l’accaduto?

A nostro avviso, non si può capire l’anzidetta «rimozione» se non si tiene presente che il vero senso di Pinocchio consiste, ai più vari livelli, per l’appunto nel suo presentarsi a noi come personaggio magico, erratico, surrealistico, appartenente a un mondo «tangenziale» rispetto a quello umano, e non identificabile con esso. Considerato come portatore d’istinti elementari, Pinocchio si dibatte fra «cose più grandi di lui», ma non vuole saperne della «ragione», rappresentata dal Grillo Parlante. Visto sotto il profilo religioso, Pinocchio è «senz’anima». Da un altro punto di vista, è dura «materia» (si noti che in Spagnolo madeira vuol dire legno), e come tale indistruttibile, ma incapace di spiritualizzarsi…

Verso la fine del racconto, la necessità di una tale trasformazione si è indubbiamente affacciata alla mente di Collodi. Con una di quelle intuizioni di cui sono capaci gli artisti, egli immagina allora Pinocchio come protagonista di una vera e propria prova iniziatica, del tutto analoga a quelle indicate in molte tradizioni spirituali, che sistematicamente descrivono la permanenza del profano in una caverna, o sepolcro, o ventre di un grande animale, e la sua finale uscita quale nuovo essere, «puro e disposto a salire le stelle», per citare soltanto un esempio, quello della fine dell’esperienza terrena nella Divina Commedia. Ci si chiede ovviamente qui se e quanto Collodi abbia attinto, e con quanta consapevolezza, al racconto di Giona, o a quel che ci è stato tramandato circa le discese iniziatiche nell’antro di Trofonio, o sui «sepolti vivi» di certe pratiche tibetane; o anche, più semplicemente, a quel che aveva potuto sapere circa il «gabinetto di riflessione» massonico…

Ma dopo? Dopo, Collodi non è stato all’altezza dell’impostazione, non è riuscito a far di Pinocchio un vero risorto, un illuminato, l’equivalente di un giovane cavaliere del Graal. Si è accontentato della soluzione più modesta e più borghese. Dopo la tremenda prova del mostro marino, la conquista di un’indipendenza che gli consente di reggere il proprio padre sulle spalle, la traversata magica delle «grandi acque» a cavallo di un pesce che parla… Pinocchio, approdato a nuove rive, diventa… nulla più che «ragazzino per bene»!

Ben si comprende come tale mortificante conclusione non soddisfacesse Collodi (sia pure a livelli profondi e non consapevoli); e come egli, pertanto, l’abolisse infine addirittura dalla scena delle sue riflessioni, e dalla sua coscienza.

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??? TRE PUNTI INTERROGATIVI

Ama te stesso come il prossimo tuo. Ama il prossimo tuo come te stesso.

In fondo il concetto può essere equipollente: l’unica differenza, non del tutto secondaria, è legata alla priorità data al soggetto primo: il prossimo o me stesso.

Ma poi cosa significa amore? Il fatto stesso di pormi il quesito, potrebbe significare che non ho idee chiare e concrete sul significato dello stesso.

Cosa vuol dire amore?

Sacrificare se stesso per gli altri? Se cosi fosse non ci potrebbe essere identità tra noi stessi ed il prossimo, a meno che io riesca ad uscire dal conformismo e quindi legga la parola sacrificare con una differente chiave di lettura: sacrum facere. Rendere sacri noi stessi affinché il prossimo possa essere reso sacro. Si tratta in definitiva di un sacrificio reciproco.

Amare il prossimo.

Fare del bene al prossimo. Ma cosa significa concretamente fare del bene? Fare del bene può significare trasferire il mio concetto di bene, soggettivo (e quindi, perché no? , egocentrico) sugli altri. Ma quello che è bene, secondo il mio punto di vista, lo è necessariamente anche per gli altri?

Se così fosse, tutto dovrebbe essere a mia immagine e somiglianza, il che può evidentemente essere in contrasto con la valutazione del bene secondo l’ottica degli altri, perdendo quindi di vista quello che dovrebbe essere il bene universale, assoluto. Se è assoluto, non è ne mio ne degli altri, è ANCHE mio, è ANCHE degli altri.

Amare potrebbe anche essere il fare ciò che può far piacere (?) al prossimo, anche se questo può essere in contrasto con quello che potrebbe far piacere (?) a me.

Amare potrebbe essere l’azione passiva: essere disponibile per le necessità, i bisogni, del mio prossimo. Potrebbe significare: far capire agli altri la mia disponibilità ad essere disponibile.

E, a mio giudizio, anche, e forse soprattutto, un giusto equilibrio tra parità e tra identità. Il me stesso che è contemporaneamente il prossimo e viceversa. Questa parità di identità crea la necessità di parità di trattamento.

L’imperativo è categorico, ama. Quindi non puoi odiare te stesso: non puoi odiare il prossimo. La parità si trattamento è a via unica: ama il prossimo tuo. Non dice odia il prossimo tuo. Se io odio me stesso, odio il mondo.

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Ma l’odio e l’amore sono le due facce della stessa moneta, e quindi anche l’odio potrebbe essere, in fondo, una forma d’amore.

L’importante potrebbe essere solo la presenza di una pulsione e in questo caso il negativo potrebbe essere non l’odio ma l’indifferenza.

Se una moneta, tirata in aria, quando ricade rimanesse perpendicolare al piano sul quale si ferma, ci troveremmo dinanzi all’indifferente (né amore né odio) ma anche forse piuttosto dinanzi al giusto equilibrio tra amore e odio.

Assenza di moto. il pendolo inerte. Equilibrio perfetto e stabile

Eros, pathos, philia, caritas! Amore: quale? il termine italiano è sfumato, impreciso e non ci aiuta a capire.

Ma è proprio necessario capire? Capire è uno sforzo della mente ed ogni sforzo non armonico è una forzatura della natura.

Forse sarebbe meglio lasciarsi andare per intuire cosa significa amare noi stessi, accettando nel contempo il modo di amare del nostro prossimo.

E se il primo passo per amare noi stessi fosse quello di accettare noi stessi? E se il primo passo per amare gli altri fosse quello di accettare gli altri?

E. Scld, 26 ottobre 1995 e.•.v.•. (1 0 Grado)

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DIRITTO DI SCELTA

DIRITTO DI SCELTA

Nasciamo senza averlo chiesto, moriamo desiderando di continuare a vivere e talvolta continuiamo a vivere pur desiderando di morire.

Con il Cristianesimo si impose l’obbligo, sulla base di una verità di ordine metafisico. Oggi ha un carattere sociale, avendo la sublimazione della sofferenza perso ogni giustificazione religiosa, sostituita solo da quella sorta di ottimismo pressoché obbligatorio della società dei consumi e da quella cosa, vaga, definita progresso.

