IL LABIRINTO

IL LABIRINTO

Esiste in Massoneria, come in tutte le vie, una forma di “autopurificazione”. Direi anzi che tale evento rappresenta una fase iniziale, fondamentale, del nostro cammino.

L’abbandono dei metalli, squadrare la pietra grezza, il gabinetto di riflessione, coinvolgono anche questo valore.

Il significato di questa azione va esteso bel al di là del semplice discorso morale, ma sottintende orizzonti più ampi: l’abbandono di abitudini inveterate, di pregiudizi, di costruzioni mentali fasulle.

Questo tipo di purificazione, unito ad un comportamento eticamente corretto, sono condizioni considerate indispensabili per poter iniziare.

La partecipazione attiva ai riti, la meditazione sui simboli, il dialogo con i Fratelli permetterebbero il lento progresso lungo la via.

Esisterebbe dunque un’azione sinergica, un circolo virtuoso, tra l’eliminazione delle nostre “scorie” e la capacità di comprensione e di intuizione.

Sulla carta è tutto semplice e ovvio.

Se vogliamo passare dalle parole ai fatti, dal virtuale al reale, ecco nascere il titolo di questa tavola:

Il labirinto

– il luogo dove tutte le strade sembrano uguali, ma solo una porta al centro; – il luogo dove tutti si perdono, tranne chi possiede il filo di Arianna.

E un simbolo estremamente ricco di significati che richiederebbe una cultura esoterica ben superiore alla mia. Rievoca, comunque, il concetto di viaggio in territorio sconosciuto, di assenze di punti di riferimento, di selva oscura, di spirale, di discesa agli inferi e molti altri ancora.

Secondo alcune interpretazioni, tale simbolo, indicherebbe la vita del profano che, senza la “mappa del tesoro”, continua a cozzare contro gli specchi deformanti, come in quei vecchi baracconi da paese; l’iniziazione fornirebbe invece il famoso filo di Arianna.

Non so voi, ma io vi confesso serenamente che non ho la piena coscienza di avere in mano questo filo. La mia iniziazione forse è solo virtuale, forse è una questione di livelli di coscienza, o di karma da “scontare”, ma io procedo con difficoltà e lentezza. Infatti sono pieno di dubbi.

Non mi riferisco al dubbio paralizzante dell’agnostico che di fronte a due ipotetiche strade crede di non poter scegliere e si arresta; mi riferisco invece a colui che in ogni caso sceglie, ben sapendo che tale scelta è fondata su base non certa.

In questo secondo caso bisogna prestare molta attenzione ad ogni piccolo indizio di “errore”.

Il saggio, dicono i King, è come una vecchia volpe che attraversa un lago ghiacciato, attenta ad ogni minimo scricchiolio di cedimento.

A mio parere, il dubbio è il compagno naturale dell’Apprendista.

II mio grembiule non è bianco, non ho la bavetta alzata, ma temo che questo sia poco importante. Apprendista ricercatore, apprendista maestro si continua ad essere per lungo tempo.

All’interno del labirinto non si può essere sicuri che la strada scelta sia quella giusta. Si procede nel buio con il rischio che i nostri schemi mentali, non adatti alla nuova situazione, ci portino fuori strada.

In realtà esistono molte mappe del tesoro, antiche e recenti, alcune senz’altro vere, ma di difficile comprensione.

E interessante porsi il dubbio sulla nostra capacità di leggere e, soprattutto, sulla nostra reale volontà di leggerle.

Esistono poi i problemi della fedeltà delle traduzioni; della possibilità di manipolazione in buona e cattiva fede e della relativa frequenza di indicazioni contrastanti.

Inoltre, sappiamo bene che un atteggiamento solo fideistico nei confronti di “vie preconfezionate” comporta un appiattimento delle nostre capacità intellettive ed un allontanamento dalla strada che abbiamo scelto bussando al tempio.

In quest’ambito, il dubbio non è un tarlo che mina alle radici le nostre convinzioni, ma un’arma potente che ci evita grandi errori.

Dentro al labirinto, il viaggiatore passa da incrocio ad incrocio attraverso corridoi e scale cieche. Ciascun corridoio pare non avere altra funzione che portare all ‘incrocio successivo. Si possono attraversare incroci già visti, oppure altri che sono la riproduzione identica di incroci già oltrepassati.

Ecco che diventa importante riconoscere dei segnali che indichino il progresso lungo la via. La fiaba di Pollicino dovrebbe insegnarci qualcosa.

Tali segnali, ritornando a noi, dovrebbero indicare dei progressi di tipo spirituale e non solo di tipo intellettuale. Le conoscenze che abbiamo acquisito con i nostri studi personali, o grazie alle tavole dei Fratelli, devono essere interiorizzate. Se ciò non avviene, se malgrado “l’acculturamento” esoterico noi siamo sempre uguali, ci comportiamo nella stessa maniera, commettiamo regolarmente gli stessi errori, continuiamo a vivere, agire, parlare in modo superficiale, allora stiamo girando in tondo.

Ritengo che questo insegnamento che ci ha dato, in camera di Compagno. il Fratello S. P. con la tavola “I segni del Cambiamento” sia davvero fondamentale.

Ecco l’autopurificazione. E un lavoro faticoso, duro, doloroso che dovrebbe cambiare in modo radicale le mie convinzioni, il mio atteggiamento nei confronti del mondo esterno, dei Fratelli, delle conoscenze che avevo acquisito prima, che ora non posso più dare per scontate.

Forse la relativa facilità con cui si entra in Massoneria (una domandina burocratica, una tegolatura di qualche ora) si rivela un rischio.

Storicamente il periodo che precedeva le iniziazioni, sia cavalleresche, sia di altre vie prettamente orientali, prevedeva prove da superare e lunghe valutazioni di reale purificazione. Noi siamo entrati senza alcuna difficoltà. In un attimo si diventa Compagni e Maestri. Un corso accelerato.

Un giorno abbiamo affermato di “non saper né leggere, né scrivere”, poco tempo dopo ci ritroviamo a parlare di Luce; di Verità che è dentro di noi; di possibilità di raggiungere l’Uno superando la diversità e la molteplicità; di Grandi e Piccoli Misteri.

Niente asilo, pochissimi anni di scuola e sono all'”università”. Io so tutto e in realtà non so niente.

E l’umiltà? E il circolo virtuoso di purificazione ed intuizione? Uscire dal labirinto senza capire bene la differenza tra sapere ed essere, temo, sarà molto difficile.

Come ci è stato ripetuto mille volte, la Via non può essere studiata a memoria, la Via deve essere vissuta.

TAVOLA SCOLPITA DAL FR.’. S. Clnn,

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PAURA DI VOLARE

Paura di volare

L’idea di scolpire questa tavola mi è venuta allorquando il Maestro Venerabile, incaricandomi di preparare la consueta relazione sulla riunione di Miasino, mi informò di possibili tensioni che tale iniziativa stava creando all’interno della Loggia.

Successive chiarificazioni sembrerebbero aver ridimensionato il problema, tuttavia la “cosa” mi ha colpito tanto da indurmi a scrivere queste brevi note.

Al termine della mia tavola su Maguzzano di qualche anno fa auspicavo che tale iniziativa potesse divenire una iniziativa della Loggia tutta e non di quella di un certo numero di Fratelli che vedevano nell’idea la possibilità di realizzare qualcosa che mirasse a colmare taluni possibili vuoti creati dalla semplice frequentazione del giovedì.

Si trattava e si tratta di rinforzare la conoscenza reciproca, creare la possibilità di amicizia, permettere ai neofiti di meglio amalgamarsi fra loro e con gli altri e, perché no, lavorare nelle migliori condizioni possibili su temi congeniali all’obiettivo che la nostra Loggia e I ‘Istituzione propugnano.

Tutte cose evidentemente non strettamente necessarie dal punto di vista della Loggia in quanto tale, ma che, ad avviso dei fautori dell’iniziativa, potevano aiutare in quel difficile percorso rappresentato dalla ricerca della verità o, più semplicemente, di noi stessi.

La ricerca del consenso all’interno della Loggia traeva origine dal fatto che non pochi fra i Fratelli che non aderivano all’iniziativa la vedevano, invece, come qualcosa di fuorviante rispetto all’Istituzione e portatrice, in prospettiva, di fenomeni trasversali e disgregatori.

Agli occhi di un semplice e di un idealista come il sottoscritto la tesi pareva (e pare tuttora) paradossale e cervellotica e, pur rispettando le idee altrui, si è continuato ad organizzare le riunioni nella segreta speranza di riuscire infine a convincere anche i più restii circa la bontà e l’assoluta buona fede dell’idea.