Questo spiega perché oggi la parola più temuta, quasi impronunziabile, certamente rimossa dai più, è : suicidio.

I medici, questi detentori di un sapere, e pertanto di un potere, di un patrimonio di conoscenze tecniche di cui sono detentori esclusivi, forse tacitamente, senza clamore e senza alcuna pubblicità, forse già fanno quello che un medico fiorentino ha fatto, cioè ha “aiutato” una persona che glielo chiedeva, a morire dolcemente. Mettendo così molti di fronte ad uno scandalo che non giusto più, almeno per noi, sottacere!

Per i profani, nominarlo, costringere a pensarci è un oltraggio che la nostra società può a mala pena tollerare: caso mai, se si deve fare, che lo si faccia, ma almeno non se ne parli poiché ciò di cui si tace “tanquam non esset”.

Le volontà di vita sono così forti che alcuni, giunti a livelli di sofferenza tali che la mente umana non riesce neppure ad immaginare od a stati di malattia chiaramente finali, si illudono di avere ancora speranza e respingono l’idea della propria morte.

Costoro, che forse rappresentano la maggioranza, hanno tutti i diritti di essere assistiti e sostenuti, pur nell’ingannevole speranza.

Molte altre persone, tuttavia, chiedono disperatamente, reiteratamente e lucidamente la morte: perché negare, a costoro, questo diritto in nome di un patto sociale da loro certamente mai sottoscritto, né riconosciuto?

Penso che la medicina sia diventata un “qualche cosa” di svincolato dal suo fine primitivo, che trova la sua giustificazione dell’esercizio di una sua volontà di potenza.

Trascuriamo gli aspetti economici, che pure hanno in questo momento storico una rilevanza niente affatto secondaria, e guardiamo quale possa essere il suo obbiettivo sul piamo ideologico: sembra voler costringere l’individuo ad una ulteriore, terribile sofferenza anche se, secondo la legge della natura, oramai avrebbe già dovuto cessare di soffrire. Sovente ridotto ad un insieme di sofferenze e di dolore, spogliato di quello che ha di più sacro: la propria dignità.

Insomma, il prolungamento della vita porta a sofferenze che la natura, di per sé né buona né cattiva, nella sua indifferenza verso il singolo e nella tutela verso la specie, non ha previsto. L’uomo insomma viene cosi sottoposto a torture brutali e senza scopo senza alcuna giustificazione, neppure metafisica.

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Mi domando come possa la Chiesa cattolica, ormai lontana da un contenuto spirituale, ma divenuta una specie di centro di assistenza verso i popoli del Terzo Mondo, opporsi alla morte voluta. In nome di che cosa?

Credo che la morte voluta, e concessa, al malato senza più né speranza. né forza per sopportare il male sia solo un aspetto del problema. Si può desiderare la morte per sottrarsi al degrado psicofisico, giocando d’anticipo.

La vita è l’attesa della morte, è una sorta di debito che contraiamo nel momento stesso in cui nasciamo: possiamo pagare a rate, morendo un po’ tutti i giorni, oppure dovrebbe esserci concesso di pagare tutto subito, in contanti. Ma si può voler morire anche solo perché la vita per noi non ha più senso alcuno.

Insomma, deve essere riconosciuto a ciascuno di noi un diritto inalienabile, sulla base della dignità stessa della di essere un uomo libero: quello di poter decidere, in ogni istante della propria vita, se vivere o no.

E sento che, se così fosse, il significato stesso della nostra vita diventerebbe infinitamente più intenso.

Nell’antichità l’etica era tutta altra cosa dall’attuale: l’immagine del vecchio saggio che dolcemente si spegneva nel bagno caldo, in compagnia degli amici fidati, con il medico che gli rallentava il flusso del sangue man mano che la discussione procedeva, oggi non è più possibile.

TAVOLA  DEL  FR.’. A. Bgg,

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IL PREGIUDIZIO EVOLUZIONISTICO

IL PREGIUDIZIO EVOLUZIONISTICO

Premessa

Considero questo un argomento di importanza del tutto particolare poiché ritengo che il pregiudizio evoluzionistico svolga nel mondo moderno una precisa quanto nefasta funzione: quella di dirottare ogni possibile ricerca della spiritualità nella direzione sbagliata.

Questo perché chiunque voglia ricercare e conoscere la propria natura profondo, quindi spirituale, deve volgersi verso la propria origine, e non viceversa, cercando di risalire a ritroso il corso della manifestazione. Questo è il percorso del viaggio iniziatico (che mi sento di definire “il Viaggio” per eccellenza) di cui, come tutti i viaggi, è indispensabile innanzi tutto conoscere la direzione. E evidente che più procediamo nella manifestazione, più ci allontaniamo dall’Origine, in regioni meno ricche di spiritualità e in cui si accentua la possibilità di deviazioni e di errori. Pensare di trovare nel presente o nel futuro un’evoluzione o un miglioramento rispetto al passato è, quindi, commettere un chiaro errore di valutazione.

Alcune considerazioni sui pregiudizi in generale

Mentre i giudizi sono il frutto di un lavoro di sintesi che effettua ogni individuo, per mezzo di intuizioni intellettuali prima, ed operazioni razionali poi, i pregiudizi nascono da influenze e da suggestioni che gli esseri ricevono in modo passivo dall ‘ambiente.

Essi si insinuano favoriti da un offuscamento e da un intorpidimento delle capacità discriminative (che può essere transitorio o anche durare per una vita intera, come spesso disgraziatamente avviene) grazie all’ingerenza di elementi di natura sentimentale e passionale nella sfera intellettuale.

Questo processo non è esente naturalmente da responsabilità personali. La pigrizia mentale svolge un ruolo di primo piano, favorita dalle tendenze alla passività e dalla mancanza di desiderio di verità che caratterizzano oggi disgraziatamente la maggior parte degli individui.

Ci si può chiedere legittimamente da dove provengono i pregiudizi. La risposta non può che essere netta: sono le correnti di pensiero controiniziatiche che se ne servono per formare la mentalità delle masse, che potranno poi influenzare e dirigere con maggior facilità.

I meccanismi con cui i pregiudizi vengono inculcati sono ben congegnati: suggestioni esercitate con tutti i mezzi di comunicazione; affermazioni presentate come conquiste sociali del pensiero facendo appello alla cultura ufficiale e ai suoi rappresentati; procedimenti discorsivi (libri, conferenze, congressi, ecc.) realizzati da presunti specialisti che lasciano, in un pubblico normalmente impreparato, impressioni di grande razionalità e intellettualità.