Rimane, in fondo, un poco di amarezza per non essere riusciti a trasmettere  l’idea, a convincere che nulla di trasversale può nascere quando le intenzioni sono pure e che, invece, da tali incontri possono nascere spunti di lavoro per l’Officina, tutta alle prese, specialmente negli ultimi tempi, con una sorta di stanchezza intellettuale derivante, a mio avviso, da una domanda che un po’ tutti, specialmente i più anziani, cominciano a porsi: “ma cosa stiamo facendo?”

Questa sorta di stanchezza intellettuale di quasi tutta la Loggia, questa delegittimazione di Miasino un poco strumentale mi hanno convinto che il problema della Loggia possa riassumersi in quella che nel titolo di questo lavoro ho definito “paura di volare”.

Tutto ciò che è nuovo viene guardato con diffidenza come foriero di chissà quale maleficio, mentre non ci si rende conto che il vero problema da affrontare è la stanchezza e la mancanza di idee.

Ho la sensazione che per la maggioranza di noi il giovedì sera sia una “bella abitudine” ormai consolidata da anni di esperienza, ma senza più le pulsioni interiori dei primi anni, dedicati a cercare di capire, a cercare di fare.

La nostra conquista è dunque questa “bella abitudine” e nulla più?

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Distolti dal consueto tran-tran ci sentiamo perduti e cominciamo a filosofeggiare se la cosa sia aderente alle Costituzioni, se arrechi grave danno alla Loggia o, peggio ancora, se ciò sia iniziatico o meno.

L’abitudine, il tran-tran, questo l’obiettivo di una Loggia di quasi tutti Maestri?

Già tentai nella mia ultima tavola di trasmettere un messaggio che mi stava a cuore e cioè: “sviluppiamo al meglio le capacità dei Fratelli di questa Officina per tentare un lavoro collettivo che possa rendere tangibili gli effetti delle nostre conquiste e delle nostre conoscenze”.

Credevo e credo tuttora che questo sia il modo migliore per realizzare lo scopo che il rituale ci assegna che è quello di “lavorare al bene ed al progresso dell’Umanità”.

Comincio a pensare che molto più di noi fanno quei Fratelli che dedicandosi ad attività paramassoniche come gli Asili Notturni, L’Università Popolare o la Socrem realizzano con i fatti, anziché tante vuote parole, l’obiettivo che la nostra Istituzione si pone.

Ma se fino ad oggi non mi sono dedicato che molto marginalmente a tali attività è perché la mia idea, forse velleitaria, è quella che la Loggia deve cogliere dai suoi Lavori lo spunto per realizzare qualcosa che vada al di là del semplice confronto dialettico che si sviluppa nelle tornate.

Solo così tale confronto dialettico non rimarrà fine a sé stesso, non rimarrà solo “parole e parole”, ma potrà rappresentare la sintesi del meglio che la Loggia ha saputo realizzare negli anni.

Ed è questa capacità di darsi, almeno a livello di Maestri, obiettivi più ambiziosi, forse più concreti, certamente più difficili, che io definisco “paura di volare”.

Sembra quasi che la nostra Officina, dopo aver realizzato solide fondamenta, manche della capacità, o della forza, o della volontà per realizzare l’intero edificio.

Bravi nel realizzare la parte nascosta della costruzione (l ‘Officina è forte e non ha subito che piccoli contraccolpi dalle vicende esterne dell’associazione), ma incapaci di terminare l’opera (la realizzazione di un qualcosa che tale forza dimostri).

Queste, cari Fratelli, sono le mie considerazioni sulla salute della Loggia.

È Possibile che il problema sia soltanto mio. In questo caso perdonatemi si vi ho tediati.

TAVPLA DEL FR.’.  G. F. Cmmrcc,

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CONSIDERAZIONI INIZIATICHE SUL TEMA DELLA MORTE

CONSIDERAZIONI INIZIATICHE SUL TEMA DELLA MORTE

PREMESSA:

Come sempre avviene per chi si pone nell’ottica tradizionale, questa tavola non vuole essere il frutto di punti di vista individuali, ma la pura esposizione di dati e insegnamenti ricavati dalle tradizioni.

Ritengo la precisazione necessaria, data la particolare delicatezza dell’argomento trattato; per questo motivo mi sono premurato di riportare le fonti bibliografiche a cui ho attinto, onde consentire ai Fratelli che lo desiderassero, di andarle loro stessi a consultare per eventuali ulteriori approfondimenti.

SOMMARIO:

Introduzione

Differenza tra la visuale iniziatica e profana

Ripercussioni pratiche

La morte iniziatica

La discesa agli inferi

Sul pre morte

Sul dopo morte, effetti degli interventi sul corpo

Le condizioni postume a seconda del grado di conoscenza

Sui riti funebri

Bibliografia

INTRODUZIONE

Lavorare su questo argomento non mi è stato facile. Come tutti, anch’io ho difficoltà a soffermarmi sul pensiero della morte, che non mi rallegra, anzi mi incupisce. Non amo inoltre l’idea di costringere i Fratelli alla riflessione “ricordati che devi morire”, anche se tutti sappiamo che prima o poi … (speriamo naturalmente il più possibile “poi” che “prima”). Questa speranza accomuna tutti, iniziati e profani; con una differenza però. Per il profano la vita viene vissuta fine a se stessa; per l’iniziato invece essa ha soprattutto un significato “strumentale” in quanto più perdura, e con le migliori condizioni di salute, maggiori potranno essere le possibilità di realizzazione spirituale. (Questo concetto viene espresso in molte tradizioni, che considerano la buona salute e l’integrità fisica, giustamente, come un dono del cielo, secondo solo a quello della fede).

Affronterò quindi l’argomento, non come un panegirico sulla morte, ma al contrario come un inno alla vita, che non si svolgerà sotto il segno della signora con la falce, ma sotto quello del gallo, presente sulla cima dei campanili di molte Chiese, quale noto simbolo di risveglio e di resurrezione.

DIFFERENZA TRA LA VISUALE INIZIATICA E PROFANA

La visuale profana dell’esistenza attribuisce alla morte un carattere di definitività cosmica, di viaggio senza sbocco per i non credenti essa è sinonimo di distruzione e annientamento. Secondo il punto di vista iniziatico invece la morte ha un significato di transitorietà, essendo solo “una morte” di quelle possibili; rientra cioè in un ciclo di alternanze il cui punto d’arrivo finale è la vita (non quella corporea, ma dello spirito, nel senso quindi più pieno e incorruttibile del termine); in questo modo la conoscenza che scaturisce dalla dottrina tradizionale trionfa sulla morte, là dove essa sembrava prevalere, affermando nel contempo la superiorità e l’inattaccabilità del punto di vista intellettuale e spirituale.

Questa trasmutazione, che può essere considerata una vera operazione di alchimia rispetto alla visuale profana, è racchiusa in queste parole di René Guénon: ‘ Se si considera la nascita e la morte nel senso più generale, vale a dire come cambiamenti di stato . . ci accorgiamo che in realtà sono fenomeni rigorosamente equivalenti, la morte per uno stato essendo nello stesso tempo la nascita in un altro (da “L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta”, capitolo “L’evoluzione postuma dell’essere umano”).

Tutto ciò è comune a tutte le forme tradizionali, sia pure con modalità di esposizione diverse, a cominciare dal simbolismo del “Gabinetto delle riflessioni” che, attraverso la pluralità dei significati rappresenta la tomba del profano da cui dovrà risorgere l’iniziato. Per convincersene sarebbe sufficiente per chiunque consultare dei testi specifici: dalla dottrina degli stati molteplici dell’essere, dove vengono spiegati la continuità e il concatenamento tra i vari stati di manifestazione , al processo di morte, stato intermedio e rinascita alla Realizzazione suprema o Identificazione con il Principio, scopo e fine ultimo dell’iniziazione. Disgraziatamente la pigrizia umana e lo sforzo che questo lavoro comporterebbe tiene lontani i più, privandoli dei risultati conoscitivi che ne potrebbero ricavare; si può anche arrivare, per evitare questo sforzo, a considerare come un titolo di merito la rinuncia all ‘insegnamento tradizionale, (che come tale è di fonte sovrumana), per preferirvi la propria personale inventiva, ritenuta evidentemente più affidabile!

RIPERCUSSIONI PRATICHE

Ne consegue per l’iniziato che la morte ordinaria sarà sì un cambiamento di stato (per quanto grande possa essere), ma il viaggio, ed è ciò che conta, continua. Il mondo è una palma sotto cui sostare per ricevere un po’ di frescura, il corpo un abito

che si dovrà cambiare, (“Io sono un uccello: questo corpo era la mia gabbia, ma sono volato via, lasciandolo come segno …” ha scritto una poeta sufico).

È stato detto :”… gli esseri viventi non muoiono ma, essendo corpi composti si disgregano; questa disgregazione non è morte, ma separazione di cose che si sono combinate insieme. Tale disgregazione non ha come fine la morte, ma il rinnovamento …” (“Corpus Hermeticum”, Capitolo “Discorso di Ermete a Tat sul Nous Comune”). L’amore per la conoscenza (È noto che etimologicamente la parola “amore” significa “senza morte” e sottolinea nella fattispecie questa concezione imperitura della vita) è tale che l’iniziato “brucia” con il suo fuoco interiore gli ostacoli che incontra sulla via, che avrà termine solo quando si troverà al cospetto del “Volto di Dio”. In ogni istante il ricercatore di verità mette la sua anima nelle mani del Creatore ed è pronto ad affrontare la morte, ma dà contemporaneamente alla vita il massimo dei significati, poiché per lui la vita intera è rito.

Ritroviamo questo atteggiamento nuovamente nelle parole di Ermete Trismegisto: ‘ il peccato più grande è l’ignoranza del divino. Viceversa, l’essere capaci di conoscere il divino, averne avuto la volontà e la ferma speranza, questa è la retta via, ed è anche una via facile. Durante il cammino, infatti egli ti verrà incontro ovunque; dovunque si offrirà alla tua vista, anche dove e quando non te l’aspetti, mentre vegli o riposi, mentre navighi o cammini, di notte e di giorno, mentre parli o taci; poiché niente esiste che egli non sia”.

LA MORTE NIZLATICA

La modificazione che proviene dall’iniziazione ha un grado di realtà superiore alla morte stessa ed è tale che influenzerà le condizioni di rinascita nel momento della morte corporea. Questo concetto viene espresso da René Guénon con queste parole: “11 conferimento dell’iniziazione oltrepassa le contingenze inerenti agli stati particolari dell’essere e ha, di conseguenza, un valore profondo e permanente dal punto di vista universale”.

L’iniziazione non è però che l’inizio della via, e può rimanere virtuale per chi, fermandosi all’esteriorità delle cose, non procede operativamente nel senso della realizzazione. Diventa invece effettiva per colui che, essendo “realmente” ricettivo all’influenza Spirituale, vive il processo conoscitivo con tutto il suo essere, attraverso un costante lavoro di interiorizzazione e di trasmutazione dell’individualità, che lo dovrà condurre progressivamente fino alla cosiddetta “morte iniziatica”.

Morte iniziatica significa morte dell’individualità. Per l’iniziato ai Piccoli Misteri (come è il caso della via massonica) non è l’individualità totale che deve morire (come avviene invece nei Grandi Misteri in cui le realtà sono di ordine sopraindividuale), ma quella profana e disordinata, dalla cui trasmutazione dovrà

sorgere l’individualità nella sua perfezione (si ripresenta qui il simbolismo della morte, che corrisponde ad una nascita vista dall’altra “faccia” dell’avvenuto cambiamento. (N.B.: circa la differenza tra Piccoli Misteri e Grandi Misteri, si veda René Guénon

“Considerazioni circa la via iniziatica”, capitolo “Grandi Misteri e Piccoli Misteri”). Solo da quel momento e non prima si potrà parlare di rinuncia all’individualità, poiché non è possibile, evidentemente, rinunciare a qualcosa fintantoché non la si possiede

I moti oscuri e irrazionali dell’anima devono venire riconosciuti dall’iniziato nelle loro radici sotterranee, che una volta trovate saranno disciolte dall’occhio puro dell’intelletto, provocando delle piccole morti che dovranno condurre gradualmente a quella iniziatica finale; questo meccanismo che noi chiamiamo “la squadratura della pietra grezza”, è ciò che contraddistingue le fasi del processo iniziatico.

I Piccoli Misteri quindi, per chi giunge al termine di essi, preparano il passaggio ai Grandi Misteri. L’essere che percorre questi ultimi fino al loro estremo (ottenendo ciò che gli indù chiamano “Liberazione”) realizza la morte in vita. Non subirà quindi, con la morte fisica, alcuna modificazione, se non la dissoluzione del composto corporeo, essendosi egli stabilito definitivamente nella coscienza del Sé.

Come si vede siamo lontani anni luce rispetto a come viene comunemente concepita e “vissuta” la morte, nella fase del ciclo attuale. È il conto, un po’ salato in verità, che è stato presentato all’uomo (mi perdonerete Fratelli la battuta) dopo la sua caduta biblica, dal “progresso” e dai movimenti di “emancipazione” che hanno nel corso di millenni, e con maggiore intensità negli ultimi secoli, caratterizzato la storia dell’umanità …

LA DISCESA AGLI INFERI

Parlando della morte iniziatica, non si può non fare almeno un cenno sulla cosiddetta “discesa agli inferi”, una sorta di ricapitolazione degli stati precedenti allo stato umano che caratterizza le prime fasi del percorso iniziatico. Essa comporta la manifestazione delle possibilità inferiori che l’essere porta ancora in sé, che debbono essere esaurite perché gli sia possibile pervenire alla realizzazione dei suoi stati superiori. In altre parole si tratta di prendere coscienza delle tracce che gli stati precedenti hanno lasciato nelle regioni più oscure dell’anima. (cfr. René Guénon “L’esoterismo di Dante”, capitolo “I tre mondi”).

È esperienza di vita di ciascuno che per accedere ad un livello più elevato, in qualunque circostanza, si debbano superare dei limiti precedenti; così i desideri e le passioni sono di impedimento in una via spirituale, fino a che non vengono esauriti Chi non lo fa in questa vita dovrà farlo in quella successiva (tenendo conto naturalmente delle mutate condizioni di esistenza), giacché la morte non cambia il grado di conoscenza degli esseri.

SUL PRE MORTE

Per procedere nel suo viaggio, è necessario che I ‘iniziato sappia come vivere, ma soprattutto come morire, per non rischiare di peggiorare all’ultimo le sue condizioni di rinascita.

Nelle fasi che precedono la morte infatti l’essere rischia le peggiori “crisi” sul piano psichico, a causa della fragilità e della precarietà in cui si trova. Si pensi quale smarrimento, più spesso terrore, può provare colui che, nel momento del trapasso, è attaccato a ciò che sta definitivamente lasciando, e non ha alcuna cognizione né fiduciosa aspettativa di ciò che lo attende, che gli si presenta come il totale annientamento di se stesso.

Difficile immaginare una situazione più tenibile di questa! Analogamente ad un iniziato dell’antichità, si dovrebbe invece poter dire: “Io sono pronto. Ho reso il mio animo saldo contro le illusioni del mondo”.

Tratta l’argomento del pre morte un testo latino del 1470, “ARS MORIENDI’, che sintetizza gli scritti di alcuni Padri della Chiesa dei primi tempi, e di Profeti del Vecchio Testamento con il titolo: “Le cinque tentazioni del diavolo”. Contro queste, a protezione del morituro, porta ogni volta ispirazione un angelo. Le tentazioni provengono: dalla mancanza di Fede, dalla Disperazione, dall’Impazienza, dalla Vanagloria, dall’Avarizia. Quivi si afferma, con gli accenti caldi e vibranti tipici della tradizione cristiana, l’importanza degli ultimi pensieri nel momento fatidico: il diavolo assale l’uomo per condurlo alla morte eterna. Perciò è necessario assai che l’uomo provveda all’anima sua per non perderla in punto di morte”.

Ecco, secondo gli autori, con quali argomenti l’angelo viene in aiuto del morituro: “La fede è il fondamento della salvezza e senza di essa nessuno può salvarsi” (Agostino); “Chi non crede è già giudicato” (Giovanni); “Ogni peccatore se dispererà del perdono, perde ogni misericordia, perché con la disperazione offende Dio” (Agostino); “In qualunque ora il peccatore piangerà, in quella stessa ora sarà salvo” (Ezechiele); “E’ più valoroso l’uomo paziente nell’animo che l’espugnatore di città” (Salomone); “L’uomo che si giustifica da sé e si presume giusto cade nell’abisso” (Agostino)

SUL DOPO MORTE EFFETTI DEGLI INTERVENTI SUL CORPO.