Un grosso ruolo in questo processo lo svolgono gli obblighi a cui è sottoposto l’uomo moderno per adempiere a quelli che potremo definire “doveri sociali” con infinite complicazioni di carattere burocratico e formale la cui osservanza conduce ad enormi perdite di tempo e di energie. In paralllo, troviamo le tentazioni, innumerevoli, che vanno dalla televisione, agli spettacoli sportivi, alla pornografia, alla droga, ai mille richiami della pubblicità.

Questo autentico bombardamento psichico conduce al risultato di assorbire l’attenzione degli individui, ne affievolisce le capacità critiche, orientandoli verso scopi che nulla hanno a che vedere con la spiritualità, rinchiudendoli così in un autentico letargo intellettuale.

Quando i pregiudizi acquisiscono una particolare cronicità, oppure diventano fenomeni collettivi investendo intere popolazioni e caratterizzando dei periodi storici, li si può definire “superstizioni”. In questo senso René Guénon nella sua opera “Oriente e Occidente”, capitolo “La superstizione della scienza”, traccia magistralmente il quadro di uno dei pregiudizi che caratterizzano la mentalità moderna. Così egli si esprime: “La civiltà occidentale ha, fra le altre pretese, quella di essere essenzialmente scientifica; sarebbe opportuno precisare meglio che cosa si intenda con tale parola, ma di fatto questo generalmente non si fa, poiché essa è una di quelle a cui i nostri contemporanei sembrano annettere una sorta di potere misterioso, indipendentemente dal loro significato. La Scienza, con la maiuscola, come il Progresso, la Civiltà, il Diritto, la Giustizia e la Libertà, è anch’essa una di quelle entità che è meglio non cercare di definire e che rischiano di perdere tutto il loro prestigio non appena si incominci ad esaminarle un po’ troppo da vicino. Tutte le cosiddette conquiste, di cui il mondo moderno va tanto fiero, si riducono così a grandi parole dietro le quali non c’è nulla, o molto poco: suggestione collettiva, abbiamo detto; illusione che, per essere condivisa da tanti individui e mantenersi come fa, non può essere spontanea …”l

Il pregiudizio non fa distinzione di razza e di religione, di età e di cultura. Colpisce chiunque non abbia la sufficiente difesa da opporgli. Può esserci un pregiudizio religioso (da parte di chi, ad esempio, si applica troppo alla lettura di certi dettami trascurandone lo spirito) e può esserci il pregiudizio antireligioso, da parte di chi è prevenuto nei confronti della religione ed arriva a stravolgerne il significato. Si possono citare ad esempio correnti di pensiero quali il materialismo che nega l’esistenza delle realtà spirituali, o della psicanalisi che attribuendo le realtà spirituali al subconscio arriva a negare la trascendenza.

Avviene così che chi considera una certa mentalità viziata da pregiudizi, può essere affetto da pregiudizi egli stesso; di qualità differente, ma sempre relativi allo stesso soggetto e con lo stesso effetto di distorcere la vera natura di ciò di cui si tratta.

Per comprendere la gravità degli effetti dei pregiudizi, basta osservare le ripercussioni che ha comportato la perdita della Tradizione da parte delle attuali società profane. Gli effetti credo siano visibili con facilità da chiunque! (Se dovessero servire delle conferme, sarebbe sufficiente sfogliare un qualsiasi quotidiano o accendere un apparecchio radio o televisivo, per avere l’idea del degrado a cui è pervenuta la società di oggi!).

Presupposti del pregiudizio evoluzionistico

Il pregiudizio evoluzionistico basa la sua ragione d’essere sul presupposto che dal meno possa scaturire il più: questo asserto di così vistosa assurdità è il perno su

Chi desiderasse approfondire la varietà dei pregiudizi moderni ne troverà esauriente trattazione nell ‘opera di René Guénon “11 regno della quantità e i segni dei tempi”

cui poggia tutta la teoria evoluzionistica. Un colosso dai piedi d’argilla, dunque? Evidentemente; ma grazie all ‘apparato che ne ha sostenuto e continua a sostenerne l’esistenza, riesce a sedurre molti spiriti, anche tra quelli animati dalle più sincere intenzioni.

Secondo questa teoria, il mondo vegetale scaturirebbe dal minerale, quello animale dal vegetale, l’uomo dalla scimmia, l’intelligente dallo stupido; gli organismi si adatterebbero alle modificazioni dell’ambiente in cui vivono grazie ad un lento e costante mutamento del patrimonio genetico, reso possibile dal trascorrere di un numero inverosimile di anni. Si fa appello alle leggi del caso, alla selezione naturale, escludendo I ‘intervento di una qualsiasi intelligenza ordinatrice.

Le ragioni del successo

Questa teoria di così chiara audacia e illogicità non è sicuramente frutto del caso; come già detto i pregiudizi non nascono mai soli; essa difatti, una volta accettata, consente all’uomo di “liberarsi” dall’idea di Dio e quindi dall’obbligo etico e metafisico di sottomettersi a Lui. Questo spiega il successo incontrato dall’evoluzionismo ai suoi tempi (sembra che quando Darwin pubblico il primo dei suoi libri sull’argomento “l’origine della specie” nel 1859, la prima edizione andò esaurita in un solo giorno). Era esattamente ciò che la borghesia di allora aspettava per potersi meglio esprimere, eliminando dei freni inibitori. Da quel momento, qualunque iniziativa si giustificava in funzione di un ipotizzato quanto certo perfezionamento futuro, cosa che rendeva più accettabili a tutti rinunce e sacrifici (spontanei o imposti); un invito a produrre (industria moderna con gli aspetti quantitativi che ben conosciamo e con la negazione dell’antico mestiere visto come mezzo di realizzazione spirituale – la Massoneria operativa tra questi) e a creare sistemi di pensiero che dovevano essere per definizione più evoluti di quelli precedenti. Era il germe della teoria del superuomo e la sconfitta delle antiche tradizioni, destinate a diventare, da quel momento, pure superstizioni del passato! Complice tutt’altro che trascurabile la soddisfazione di sentirsi uomini evoluti e perfezionati, al cospetto dei quali gli antichi apparivano come dei poveri imbecilli!

Tutto ciò quando è noto, da fonti scientifiche stesse, che la probabilità che una modifica casuale del patrimonio genetico rappresenti qualcosa di positivo per un essere vivente e non una semplice aberrazione o malformazione, è praticamente inesistente (qualcuno ha scritto che corrisponde alla probabilità che il vento, passando per un deposito di rottami, monti i pezzi di un’automobile!).