“Non bisogna credere che lo stato sottile cessi all’istante stesso e soltanto per il fatto della morte corporea”. (René Guénon “L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta”, capitolo “L’evoluzione postuma dell’essere umano”). Avviene un assorbimento della coscienza nello stato sottile stesso per la durata di tre giorni e mezzo, durante i quali il defunto è presente in uno stato di lucida vacuità; vede, sente ciò che accade intorno a lui, vorrebbe comunicare con i presenti, ma non può, e questo è per lui motivo di disperazione. Perciò sono da evitarsi in sua vicinanza scoppi di dolore, d’ira o di contrarietà onde non provocargli uno stato di turbamento peggiore di quello che già ha. Poiché la sua coscienza è ancora presente in questo lasso di tempo (dopo di che si manifesteranno dei segni esteriori – fuoriuscita di sangue, ecc. – che ne indicheranno il completo ritirarsi), “solo dopo il suo trascorrere si potrà rimuovere il corpo per eliminarlo. Prima di allora, qualsiasi manipolazione violenta del medesimo, non potrà che disturbare i processi finali della morte, e ciò potrebbe dar luogo ad una rinascita inferiore …

Mi rendo conto che ciò può apparire stupefacente agli occhi della mentalità attuale. Disgraziatamente uno degli effetti del materialismo che caratterizza la nostra epoca è quello di credere solo a ciò che cade sotto i propri sensi, con la conclusione molto semplicistica che tutto quello che non rientra in questa condizione, non esiste.

L’ignorare questo processo graduale di abbandono dell’anima dal corpo, fa sì che si intervenga sul defunto in qualsivoglia maniera, senza aspettare la decorrenza dei termini necessari, (con autopsie, prelievi di organi ecc.) recando così grave pregiudizio al decorso postumo di quest’ultimo.

Come già detto, delle interferenze violente nel periodo in cui la coscienza è ancora presente, (sebbene diversa da quella in vita in quanto non più legata alla sensibilità del corpo) spaventano il defunto favorendo la possibilità di una rinascita inferiore, analoga a quella di un animale, di un vegetale, o di un minerale del nostro stato di esistenza. San Francesco d’Assisi scrive nel suo “Cantico delle creature” ‘ beati quelli che la morte troverà ne le Tue sanctissime voluntati Signore ca la morte seconda no li farà male …”. Nella tradizione islamica, il Profeta Maometto parla ai nemici uccisi dopo una famosa battaglia. Ai suoi compagni che gliene chiedono con stupore la ragione, egli risponde: “Voi non sentite meglio di loro ciò che dico; solo che essi non mi possono rispondere.

“La seconda morte”, scrive René Guénon “non è che la morte psichica; si può considerare questo fatto come suscettibile di prodursi a più o meno lunga scadenza dopo la morte corporea, per l’uomo ordinario, al di fuori di ogni processo iniziatico”.

Nel “Libro di Mirdad”24 , opera di non accertata collocazione tradizionale (probabilmente noachita) ma di sicura ispirazione esoterica, il Maestro, Mirdad, cosi si rivolge ad un suo discepolo, affranto per la scomparsa del padre appena avvenuta: “Tuo padre non è morto, Himbal. Né sono morte ancora la sua forma e la sua ombra. Veramente morti sono invece i tuoi sensi per quanto concerne l’alterata forma e l’ombra di tuo padre. Poiché ci sono forme tanto delicate, con ombre cosi attenuate che il grossolano occhio umano non può percepire. … Solo perché tuo padre è ora in una luce alla quale il tuo occhio non è abituato ed in una forma che non puoi scorgere, tu dici che egli non è più. Ma il sé materiale dell’Uomo, ovunque trasportato e comunque trasformato, non può fare a meno di proiettare ombra finché non venga dissolto completamente nella luce del Divino Sé dell’Uomo …” (per Sé materiale qui bisogna intendere l’io individuale, essendo il Sé al di sopra di qualsiasi modificazione).

La letteratura tradizionale sulle condizioni del post mortem va dal libro egizio dei morti, al rituale cinese del culto degli antenati, dal Vedanta indù, alla liturgia cristiana dei defunti. Il buddhismo tibetano fornisce delle indicazioni estremamente precise a riguardo. Il concetto su cui si basa è il “bàrdo” che significa “stato intermedio” e indica la condizione di passaggio tra due stati. Il testo che riporta questa descrizione è il Bar-do Tho-dol (libro tibetano dei morti), appartenente ad una serie composta da Pafdmasambhava nell’V1110 secolo d.c., che viene classificato come “gter-ma” che significa nella lingua tibetana “tesoro”, e sta a indicare quei testi e quegli oggetti sacri che venivano nascosti da alcuni maestri in previsione di periodi non propizi per l’insegnamento, in caso di razzie, distruzioni e così via.

Dal secondo al quarto bardo (il primo è l’arco della nostra vita terrena), sulla coscienza sottile del defunto opera il monaco recitante, o il maestro, o un fratello nella via tradizionale, guidandola nel difficile e decisivo percorso che dovrà affrontare. Frasi rituali tipo: “… O figlio di nobile famiglia … è venuto per te il momento di cercare una via …”, vengono ripetute molte volte in vicinanza del trapassato dal momento in cui il suo respiro si è interrotto, in modo che tutto resti fermamente impresso nella sua mente. Questa tecnica di recitazione rituale, è definita: “Liberazione nel Bardo attraverso l’udire” ed avrà un esito diverso a seconda del grado spirituale del defunto e quindi delle sue differenti reazioni

Nel Vedanta indù figura questa descrizione: ‘ Questa forma sottile (in cui dopo la morte risiede l’essere che resta così nello stato individuale umano) è (se paragonata con la forma corporea o grossolana) impercettibile ai sensi per le sue dimensioni (vale a dire perché essa è fuori della condizione spaziale) ed anche per la sua consistenza (o per la sua sostanza) che non è costituita da una combinazione degli elementi corporei; di conseguenza essa non colpisce la percezione (o le facoltà esterne) di coloro che sono presenti quando si separa dal corpo (dopo che ‘l’anima vivente’ vi si è ritirata)”.

“Questo ritrarsi o questo abbandono della forma corporea è comune al popolo ignorante (avidwan) ed al Saggio contemplativo (vidwan) fin dove cominciano per l’uno e per l’altro, le loro rispettive (e d’ora innanzi differenti) vie.” .

Queste vengono denominate “la via degli Avi” (pitry yana) e “la via degli Dei” (deva yana), che condurranno la prima ad un ritorno nella manifestazione in uno stato differente da quello umano (poiché l’essere non può ripassare due volte per un medesimo stato, contrariamente a quanto sostengono le teorie reincarnazionistiche); la seconda verso gli stati superiori dell’essere, nel dominio del non manifestato.

LE CONDIZIONI POSTUME A SECONDA DEL GRADO Dl CONOSCENZA

Le condizioni postume dell’essere variano a seconda che si tratti di un profano, di un exoterista che ha ottenuto la salvezza (profano per il punto di vista iniziatico) e di un iniziato, e sono in funzione del grado di conoscenza acquisito in vita (l’essere lascerà tutte le sue scienze eccetto la “Scienza dell’Unità” come insegnano le tradizioni orientali, che è la conoscenza del divino ottenuta attraverso il lavoro iniziatico). L’evento della morte “fissa” lo stato conoscitivo dell’essere con un grado paragonabile a quello del “rigor mortis” corporeo. ln quel momento non ci sarà più tempo per ricercare o dubitare, perché oramai, i giochi saranno fatti …

A chi non credesse nel giudizio finale dell’aldilà, dovrebbe essere sufficiente citare la parabola evangelica dei talenti, il cui significato non deve essere limitato alle

sole opere ma va esteso anche alle parole pronunciate.

Difatti è scritto: “Di ogni parola vana che avranno detto gli uomini daranno conto nel giorno del giudizio; poiché dalle loro parole saranno giustificati e dalle loro parole saranno condannati” (Matteo, 12-36).

Per il ricercatore della Verità, che è per definizione l’iniziato, quello del giudizio finale si presenta come un motivo in più, e certo non di poco conto, per intensificare il proprio lavoro operativo (credo che a nessuno sorrida l’idea di poter rinascere in una condizione analoga a quella di un ragno o di una formica del nostro stato di manifestazione …).

Nel viaggio che l’iniziato dovrà affrontare dopo la morte, la conoscenza sarà il suo scudo e la sua arma. Non avrà da essere un’arma di legno …

SUI RITI FUNEBRI

Vorrei in ultimo ricordare (anche se appare implicito da quanto finora esposto) il significato e l’importanza dei riti funebri che nelle società tradizionali hanno la funzione di guidare l’essere nel viaggio extra corporeo per il conseguimento delle condizioni postume più favorevoli. La perdita della tradizione ha fatto sì che nelle

società moderne i riti funebri siano stati aboliti, privando così il defunto dei benefici che ne avrebbe ricavato. Tutto ciò dà la misura di quali azioni si possano compiere, e con quali ripercussioni, per pura ignoranza nella maggior parte dei casi, ma con mirata volontà da parte di quelle forze dissolventi del mondo attuale che si potrebbero semplicemente definire “controiniziazione” senza che nessuno, o quasi nessuno, abbia a rendersene conto …

TAVOLA SCOLPITA DAL FR.’. E. My,

BIBLIOGRAFIA

  1. René Guénon, GLI STATI MOLTEPLICI DELL’ESSERE.
  2. Yang-Jen-ga-way-10-dro, MORTE, STATO NTERMEDIO E RINASCITA NEL BUDDHISMO TIBETANO, traduzione e commento Rinpoce e Hopkins, Editore Ubaldini Roma.
  3. René Guénon, NIZIAZIONE E REALIZZAZIONE SPIRITUALE, Capitolo “Salvezza e Liberazione”.

René Guénon, L’UOMO E IL SUO DIVENIRE SECONDO IL VEDANTA, Capitolo “La liberazione finale”.

  • René Guénon, CONSIDERAZIONI CIRCA LA VIA INIZIATICA, Capitolo “La morte iniziatica”.
  • LIBRO TIBETANO DEI MORTI, a cura di Namkai Norbu, Newton Compton Editori.
  • Martin Lings, IL PROFETA MUHAMMAD, LA SUA VITA SECONDO LE FONTI PIÙ ANTICHE, Capitolo “La battaglia di Badr”, Edizioni SITI.
  • Mikhail Naimy, IL LIBRO Dl MRDAD, Ediz. MEditerranee.

8)René Guénon, L’UOMO E IL SUO DIVENIRE SECONDO IL VEDANTA, Capitolo “L’evoluzione postuma dell’essere umano”.

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I SEGNI DEL CAMBIAMENTO

I SEGNI DEL CAMBIAMENTO

(Ovvero dalle parole ai fatti)

Il desiderio di scrivere questa tavola è nato da alcune contingenze della mia personale vita profana che hanno acuito sensibilmente la convinzione, mai sopita, che ad un certo momento della via e della vita all’iniziato si possa chiedere un modo “diverso” di vivere, a riprova del suo cambiamento effettivo oltre che teorico.

Quali potrebbero essere i segni di cambiamento effettivo realizzati dai Fratelli nell’Istituzione che, pur seguendo un fine spirituale, nella sua manifestazione quotidiana ha regole e storia umane e vita materiale?

Durante i nostri lavori rituali, ovvero scolpendo tavole scritte e parlate, pronunciamo tante parole il cui significato è pieno di verità; ma scendono veramente dentro di noi queste verità? Sono accettate con lo spirito che fa di esse la manifestazione di effettiva volontà di ricerca della Luce? Il loro indiscutibile significato non viene a volte umiliato di fronte al primo ostacolo di un personale tornaconto? La nostra libertà la usiamo sempre per esprimere la parte migliore di noi stessi, per quanto valga, o talvolta ce ne serviamo per limitare o togliere quelle altrui? Quante volte invochiamo la Fratellanza, non solo in Tempio, e quante volte è veramente scesa nei nostri cuori a testimoniare che il nostro è un mondo di Fratelli? E la Tolleranza? Quante volte negli atti e nelle scelte della nostra vita non siamo “conformi” nelle intenzioni e nei fatti a quanto appreso in Tempio e verbalmente dichiarato e ripetuto? Ma perché proprio la Tolleranza come segno del cambiamento? Una risposta si fa avanti semplicemente dalla considerazione di come, a volte, il significato di Tolleranza sia confuso ed alquanto contraddittorio.

Infatti le incomprensioni portano ad interpretare, e mi riferisco ovviamente alla pratica e non alla definizione etimologica, per difetto (o per comodità) la Tolleranza scadendo così in comportamenti più vicini all’intolleranza, oppure, per eccesso, arrivando a volte al lassismo, alla esagerata liberalità. (Vi è mai capitato di chiedervi quanto sia giusto in certe situazioni essere tolleranti o quando, spingendovi oltre, si possa arrivare a tollerare troppo, a concedere assai di più, con la fastidiosa intima sensazione di star commettendo un errore?).

Pensiamo quanto è difficile oggi, come sempre, imboccare la via della misura tra soluzioni estreme, cioè quanto sforzo di volontà ed intelligente desiderio di comprensione sia necessari per arrivare ad essere tolleranti, e spesso ancora non basta.

Infatti se la Tolleranza è già di per sé un esercizio molto complesso tra persone “moralmente” su uguale piano e culturalmente di simile livello, la situazione diventa critica quando si confrontano opinioni, atteggiamenti, azioni ed interessi tra individui profondamente diversi per i più svariati motivi. Eppure, per essere coerenti, è necessario superare tutte le barriere, tutti i pregiudizi, il proprio eccessivo orgoglio e l ‘intransigenza delle proprie radicate convinzioni.

L’aspirazione ad essere migliori, ad emergere, a contare nella vita è nella natura dell’uomo e quando si attua nel rispetto della deontologia, della correttezza e nell’osservanza dei “principi universali ed eterni” è addirittura lodevole. (Nelle nostre Logge si stimola l’iniziato a voler “scavare profonde prigioni al vizio ed elevare templi alla virtù” proprio per essere migliore nell’accezione più elevata del termine).

Dal rituale di primo grado: “Se ammesso nella nostra Istituzione vi trovaste qualcuno . considerato un nemico, siete pronto ad abbracciarlo e consideralo un Fratello?” Vale a dire la richiesta a priori di esercizio della Tolleranza con promessa esplicita dell’iniziando.

Mi potrete far osservare che, salvo casi rarissimi, chiunque di noi è stato invitato a far parte della nostra Istituzione è entrato, usando il nostro linguaggio suggerito, al buio senza la coscienza precisa dell’impegno che stava assumendo nei confronti soprattutto di sé stesso. Tutto ciò non è più vero dopo anni, tanto che, a mio parere, dovrebbero conseguirne comportamenti conformi. Allora massone uguale a Buon Samaritano a tutti i costi? Per quanto mi riguarda no! Si tratta di vivere in “altro modo”.

Un esempio di “altro modo”. Da molti anni frequento il Fratello Sergio R., già Maestro Venerabile di una Loggia ora diroccata ed attualmente in sonno, figlio di Massone pure in sonno. Attualmente il Fratello è membro attivissimo di un gruppo privo di “storia tradizionale” di uomini e donne che si dedicano a studi e, soprattutto, a pratiche esoteriche non propriamente di origine libero muratorie. Ho sempre apprezzato il suo dire ed il suo fare, nonostante la riserva mai espressa di verifica in momenti comunemente considerati importanti, a torto o ragione, della vita. Recentemente è passato all’Oriente Eterno il padre (e Fratello) al quale Sergio era legato da grandissimo affetto. Ecco l’occasione di verifica. Trascrivo parte di una lettera scritta ad un Fratello: “È difficile per me, tenuto conto del contesto culturale in cui siamo immersi, trasmettere quel senso di serena fiducia nella continuazione della vita che ho condiviso con mio padre in tutti questi anni. Il rammarico, umanissimo, per il distacco è compensato dalla consapevolezza che nell ‘ultimo periodo la sua situazione psichica era andata deteriorandosi di pari passo con le sue condizioni fisiche e quindi lo strettissimo rapporto che tu sai essere intercorso fra di noi si era, in certa misura, forzatamente attenuato. Ora che la forma esteriore è svanita, quel rapporto interiore è totalmente ripristinato ed il dolore da parte mia, nell’assistere alla sua sofferenza, è scomparso …..”. A mio parere, Sergio ha confermato serenamente quanto aveva sempre proclamato, dando segni di cambiamento coerente.