Le posizioni antitetiche delle dottrine tradizionali

Sulla base delle dottrine tradizionali si può dire invece che ogni specie è caratterizzata da un insieme di qualità le quali, una volta manifestate, possono essere trasmesse alla propria discendenza, ma non possono essere alterate, salvo pregiudicare la sopravvivenza della specie stessa.

Inoltre, le possibilità che si manifestano per prime in ordine temporale sono quelle di ordine superiore poiché è la manifestazione che si irradia da Dio, analogamente alle onde concentriche di un sassolino caduto nell’acqua. Poiché le prime forme manifestate sono quelle più vicine al Principio, è evidente che riceveranno maggiormente la sua influenza (spirituale), rispetto a quelle che verranno manifestate in tempi successivi.

Psicologia dell’evoluzionista

Chi è affetto dal pregiudizio evoluzionistico è convinto che l’uomo di oggi vive una vita qualitativamente progredita, risultato di un perfezionamento e di una evoluzione tuttora in corso, il cui fine, ammesso che esista, riserverà all’uomo gioie immense.

Interpreta le contraddizioni che emergono dal confronto con la realtà come dei trascurabili incidenti di percorso; un inevitabile prezzo da pagare per chi è in lotta per il proprio perfezionamento. Accetta con supina rassegnazione la vita frenetica di oggi: la delinquenza, la corruzione, la disoccupazione, lo stato di malattie diffuse grazie, altre che allo stress, all’alimentazione sbagliata e all’inquinamento dell’ambiente; la mancanza di un’etica che non sia il proprio tornaconto individuale; le divisioni e i disaccordi dovuti alla mancanza di principi comuni, che vanno dalla sfera della famiglia, a tutti i centri detentori di potere, alla società intera.

Tutto questo (l’elenco potrebbe continuare a lungo) viene giustificato in nome dell ‘evoluzione.

Credo si possa legittimamente esclamare: potenza del pregiudizio!

L’evoluzionismo in Massoneria

Mi soffermerò ora sulle ripercussioni (e sulle contraddizioni) che emergerebbero se il pregiudizio evoluzionistico venisse applicato in seno alla nostra Istituzione.

Perché parlare ancora in questo caso di Tradizione in generale, e massonica in particolare, dal momento che questa ci perverrebbe attraverso uomini inferiori a noi? Che senso avrebbe inoltre:

  • ricercare la parola perduta?
  • ricercare le proprie origini?
  • ricercare il significato dei simboli trasmessici?
  • attenersi al Rituale, cercando di conservarlo e di interpretarlo, vivificandolo nella sua integrità?

Conclusioni

Le considerazioni sopra riportate dovrebbero essere sufficienti a chiunque per vanificare il pregiudizio evoluzionistico. Il primo passo consiste sicuramente in una presa di coscienza.

Ma chi ne è affetto, vorrà o saprà farlo?

TAVOLA DEL FR.’. R. My,

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BREVI CONSIDERAZIONI SU DI UN SUGGESTIONE COLTA IN UNA TAVOLA DI ISTRUZIONE

BREVI CONSIDERAZIONI SU DI UN SUGGESTIONE COLTA IN UNA TAVOLA DI ISTRUZIONE

Venerabile Maestro, Cari Fratelli,

la sempre più incalzante impressione di degenerazione che invade ogni livello di società, di declino di ogni principio che possa avvicinarci al Grande Architetto, mi ha indotto a riprendere l’argomento del “Risveglio” già introdotto tempo addietro da un nostro Fratello nella propria tavola, con la seguente asserzione: “Permettetemi di esordire con un concetto molto importante: io non insegno, tutt’al più io risveglio”.

Desidero esprimere gratitudine a questo Fratello, poiché con l’introduzione di questo tema, oltre a sottolineare una funzione che ritengo propria di un iniziato, mi ha stimolato ad approfondire alcune considerazioni.

Innanzi tutto il fatto che ciascuno abbia in se il Tutto, fondamentale riflesso del Principio Divino che esiste in tutti gli esseri, e per mezzo del quale essi possono aspirare alla propria salvezza spirituale. Tutti gli esseri sono, chi più chi meno, vittime delle spire insidiose e asfittiche di questo mondo degenerato, nel quale si può identificare simbolicamente il serpente della Genesi per l’atmosfera cui esso dà luogo. Gli esseri infatti non hanno più una specifica Tradizione a cui fare riferimento, in quanto le Tradizioni stesse sonno degenerate. Dicendo Tradizione mi riferisco a tutto ciò che è appannaggio di un popolo e costituisce elementi completi e integrali di importanza vitale, il cui carattere può essere solo Sacro e legittimato dal Grande Architetto; questi elementi assicurano alla Tradizione il suo regolare funzionamento.

Viviamo dunque in tempi caotici; i segni del disordine appaiono nella mancanza evidente di tradizioni, e gli uomini, slegati dalle loro origini, sono influenzati in vari modi da correnti di influenza che conducono a offuscamento, torpore, assopimento e corruzione sia interiormente che esteriormente.

Si assiste allora a uno squilibrio della mente e della ragione come pure dell’anima e dei suoi sentimenti. Tale squilibrio è l’inevitabile conseguenza dell’obnubilamento della luce intellettuale. È ad essa che si fa riferimento in un particolare momento dell’apertura dei lavori massonici che viene ripetuto in ogni tornata rituale: “Che la Sapienza illumini il nostro Lavoro”.

Vi è da pensare che in tempi così caotici più che mai sia necessario un riequilibramento e una restaurazione, riproponendo a tutti coloro che ne sono interessati, la meditazione su simboli che hanno fortunatamente conservato la funzione implicita di risvegliare in noi stessi le nostre effettive possibilità spirituali in vista di detta restaurazione -, ampliandole ed esternandole per operare in modo reale ed effettivo al piano del Grande Architetto dell ‘Universo.

Questo lavoro è quanto si propongono di fare le istituzioni iniziatiche; attualmente, in particolar modo, la Massoneria durante i suoi convegni rituali – le Tornate -: “Per edificare Templi alla Virtù, scavare oscure e profonde prigioni al vizio e lavorare al bene e al progresso dell’Umanità”. Questo progresso è da intendersi prevalentemente spirituale, pur avendo quest’ultimo inevitabili riflessi su tutto quanto è di ordine subalterno.

In un passato ormai lontano credo che anche i luoghi di culto e di meditazione avessero probabilmente questo compito, sicuramente oggi non più operativo, se non addirittura perduto, lasciando così sempre più spazio a parodistiche imitazioni dei Riti veri e propri, come le cerimonie delle ormai numerose sette di ogni genere che infestano il mondo.