Dal rituale di apertura dei lavori in primo grado: dai segni che danno riconosco tutti i presenti come Liberi Muratori.” E noi sappiamo che in tale grado, o meglio all’inizio della via iniziatica, i segni che si danno sono posture propedeutiche ad un maggior ordine interiore e, quasi certamente, dei modi rituali convenzionali di riconoscimento.

In altro rituale si recita: ‘ dai segni che danno, ma più ancora dalla nuova disposizione interiore …”. Se si considera che, a volte, tra di noi vi sono Fratelli con decenni di scuola e vita da iniziato si può sperare che i “segni” non siano posture o modi di riconoscimento, bensì testimoni della nuova e duratura disposizione interiore derivante da “effettivo progresso” in Massoneria.

Quindi disposizione interiore appropriata, confortata da segni esteriori visibili. Segni che non devono esaurirsi con la fine dei lavori rituali.

Mi sovviene il detto popolare “al cuor non si comanda”. Apparentemente una banalità. Molti anni fa il Fratello Mario B. Disse “ricordati che quasi sempre, se non sempre, gli affetti naturali che viviamo normalmente (moglie, compagna. Amici, Fratelli, ecc.) costituiscono un grosso ostacolo sulla via iniziatica, anche nel più convinto degli adepti”. Rimasi, a dir poco, sconcertato. Oggi affermo che Mari aveva ragione, ma contemporaneamente sono certo di non avere né forza né, soprattutto, voglia di rimuovere volontariamente quegli affetti dalla mia vita.

In conclusione (si fa per dire), mi pare dia segni di cambiamento, di qualche rapidissimo bagliore di Luce chi tra noi, in virtù della interiorizzazione di riti, tavole, esempi di altri Fratelli, riesce, pur adempiendo ai doveri del proprio stato, di cui sono fautore convinto, a vivere più “leggermente”, lasciando sempre più in disparte banalità profane.

TAVOLA SCOLPITA DAL FR:?: S. Pnt,

TROVATI PER CASO

E un nuovo esordio.

Gli studi, le ricerche, le esperienze, i tentativi un tempo solitari ora divengono elemento di confronto.

L ‘esperienza personale si misura ed arricchisce.

La mescolanza di pensieri, simili per aspirazione, dischiude nuovi orizzonti.

I dubbi si attenuano; le certezze, supportate da differenti pareri, si rafforzano.

L ‘espressione di uno trascina a cascata miriadi di idee di altri, che vorticosamente convergono fino a lasciare un sedime comune in cui sarebbe difficile riconoscere i singoli apporti.

Pian piano emerge un ordine nello spazio e nel tempo.

Si riconosce il valore del silenzio e del suono.

Si abbandonano le parole vane e le contrapposizioni per dare rilievo agli interventi accrescitivi e benevoli.

Si accolgono insegnamenti, non per il prestigio di chi li ha prodotti, ma per il ritorno, positivo ed immediato, che se ne ricava mettendoli in pratica.

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VIGILANZA E PERSEVERANZA

VIGILANZA E PERSEVERANZA

(citazioni)

E son vituperosi quelli, ch’al mezzo della carriera, desperati, si fermano e non vanno ancor che ultimi, a toccar il temine con quella lena e vigore che gli è possibile. Venca dunque la PERSEVERANZA perché se la fatica è tanta, il premio non sarà mediocre. Tutte cose preziose son poste nel difficile. Stretta e spinosa è la via della beatitudine; gran cosa forse ne promette il cielo. Giordano Bruno, “La cena delle ceneri”, dialogo 2

Beato I ‘uomo che mi ascolta vegliando alle mie porte giornalmente custodendo gli stipiti della mia porta giacché ci mi trova, trova la vita, e riceverà favore da Jahve.

Proverbi 8, 34

Allora il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini le quali, prese le loro lampade, uscirono per andare incontro allo sposo.

Cinque di esse però erano stolte e cinque prudenti. Le stolte infatti, prendendo le loro lampade, non presero con sé l’olio; le prudenti, invece, insieme alle loro lampade presero pure l’olio dei vasi.

Ora poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. Nel mezzo della notte si sentì un grido: “Ecco lo sposo, uscitegli incontro”.

Allora quelle vergini si alzarono e prepararono le loro lampade. Dissero le stolte alle prudenti: “Dateci del vostro olio, poiché le nostre lampade si spengono”. Ma le prudenti risposero dicendo: “No, perché non basterebbe né a noi, né a voi. Andate piuttosto a comprarvelo dai rivenditori”.

Ora mentre esse erano andate a comprarlo, giunse lo sposo e quelle che erano pronte entrarono con lui nella sala del banchetto e la porta fu chiusa. Alla fine giunsero pure le altre vergini dicendo: “Signore, Signore aprici”. Ma quello rispose: “In verità vi dico, non vi conosco”.

Vegliate dunque perché non conoscete né il giorno, né l’ora. Matteo 25, 1

State attenti. Vegliate, perché non sapete quando sarà il tempo; come un uomo che, partito per un viaggio, ha lasciato la sua casa e l’ha data in mano ai suoi servi, a ciascuno assegnando i suoi compiti, e al portinaio comandò di vegliare. Vegliate dunque poiché non sapete quando viene il padrone della casa, se la sera, se a mezzanotte, se al canto del gallo, se di mattina, affinché venendo all’improvviso non vi trovi a dormire. Ciò che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate.

Marco 13, 33

Siano cinti i vostri fianchi e accese le lucerne, e voi siate simili a uomini che attendono il ritorno del padrone dalle nozze per aprirgli subito appena arriva e bussa.

Beati quei servi che il padrone al suo ritmo troverà svegli. In verità vi dico che si cingerà, li farà accomodare a tavola e si metterà a servirli.. Che se ne dovesse arrivare anche alla seconda o alla terza vigilia e li trovasse così, beati loro. Sappiate però anche questo: che se il padrone di casa sapesse in che ora viene il ladro, non gli lascerebbe aprire un buco nella sua casa. Voi dunque tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo viene in un’ora che voi neppure supponete.

Luca 12, 35

Per quanto, poi, riguarda il tempo ed il momento preciso, voi fratelli, non avete bisogno che vi scriva. Voi stessi, infatti, sapete molto bene che il giorno del Signore arriverà come un ladro di notte. Proprio quando la gente dirà “pace e sicurezza”, improvvisa piomberà su di essa la rovina allo stesso modo in cui arrivano alla donna incinta i dolori del parto. E non ci sarà scampo. Ma voi, però, fratelli non siete nelle tenebre perché quel giorno vi possa sorprendere come un ladro; voi tutti infatti siete figli della luce del giorno. Noi non siamo figli della notte e delle tenebre. Non stiamo, dunque, a dormire come gli altri, ma vigiliamo nella sobrietà. Paolo, Prima lettera ai tessalonicesi 5,1

Come il fabbro ha bisogno di portare sempre il martello in •mano, per via della materia che lavora, cosi pure l’uomo virtuoso ha bisogno della fortezza, come un martello spirituale per via delle difficoltà insite nella via della virtù.

Luis De Granada, mistico spagnolo del XVI secolo

Non sarebbe sciocco colui che, uscito con altri per correre la giostra, per essere caduto nel meglio della corsa, se ne stesse per terra piangendo ed affliggendosi a ragionare della caduta?

Su, non perdere tempo, gli direbbero, alzati e riprendi a correre, perché chi con rapidità si rialza e continua la sua corsa è come se non fosse caduto. Miguel De Molinos, mistico spagnolo del XVI secolo

Credere con leggerezza è leggerezza di cuore.

Promettere facilmente è perdere la libertà.

Concedere facilmente è avere di che pentirsi.

Decidere facilmente è mettersi in pericolo di sbagliare.

Faciloneria nel conversare è causa di disprezzo.

Facilità nell ‘ira è indizio di follia.

Miguel De Molinos

Prudenza è anche saper temere e saper attaccare. Sapere quando è guadagno il perdere e quando è perdita il vincere. Saper disprezzare i giudizi e le opinioni del mondo ed i latrati dei cagnolini che non smettono mai di abbaiare indiscriminatamente e senza proposito.

Luis DC Granada

Prudenza è non fidarsi di tutti, né rovesciare subito il proprio spirito nel calore della conversazione, né dire subito tutto quello che si pensa delle cose. Chi si fida di colui di cui non deve fidarsi vivrà sempre nel pericolo e ne sarà schiavo.