Le funzioni erano espletate da persone ordinate ad esse e a tutt’oggi sopravvivono ancora nella Massoneria, unica istituzione ancora tradizionale nella quale gerarchicamente vengono consumati gli antichi Riti.

Per Rito intendo una comunione prevalentemente essenziale con il Grande Architetto, comunione il cui supporto è la forma dei simboli. Per Cerimonia, invece, intendo tutto ciò che, sovrapponendosi al Rito vero e proprio senza però alterarlo, ha lo scopo di impressionare sentimentalmente coloro che non sono in grado di concentrarsi sull’aspetto essenziale del Rito, al fine di mantenere il rispetto della pratica e anche la conservazione di quest’ultimo. Infatti è il “Rito” che consente effettivamente di beneficiare di una vera e propria “Influenza Spirituale”. Quanto al potere reale della Cerimonia, qualora sia svincolata dal Rito che la può giustificare, è in tutta evidenza un mero apparato esteriore. Il nostro essere individuale, a simulazione del Tempio, viene eretto mattone su mattone, squadrato pietra su pietra, affinché la sua costruzione proceda secondo la volontà del Grande Architetto, coinvolgendo ogni nostra facoltà a immagine delle Tre Colonne e dell’Officiante del Tempio Massonico.

I Lavori Massonici avvengono in Templi ad essi consacrati, luoghi che presentano caratteristiche tali da determinare, appunto, il “Risveglio” in noi stessi da questa realtà in via di degenerazione, sollecitando la ricerca verso la salvezza spirituale.

Tali caratteristiche sono rappresentate da vari e molteplici simboli, il più importante dei quali, ritengo, è il “Quadro di Loggia”, detto anche “Quadro mistico”. Esso è in pari tempo il cuore sia dell’uomo che del Tempio stesso, e rappresenta, con i suoi elementi simbolici, l’Influenza Spirituale caratteristica del Grande Architetto dell’Universo.

Nessun altro luogo, pertanto, come molti sarebbero invece propensi a ritenere, potrebbe essere adatto allo scopo – assenti i simboli -, poiché cono proprio i simboli che allontanano in fase rituale, influenze profane di qualsiasi ordine, che interferirebbero negativamente sul Rito. Il Rito, in quanto Sacro, contrasta inequivocabilmente il profano.

Il Lavoro, che si compie quindi con i mezzi simbolici che tali luoghi mettono a disposizione, è precisamente il fine che essi si propongono, quello cioè di risvegliarci rendendoci coscienti del Sacro ruolo Spirituale della nostra istituzione iniziatica che talvolta taluni purtroppo tendono a dimenticare.

TAVOLA  SCOLPITA  DAL FT.’. L. Orlnd,

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LE VIE DEL MASSONE

DCF 1.0

LE VIE DEL MASSONE

Maestro Venerabile e fratelli tutti carissimi,

per diventare Libero Muratore ciascuno di noi deve, durante il Rito di Iniziazione, aver già affrontato, e vinto, la Morte. Lo scopo dell ‘iniziazione è quello di mettere ordine nelle varie questioni che sono, per il profano, in disordine perpetuo, un po’ per definizione. In fondo, la differenza tra mondo iniziatico e mondo profano sta tutta qui !

Credo di poter affermare che lo sviluppo del Libero Muratore avviene su TRE diversi ma contemporanei percorsi:

l) nell ‘interiorità 2) nel Tempio

3) nel mondo

LA PRIMA VIA: l’interiorità

il Libero Muratore non ha paura di stare solo, anzi! È proprio nella solitudine e nel silenzio che gli riesce più facile lavorare: leggendo, meditando, confrontando e macerandosi. E insomma dentro di sé che trova pace e sviluppa idee, intuizioni e convincimenti. E insomma quello che noi diciamo costruire il Tempio interiore. Solo, in compagnia di se stesso, il L.’.M.’.  sta veramente bene.

Ma, affinché questo lavoro non sia sterile, o peggio ancora per evitare pericolose deviazioni dalla retta via, ecco la necessità, per l’iniziato, della seconda via.

LA SECONDA VIA: il Tempio

è la dimora ideale, rituale e profonda di cui Rito e Simboli sono gli elementi di maggior rilievo. Il Rito deve essere ripetuto sempre uguale, o con quelle piccole modifiche che lo migliorino (grazie alla sempre maggior comprensione e partecipazione di tutti i Fratelli). Esso agisce anche grazie ai Simboli che, costantemente proposti, sono base e suggerimento. Base e suggerimento utilizzabili per meditare e comprendersi. Ed è in queste condizioni che dovrebbero emergere e manifestarsi sia le propensioni che le speranze; ed è ancora qui che si deve gioire dei progressi (anche solo parziali) di ogni singolo fratello!

E qui, tra le, che si viene iniziati: ed è in compagnia dei Fratelli che si impara sia la Tradizione che l’uso dell’esoterismo. È questo, insomma, il luogo privilegiato della vita massonica. Ed un massone è tale nella misura in cui partecipa alla vita di Loggia, qui imparando ad amare ed a perseguire la Verità e la Virtù, ad usare la tolleranza e ad incrementare la propria spiritualità. Ed in base alle inclinazioni, alla cultura ed alle nozioni qui imparate, al confronto con i Fratelli che si deve scegliere quale metodo iniziatico si vuole seguire, in libertà: possiamo essere razionali e seguire la dea ragione, o sentirsi più vicini ad un “verbo” rivelato (sia da una religione che da un filosofo o da un grande illuminato): potremo cercare di comprendere il Fine attraverso il simbolismo o l’esoterismo, sentirci religiosi o mistici. Ma, infine, quello che diverremo sarà in ogni caso un uomo migliore. E questo risultato verrà proiettato nel mondo in cui si vive: proprio quel mondo che, nel bene e nel male, usufruirà del nostro cambiamento, ossia delle conquiste e delle realizzazioni avvenute.

LA TERZA VIA: il mondo al contrario del Tempio, questo è la dimora della esteriorità, della profanità, del fenomenico, dell’umano e del sociale, del transitorio e dell ‘homo (lupus? sapiens?). Insomma, dell’imperfezione!

Lo possiamo vedere, e spero proprio siate concordi con me nell’affermare che esso è difettoso, bacato! E, ammettiamolo, anche la stessa Massoneria ha finito per esserne contaminata.

Il male c’è, esiste, ci circonda!!

Tuttavia noi sappiamo, o meglio possiamo immaginarlo, che un mondo senza male (e quindi enormemente migliore) può esistere. Ed è a questo scopo che noi dobbiamo lavorare e dobbiamo impegnarci. Ripensiamo un attimo alla frase del Rituale che afferma che dobbiamo: …lavorare al bene e al progresso dell’umanità…” senza sosta.

Ipotizziamo allora che sia accaduto qualche cosa di terribile che ha modificato l’ordine preesistente nelle leggi della natura. Di conseguenza noi ora viviamo una forma “distorta” della vita e del cosmo.

Ciò mi pare sia perlomeno plausibile.

Per avvalorare l’ipotesi, posso affermare che quell’ordine ancora esiste: pensiamo a tutti quegli aspetti in cui l’uomo non è riuscito a mettere il proprio zampino: tutto quello che esiste nel cosmo inteso come “sistema”, ma anche la perfezione del corpo umano e degli altri esseri viventi in genere, insomma dall’enormemente grande all’enormemente piccolo.

Allora credo di poter affermare che l’uomo ha, FORSE, il compito e la funzione di, almeno in parte, contribuire al

RISTABILIMENTO DEL SISTEMA

e dell’ordine preesistente per far ritornare quell ‘armonia che abbiamo ipotizzato come iniziale.

E un compito difficile, impegnativo, irto di tanti e tali ostacoli da apparire insuperabili, ma non per questo IMPOSSIBE.

Tra le difficoltà immediate certamente vi è:      e la non consapevolezza del compito,

  • le incomprensioni cui è soggetto chiunque proclami una cosa del genere poiché ai molti (tutti?) interessa il “tutto e subito” inteso in senso materiale, ovvero ‘egoismo più esasperato,
  • le varie forme di superstizione (leggi ignoranza) con i vari tabù che ne sono la più diretta conseguenza. In tutte le religioni rivelate constatiamo il messaggio molto esplicito di un Eden seguito da una caduta con il risultato di costringerci a vivere in “questo” mondo definito valle di lacrime.

Ed è in questa specifica, e forse illusoria, visione che il Libero Muratore può diventare utile e funzionale: penso, in questo momento, ad uno dei precetti fondanti la nostra Istituzione, la Fratellanza (universale). Essa non può che basarsi su:

  rispetto

 comprensione

  • tolleranza o, in una parola, Amore per il prossimo.

Questo è, secondo me, il solo modo per poter operare, per partecipare o meglio cooperare al compito suddetto che, lo ripeto, è estremamente arduo.

Condizione primaria e necessaria il saperci vedere tutti, ma proprio tutti, come operai muratori chiamati alla costruzione del Tempio o, meglio e in parole povere, al nuovo mondo e nuovo uomo. Qui ciascuno avrà un suo compito ed un ruolo, recuperando fin dall ‘inizio quella visione gerarchica e quell ‘abitudine all ‘obbedienza verso il Maestro (o architetto?) tipica di ogni società tradizionale.

Se condividete idea e analisi fin qui esposte occorre concludere che la marcia verso l’unità diventa prioritaria. E allora ben venga tutto quanto serve ad unire, sia esso lingua, religione o cultura e, viceversa, consideriamo nefasto e negativo tutto quanto tende a separare, sia razza, patria, ideologie varie, ceti sociali e quant’altro. Cerchiamo di abolirlo dal nostro modo di pensare e, peggio, di giudicare: non può far altro che ostacolare il raggiungimento della meta. Ecco un’ottica per vedere meglio il divieto di parlare di politica e di religione in Loggia.

Riassumendo e traendo la debita morale: se quanto detto fin qui è corretto, se ne deduce che se non ci impegniamo in questa strada sbagliamo o, meglio ancora, pecchiamo. Per modificare l’ordine esistente (meglio sarebbe dire il disordine!) così ben radicato occorre non aver paura di percorrere vie nuove. Bisogna cercare alternative e soprattutto azzerare TUTTE le conoscenze che abbiamo finora accumulato.

Occorre     ELIMINARE  DOGMI.

                    RIDISCUTER E  TUTTO.

Poiché è solo mettendo in dubbio anche ciò che ci è, da sempre, apparso non solo giusto ma anche ovvio, possiamo sperare di aprire quella porta su quel nuovo mondo che sia finalmente GIUSTO.

Fratelli, all’opera!!

TAVOLA  DEL FR.’. A. Bgg,

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ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL “MAESTRO SPIRITUALE

ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL “MAESTRO SPIRITUALE”  ed il suo insegnamento durante lo svolgimento dei lavori di Loggia

Maestro Venerabile, Fratelli carissimi, ogni organizzazione iniziatica regolarmente costituita si distingue essenzialmente ed incomparabilmente da qualunque altro tipo di organizzazione per una particolare qualità. Un’organizzazione iniziatica è innanzitutto la depositaria ed il supporto di un’influenza spirituale che le è stata trasmessa e che a sua volta trasmette a coloro i quali posseggono determinate qualificazioni atte a permettere il loro ricollegamento alla catena iniziatica di tale organizzazione. La Libera Muratoria, in quanto organizzazione iniziatica, trasmette un’influenza spirituale la quale vivifica i riti ed i simboli che sono i regolari veicoli e supporti di questa influenza spirituale.

L’origine del patrimonio simbolico e spirituale della Tradizione Muratoria, ovvero dei principi immutabili che la reggono e la definiscono quale essa è, deve intendersi come essenzialmente sovra-umana, spirituale dunque nella propria essenza e di conseguenza intemporale. Se però le si vuole dare un’origine storica o temporale sarà necessario, da questo particolare punto di vista, risalire di gradino in gradino lo sviluppo ciclico dell’umanità fino alle origini di questa; da Adamo stesso dunque. Questo ricordo della propria origine viene indicato dalla Massoneria inglese con la frase “from immemorial time”, ossia da tempo immemorabile, e la simbolica datazione anno di Vera Luce ci rammenta tuttora questa origine riportandoci all’età primordiale, a quell’età dell’oro, quando l’umanità del Paradiso Terrestre poteva percepire la Luce Spirituale, direttamente e coscientemente, dalla fonte divina.

La Libera Muratoria lavora nel Nome di un principio spirituale che ne è l’origine, il sostegno, il mezzo ed il fine, simbolo esso stesso: il G.A.D.U.; del quale Dante dà la seguente definizione: “Colui che col suo compasso segnò i limiti del mondo e regolò dall ‘interno tutto ciò che si vede e tutto ciò che è nascosto” (da questo si può dedurre che, al tempo di Dante, vi furono degli stretti legami tra i Fedeli d’ Amore e la Libera Muratoria).. Una volta chiarito quale è il Nome e quale è di conseguenza la natura del principio reggitore del nostro Rispettabile Ordine è necessario capire, anche solo teoricamente, come questo principio manifesta la propria Presenza, quando la Loggia è regolarmente costituita e ne viene invocata I ‘assistenza, e quindi di fatto aperti i lavori. Per fare ciò dovrò necessariamente cercare risposte in dati tradizionali ed in particolare da quanto è possibile evincere dai nostri riti e simboli, cominciando ad attingere dal Libro della Sacra Legge, soprattutto dal Vangelo di S. Giovanni, dove vengono abitualmente sovrapposti compasso e squadra all’apertura del lavori.