Luis De Granada

Le citazioni di Luis De Granada e Miguel De Molinos sono tratte dal libro “La saggezza dei Mistici spagnoli” Ed. Guanda 1990

Ascolta adesso la descrizione di quello yoga che permette di agire senza essere legati alle azioni. Quando questa intelligenza ti guiderà, o figlio, potrai spezzare la catene del karma. Per chi segue questa via, nessuno sforzo è vano, nessun vantaggio acquisito sarà mai perduto; il minimo passo ci libera dalla paura più temibile.

Chi marcia su questa via è risoluto è risoluto nel suo sforzo e persegue un unico scopo; invece, o figlio amato dei Kuru, l’intelligenza di chi è privo di questa fermezza si perde in molti sentieri obliqui.

 Bhagavad-Gita Cap. 2, 36-41

Che si faccia o no della propria vita qualcosa di buono e di degno, il tempo non attende, continua a scorrere. E non solo il tempo scorre senza posa, ma di conseguenza anche la nostra vita continua ad avanzare. Se qualcosa non è andato come doveva, non possiamo tornare indietro e ricominciare da capo. In questo senso, non ci è mai data una seconda possibilità. È dunque essenziale che il praticante di una vita spirituale esamini costantemente i suoi atteggiamenti e le sue azioni. Se sorvegliamo noi stessi ogni giorno con mente attenta e vigile, controllando i nostri pensieri, le nostre motivazioni e le loro manifestazioni nel comportamento esteriore, possiamo aprire dentro di noi una possibilità di mutamento e miglioramento.

Dalai Lama “La via del buddhismo tibetano” Mondadori 1996 pag. 4

Il nobile ottuplice sentiero è il sentiero di una vita consapevole. È basato sull’attenzione. Praticando l’attenzione, puoi potenziare la concentrazione che ti permette di arrivare a capire. Grazie alla retta concentrazione, realizzi la retta consapevolezza, retti pensieri, parole, azioni, mezzi di sostentamento e sforzi. Arrivando a capire puoi liberarti da tutti i ceppi della sofferenza e generare pace e gioie autentiche.

Tbich Nhat Hanh, Old Path With Clouds citato da Lama Surya Das “gli otto gradini” Mondadori 1998 pag. 239

Nell’ambito de “I King, il libro dei mutamenti” le frasi “propizia e perseveranza” e “perseveranza reca salute” sono presenti in almeno 30 dei 64 esagrammi. A titolo di esempio riportiamo:

Esagramma no I

KKIENN – IL CREATIVO

SOPRA KKIENN, IL CREATIVO, IL CIELO sorvo KKIENN, IL CREATIVO, IL CIELO

LA SENTENZA

Il creativo opera sublime riuscita, Propizio per perseveranza

L’IMMAGINE

Il moto del cielo è vigoroso.

Così il nobile rende se stesso forte ed. instancabile.

Esagramma no 13

TTUNG JENN – LA COMPAGNIA FRA SOPRA KKIENN, IL CREATIVO, IL CIELO

SOTTO LI, IL RISALTANTE, FUOCO

LA SENTENZA

Compagnia fra uomini all ‘aperto: riuscita.

Propizio è attraversare la grande acqua. Propizia è la perseveranza del nobile.

L’IMMAGINE

Il cielo insieme al fuoco.

L’immagine della compagnia fra uomini.

Così il nobile ripartisce le stirpi e distingue le cose.

Esagramma no 58

TUI, IL SERENO, LAGO SOPRA TUI, IL SERENO, LAGO

SOTTO TUI, IL SERENO, LAGO

LA SENTENZA

Il sereno. Propizia è perseveranza.

L’IMMAGINE

Laghi poggiati I ‘uno sull’altro.

L’immagine del sereno.

Così il nobile si riunisce con i suoi amici Per discutere e per imparare.

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LA GRATITUDUNE E IL RINGRAZIAMENTO

La gratitudine e il ringraziamento:

loro fondamenti nell’ordine cosmico universale.

SOMMARIO:

Introduzione.

Effetti dell’iniziazione.

Perché la gratitudine.

Il cantico di Frate Sole.

Il ringraziamento nella tradizione ermetica.

L’atteggiamento dell’ingratitudine; suoi effetti.

Il ringraziamento nel Vecchio Testamento.

Il ringraziamento nelle Lettere di San Paolo.

Il ringraziamento di Chee Soo. Conclusione.

INTRODUZIONE

Nella sua visione del mondo, l’iniziato non può prescindere dalla presenza di Dio, dal momento che il suo bene più prezioso, l’iniziazione, proviene dallo Spirito, cioè da Dio stesso. L’iniziazione, che si è resa necessaria in seguito al decadimento progressivo dell’uomo durante il ciclo della manifestazione, viene trasmessa per mezzo di un numero indeterminato di tramiti che costituiscono gli anelli della catena iniziatica, alla cui origine, per ogni singola via, un fondatore, un profeta, un “polo”, il quale è un’emanazione diretta della divinità. Perché l’iniziazione conservi la sua efficacia, devono venire rispettate le regole di trasmissione, e la catena non deve aver subito interruzioni (il che darebbe origine, da quel momento in avanti ad una parodistica quanto inefficace pseudo iniziazione); per questo noi affermiamo che la Massoneria è l’ultima via iniziatica rimasta in Occidente, e che il Maestro Venerabile che rappresenta l’estremo anello di questa catena, quando effettua il rito dell’affiliazione (rito quindi, e non cerimonia) conferisce un’iniziazione autentica. (Circa la differenza fra “rito” e “cerimonia” si veda l’opera di René Guénon, “Considerazioni circa la via iniziatica”, capitolo “Riti e cerimonie”).

Il fondatore della via massonica è considerato, giustamente a mio avviso, il profeta Salomone, a cui la Massoneria deve la parte preponderante dei suoi rituali; anche se c’è chi mette in dubbio la storicità di questa filiazione, ciò non cambia la natura delle cose: quello che conta è l’efficacia del simbolismo, il suo contenuto dottrinale e le realtà spirituali che vi sono intrinsecamente collegate.

EFFETTI DELL ‘ftN11ZIAZIONE

Analogamente d un sassolino che cadendo nell’acqua provoca una serie indefinita di onde concentriche, così la discesa spirituale dell’iniziazione scuote la grezza e statica individualità del neofita, producendo una serie indefinita di ripercussioni che si trasmuteranno, se l’iniziazione diventerà via via effettiva, in altrettante prese di coscienza.

Prima fra tutte, il considerare la propria vita per quello che realmente è: un dono del cielo.

PERCHÉ LA GRATITUDNE

Per chi riconosce questa semplice ma profonda verità, ogni grazia ricevuta è un libero dono della divinità ed un segno della sua benevolenza, a cui non può non seguire un incondizionato senso di gratitudine.

Il ringraziamento che ne scaturirà quale puro e spontaneo moto dell’anima, fa parte dell ‘ordine logico e naturale delle cose, ed è necessario perché il meccanismo universale delle azioni e reazioni concordanti si svolga nella sua interezza, ritornando all’equilibrio originario di partenza (la prima fase, la grazia, è quella dell’azione benefica del Principio verso la manifestazione; la seconda, il ringraziamento, è quella di “ritorno” dalla manifestazione al Principio stesso) ciò fa anche sì, secondo l’insegnamento di alcuni santi dell’Oriente, che possa perdurare il flusso della grazia stessa.

IL “CANTICO Dl FRATE SOLE”

Esempio luminoso di questo atteggiamento proviene da uno spirituale eminente dei nostro Medio Evo, San Francesco d’Assisi, con il suo “Cantico delle creature”.

Con questo cantico ci troviamo di fronte ad un chiaro esempio di intuizione spirituale e di rara profondità contemplativa. Le realtà celesti si specchiano nell’anima di San Francesco come il sole o la luna in un puro e limpido specchio d’acqua, e vengono colte nella loro integrità e bellezza, espandendone il riverbero tutto all’intorno, in modo naturale, senza l’intervento della lente deformante della spuria individualità. Ne scaturisce una lode, culminante in un ringraziamento, che ascende dall’umile creatura al Creatore.

Penso sia il caso di riportare questa ode, del resto breve ed estremamente poetica, in modo che anche i Fratelli possano ricavarne argomenti di riflessione.

Laudato sie, mi Signore, con tutte le tue creature, spezialmente messer lo frate Sole, lo quale è iorno, e allumini noi per lui.

Ed ello è bello e radiante con grande splendore: de te, Altissimo, porta significazione.