Il Maestro Spirituale – La Loggia, il mondo del Libero Muratore, ovvero il “luogo”, lo “spazio” qualificato dalla Presenza Spirituale della Divinità.

La Loggia è tradizionalmente considerata un simbolo del mondo (cosmos = mondo, ordine) dove tutto si compie secondo il rito, ossia in conformità all’ordine cosmico, ed è pure considerata come il luogo illuminatissimo e regolarissimo, in opposizione alle tenebre esteriori corrispondenti al mondo profano (pare che la parola Loggia sia verosimilmente ricollegabile, tramite il latino locus = luogo e lux = luce, alla parola sanscrita loka = mondo, luogo derivata dalla radice lok = vedere. Vi è in questo accostamento etimologico uno stretto rapporto fra il mondo, il rito, e la luce).

Il motivo delle riunioni di Loggia dei Liberi Muratori è quello di trovarsi appunto in un luogo illuminatissimo e regolarissimo; luogo che è quello spazio ordinato e qualificato dalla manifestazione della Luce che essi desiderano vedere con l’occhio spirituale del proprio cuore.

Il Libro della Sacra Legge, posto sull’altare, viene abitualmente aperto, conformemente alle antiche forme rituali, alla prima pagina del Vangelo di S. Giovanni, protettore della Libera Muratoria (da cui uno dei significati simbolici dell’espressione Loggia di S. Giovanni). Sulla prima pagina del Vangelo di S. Giovanni, dove vengono sovrapposti compasso e squadra, si legge: “In principio era il ver. È risaputo che il  è un aspetto, un attributo del Verbo in quanto principio della costruzione universale, il quale, dagli antichi costruttori, veniva identificato al Cristo medesimo. A quel Cristo che dice di sé stesso, definendo la propria funzione ed il principio di questa funzione manifesta: “Io sono la Luce …” (Gv. 8, 12-13). Egli dunque, in quest’ottica, è da considerare come l’incarnazione del Verbo, come la manifestazione della Luce.

Sempre nel Libro della Sacra Legge, viene affermato da Gesù Cristo: “Dove sono due o tre riuniti nel mio Nome, Io sono in mezzo a loro” (Mt. 18, 20-21). Il medesimo equivalente di questa importante e chiarificatrice affermazione si può leggere in antichi documenti, contenenti dei rituali della Massoneria Operativa, datati 1620, 1630, 1663, 1686 e conservati nella biblioteca civica di Londra (pubblicati parzialmente nella rivista France anti-Maçonnique no del 16 ottobre 1913), dove all’apertura dei Lavori il Fratello Jachin (detentore della Sacra Lzgge – attuale Oratore) invoca la presenza e l’assistenza di El-Shadday, il G:.A :. del Cielo e della Terra, con queste parole: “Tu … che hai promesso che là dove due o tre persone si riuniranno nel Tuo Nome, Tu sarai in mezzo a loro; nel Tuo Nome noi ci riuniamo… Questa presenza spirituale, emanazione diretta del G:.A:.D:.U:. non è assente nel ricordo dei Massoni attuali, anche se per la maggior parte di essi tale ricordo si è affievolito. Se ne può ad ogni modo trovare traccia nei nostri rituali, in particolare nella promessa solenne del primo grado dove questa presenza viene implicitamente affermata quando l’Apprendista Libero Muratore promette “solennemente alla presenza del G. ‘.A . ‘.D. ‘.U.’. Tutto ciò dà per scontata la presenza Spirituale del G.’. A.’.D.’.U.’ a lavori aperti, ed è veramente questa presenza che, a mio avviso, seppur non percettibile dai sensi, sostiene, ispira e guida il lavoro collettivo di Loggia.

Come si determini da questo punto di vista tecnico la discesa di tale presenza è difficile dirlo con certezza, in quanto ciò presupporrebbe, ritengo, un avanzato grado di realizzazione spirituale; è comunque possibile con i pochi dati tradizionali di cui dispongo tentare di dame un accenno. Da quanto è tradizionalmente esposto in merito si può dedurre che la presenza spirituale del  per manifestarsi, quando la Loggia è regolarmente costituita ed aperta nel Suo Nome, prenda come supporto per la discesa l’entità collettiva, non solo corporea, ma anche psichica, dei Liberi Muratori  che per comunità di intenzione desiderano cooperare alla costruzione del Tempio interiore, sfruttando la possibilità che si esplicherebbe nel corso del lavoro iniziatico collettivo, nella misura delle proprie capacità intellettuali. La Loggia, in questo contesto, da un punto di vista macrocosmico, corrisponde in un certo senso ad un essere vivente completo delle tre modalità: spirituale, psichica (animico-sottile) e corporea.

Il Maestro Spirituale – Il suo insegnamento durante lo svolgimento dei lavori di Loggia, ovvero il tempo qualificato che si trascorre in sua presenza con lo scopo di recepire i suoi insegnamenti.

Come ho detto in precedenza„ chi sostiene, ispira e guida il lavoro iniziatico collettivo di Loggia è la presenza Spirituale, emanazione diretta del  questa presenza qualifica il lavoro collettivo in modo• che questo possa produrre, durante ogni Tornata rituale, dei risultati effettivi, nella misura delle capacità di assimilazione di coloro che partecipano a tale lavoro. L’insegnamento del Maestro Spirituale o della Presenza Spirituale si esplica necessariamente tramite quegli stessi Massoni che partecipano ai lavori di Loggia. Si esplica mediante aspetti rituali e simbolici: medianti i simboli che i Massoni rappresentano, attraverso le funzioni principali, quali le tre Luci di Loggia o regolatori visibili e le funzioni secondarie, mediante gli indirizzi che vengono dati ai lavori, mediante le tavole che vengono lette, gli interventi e gli atteggiamenti dei partecipanti, mediante l’apparente fatto accidentale che viene talvolta a verificarsi. E molto chiarificatrice, a questo riguardo, la frase simbolica: “dalla discussione scaturisce la Luce“, riportata in qualche rituale massonico; avendo però cura di non intendere per discussione quel procedimento eminentemente profano, ma qualcosa di trasporto a livello iniziatico, conforme alle regole della via massonica. Ritengo che la frase rituale trasposta e corretta sia: “dal confronto scaturisce la Luce”; intendendo per confronto, molto probabilmente, il confronto dei dati tradizionali e punti di vista relativi a questi, che dovrà svolgersi nella più rigorosa ortodossia massonica. In questo contesto la frase citata è abbinabile al tradizionale “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” (LC. I l, 9-1 1) che trova la sua applicazione operativa mediante il confronto costante tra i Fratelli (soprattutto durante il lavoro collettivo di Loggia), i quali rappresentano dei simboli nei loro atti e nelle loro parole. Non bisogna dimenticare che “è il valore simbolico che dà alle cose il loro significato profondo perché esso è il mezzo che stabilisce la corrispondenza con realtà di ordine superiore, ma per determinare effettivamente questa corrispondenza, bisogna essere capaci, in una maniera o nell’altra, di percepire nelle cose stesse il riflesso di quelle realtà”. Quale migliore luogo per imparare quanto appena detto se non la Loggia dove tutto è illuminatissimo e regolarissimo, dove esiste una Presenza Spirituale alla quale bisognerebbe accostarsi, come ci si accosterebbe ad un Maestro Spirituale umano, con l’intenzione vera di conoscere e quindi di chiedere e la certezza che esiste la possibilità di ottenere gli insegnamenti e gli orientamenti che più ci abbisognano? Ovviamente tali insegnamenti, tali suggerimenti saranno proposti dalla sintesi dei lavori di Loggia; ed è per questo che dobbiamo, in quanto iniziati, imparare a leggere i simboli ed essere accorti a vedere i segni. Un Maestro Spirituale orientale dice a questo proposito: “in un simbolo si può scorgere un bicchiere d’acqua o un oceano, secondo la profondità di comprensione dell ‘osservatore“. Dante, sempre in proposito, afferma che tutte le

scritture , e non soltanto quelle sacre, “si possono intendere e debbonsi sponere massimamente per quattro sensi. L ‘uno si chiama litterale,… l’artro si chiama allegorico,… lo terzo senso si chiama morale, lo quarto senso si chiama allegorico” (Convivio T. II, cap. 1 0). Per dare un esempio di come armonizzano questi quattro sensi, pensiamo alla parola Gerusalemme, la quale secondo il senso letterale è una città della Palestina, secondo quello allegorico è l’immagine della Chiesa, secondo il senso morale è l’anima del credente, ed infine, secondo il senso anagogico è la Gerusalemme Celeste, archetipo dell’anima e del mondo, contenuto nello spirito divino. Ovviamente quanto è detto del simbolo fissato (la scrittura, le figure geometriche, gli oggetti rituali) vale parimenti per quanto riguarda il simbolo agito (movimenti rituali, tra i quali la pronuncia verbale ed il tracciamento del Quadro di Loggia).

È indubbiamente il senso più profondo, quello spirituale, che, in quanto iniziati Liberi Muratori, dobbiamo sforzarci di comprendere; poiçhé non dobbiamo dimentica che il dovere di ogni Massone è quello di fare emergere la Luce dalle tenebre. Ad ogni Tornata rituale noi costruiamo, nel Nome del G:.A:.D:.U:., adeguandoci al Suo piano architettonico, mediante il supporto dell’interscambio collettivo, una parte del Tempio interiore che corrisponde a quelle possibilità che devono venire esplicate nel corso di quel particolare lavoro di Loggia. Però, quanto riusciremo a recepire dell’insegnamento proposto dalla sintesi dei Lavori di Loggia, e questo varierà di intensità a secondo del grado di purificazione e quindi di rispettiva ricettività raggiunta, dovrà necessariamente avere la sua logica ed ordinata estensione nella vita di tutti i giorni; infatti un vecchio rituale ci rammenta che “il lavoro del Massone non si arresta mai”.

Per rendere proficuo tale lavoro occorre fortificare continuamente la propria volontà, essere perseveranti nella via Massonica intrapresa discriminando attentamente sulle proprie azioni e su quanto ci accade, in modo da rettificare e correggere gli errori. L’essenziale dovere del Libero Muratore è quello di conoscere sé stesso, e per fare ciò dovrà necessariamente lottare contro tutti quegli elementi che, in lui, si oppongono all’ordine e all’unità, fino alla risoluzione delle proprie opposizioni, possibile solo mediante l’effettiva riunificazione di tutti gli elementi che compongono la sua manifestazione individuale. In virtù di questa riunificazione, il Libero Muratore avrà resa effettiva la propria iniziazione (la Maestria, naturalmente) e si sarà identificato con la Luce Spirituale (avendo realizzato la Presenza Divina nel proprio cuore), mentre la sua volontà diverrà, per questa ragione, una con la Volontà del Cielo.

L’aiuto, il confronto ed il sostegno ritengo possano essere degli ottimi supporti per rendere efficace questo lavoro di rettifica e riunificazione, la cui natura, ricordiamolo Fratelli, è essenzialmente spirituale. Il confronto ed il sostegno reciproco di natura fraterna che dobbiamo rendere effettivi sono, a mio avviso, delle tecniche operative di adeguamento all’insegnamento di Cristo: “Amatevi gli uni gli altri” (Gv. 13, 34-35) ed al precetto universale ed eterno ribadito nel nostro rituale: “non fare altri (Fratelli) ciò che non vorresti fosse fatto a te e fa ‘ agli altri (Fratelli) tutto il bene che vorresti che gli altri (Fratelli) facessero a te“.

I precetti di Cristo citati significano, a mio avviso, che chi ama veramente non esita a confrontarsi con i Fratelli ed a correggere ed aiutare il Fratello che commette degli errori, poiché il suo dovere fraterno gli suggerisce di fare questo. Bisogna comunque avere presente che l’Amore è quello di cui parla Dante: “L ‘Amor che move il sole e l’altre stelle“. Questo Amore è tutt’uno con la conoscenza del G.A.D.U. conoscenza che per noi attualmente si traduce, molto probabilmente, soltanto in termini di Verità. Per questa ragione sono portato a ritenere che dove non c’è Verità non vi sia affatto Amore. L’Amore intenso in senso iniziatico è di natura Spirituale, sublimato dunque, il che mi pare più attinente alla natura ed agli scopi del nostro Rispettabile Ordine.

Noi Liberi Muratori dobbiamo diventare i servitori coscienti della Verità e dell’Amore, che detto in termini Massonici vuol dire cooperare coscientemente (Bhakti = partecipazione) alla costruzione del Tempio secondo il piano del

TAVOLA DEL FR.’. G. Cnl,

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