Laudato si, mi Signore, per sora Luna e le Stelle: in cielo l’hai formate clarite e preziose e belle. Laudato si, mi Signore, per frate Vento, e per Aere e Nubilo e Sereno e onne tempo, per lo quale a le tue creature dai sustentamento. Laudato si, mi Signore, per sora Aqua, la quale è molto utile e preziosa e casta. Laudato si, mi Signore, per frate Foco, per lo quale enn ‘allumini la nocte:

ed ello è bello e iocondo e robustoso e forte. Laudato si, mi Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sostenta e governa, e produce diversi fructi con coloriti fiori ed erba.

Laudato si mi Signore, per quelli che perdonano per lo tuo amore

e sostengono infirmitate e tribulazione.

Beati quelli che ‘ l sosterranno in pace,

ca da te, Altissimo, siranno incoronati.

Laudato si, mi Signore per sora nostra Morte corporale, da la quale nullo omo vivente po’ scampare. Guai a quelli che morranno ne le peccata mortali! Beati quelli che troverà ne le tue sanctissime voluntati, ca la morte seconda no li farrà male. Laudate e benedicite mi Signore e ringraziate e servìtelo cun grande umiltate.”

Taluni potrebbero osservare che esistono forme di spiritualità che poco o nulla hanno a che vedere con quella massonica. Se questo è vero da un punto di vista strettamente metodologico, non lo è più per quanto riguarda la “contemplazione” in se stessa. Infatti questa è essenzialmente “una” in qualsiasi forma tradizionale. Quello che può variare sono soltanto le tecniche di approccio. Ritengo necessaria questa precisazione perché nel citare San Francesco non intendo minimamente sottolineare la forma tradizionale che lo contraddistingue, ma solo evidenziare come un atteggiamento di contemplazione, di lode, di gratitudine e ringraziamento accomuni ed unisca tutti gli uomini spirituali.

Che una Loggia massonica al di là e al di sopra di ataviche opposizioni di rappresentanti exoterici accolga e riconosca validità al Cantico di San Francesco, mi sembra una tangibile e significativa espressione della Universalità e della Fratellanza che noi propugnamo.

IL RDJGRAZIAMENTO NELLA TRADIZIONE ERMETICA

L’importanza della lode e della gratitudine alla divinità, è riportata anche nella tradizione iniziatica dell’ermetismo (Corpus Hermeticum, capitolo “Sulla lode dell’essere supremo, elogio del Re”), dimostrando ulteriormente come tale atteggiamento sia lungi dall’essere prerogativa particolare dei mistici: ‘ . come il Sole, che nutre i germogli di tutte le piante, è il primo a raccogliere, sorgendo, le primizie dei frutti, servendosi per un tale raccolto dei suoi raggi come di immense mani… così anche noi che abbiamo avuto inizio dall’Essere Supremo, che abbiamo accolto l’emanazione della sua saggezza, di cui ci serviamo per queste piante oltre-celesti che sono le nostre anime, anche noi, dico, dobbiamo esercitarci a dirigere di nuovo le nostre lodi verso di Lui, e con queste Egli bagnerà per noi ogni germoglio.”

Si noti la frase “dobbiamo esercitarci a dirigere di nuovo le nostre lodi verso di Lui” in cui si esorta alla lode e la si indica niente meno che come tecnica iniziatica. Questa tecnica ha una funzione precisa: quella del ricordo di Dio (che viene raccomandato in tutte le tradizioni), attraverso il ringraziamento. Ne consegue la necessità di coltivare un atteggiamento di gratitudine verso Dio, ma anche verso gli uomini, perché: “Non ama Dio chi non ama gli uomini”, ed “è impossibile essere grati a Dio se non lo si è verso gli uomini”.

La perdita dell’atteggiamento della gratitudine verso questi ultimi comporta quindi il rischio di dimenticarsi anche di Dio.

L’ATTEGGIAMENTO   DELL ‘INGRATITUDINE,  SUOI EFFETTI.

Appare del resto evidente che chi coltiva un atteggiamento di ingratitudine, lo sarà sempre e comunque in ogni circostanza, né potrà aspettarsi l’aiuto divino, essendo ingrato verso il divino stesso! (Se così non fosse, ci si potrebbe chiedere per quale ragione, in virtù della infinita Misericordia divina, tutte le tradizioni del mondo insistano sul pentimento e sulla richiesta di perdono ..). Da una situazione di chiusura alla presenza divina, non potrà provenire nessuno, o quasi nessun beneficio per beneficio intendo esclusivamente di natura spirituale, l’unico che veramente conti.

Benefici di carattere contingente, per quanto appetiti dall’individualità, hanno un senso solo se rientrano e dipendono da questa prima condizione. In caso contrario, ovvero se perseguiti solo come fini a se stessi, è certo che saranno di effetto negativo, distogliendo l’essere da quello che è il suo vero Bene, il cammino verso la realizzazione).

IL RNGRAZIAMENTO NEL VECCHIO TESTAMENTO

Il ringraziamento alla divinità può assumere indefinite forme possibili di espressione, dall’orazione, alle odi, ai sacrifici, alle costruzioni sacre (il Tempio di Salomone, tra le cui colonne noi lavoriamo, non è forse una forma di ringraziamento alla divinità?). Nel Vecchio Testamento ne troviamo innumerevoli esempi. Tra tutti desidero citare il ringraziamento di re Davide, che dopo aver raccolto le offerte per la costruzione del Tempio a cui era destinato il futuro re, • Salomone, così disse: “Sii benedetto, Signore Dio di Israele, nostro Padre, ora e sempre … nella Tua mano c’è forza e potenza; dalla Tua mano ogni grandezza e potere. Per questo, nostro Dio, Ti ringraziamo e lodiamo il Tuo Nome glorioso. E chi sono io e chi è il mio popolo, per essere in grado di offrirti tutto questo spontaneamente? Ora tutto proviene da Te; noi, dopo averlo ricevuto dalla Tua mano, Te l’abbiamo ridato”.

IL RINGRAZIAMENTO NELLE LETTERE Dl SAN PAOLO

Anche le Lettere di San Paolo sono molto esplicite sull’argomento; così egli scrive ai Tessalonicesi (I A 5,18) “… rendete grazie per ogni cosa; ché questo è il volere di Dio per voi … , e nella 2A (1,3) “…dobbiamo sempre ringraziare Iddio per voi, fratelli, come è ben giusto, perché la vostra fede è in continuo mirabile sviluppo e s’accresce la carità di ciascuno di voi tutti verso gli altri” (non sembra di riconoscere in questo breve stralcio i dettami della fratellanza massonica?) e agli Efesini (5,2()) “rendete grazie e sempre e per tutte le cose nel nome del Signor nostro … a Dio Padre”.

RNGRAZIAMENTO Dl CHEE SOO.

Per non trascurare delle fonti a noi più vicine nel tempo, riporto una citazione di un taoista contemporaneo, Chee Soo che ci offre un bell’esempio di mentalità tradizionale (dal libro “La medicina Taoista”, edito da Xenia editore):

“La cura spirituale avviene alterando le abitudini alimentari in modo di avvicinarsi alla natura e quindi al Tao, allo Spirito Supremo. Ciò significa anche diventare più comprensivi, più consapevoli e più coscienti del lavoro dello Spirito

Supremo … e imparare a conformarsi alle leggi infinite che esso ha posto … . Significa dire preghiere di ringraziamento per tutto ciò che si è ottenuto, il cibo che si mangia, gli indumenti che si indossano, la macchina che si possiede, e ogni volta che si attraversa la strada senza incidenti o che si trova un parcheggio. Non è la fortuna che ci porta a casa sani e salvi ogni sera, ma è un dono dello Spirito Supremo. Diciamo dunque cento volte al giorno ‘grazie’ per tutti i doni che riceviamo”.

CONCLUSIONE

Questa citazione di Chee Soo mi riporta alla mente un vecchio detto massonico, talora trascurato: “Il lavoro del massone non si ferma mai”, che ci ricorda come il rapporto dell’iniziato con il Grande Architetto dell’Universo continui sia nel Tempio che fuori di esso.

Concludo rivolgendo, e non poteva essere diversamente, un ringraziamento, duplice e sentito.

Ringrazio il Fratello che con le sue osservazioni mi ha dato lo spunto per scolpire questa tavola dalla quale mi auguro che tutti i Fratelli possano ricavare utili argomenti di riflessione.

Ringrazio il Grande Architetto dell’Universo che me l’ha ispirata.

TAVOLA SCOLPITA DAL FR.’. E. My,

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OCCULTUM LAPIDEM

La lettura del testamento del Fr.•. Carlo mi ha fatto pensare a come risponderei ora a quelle domande. Pensandoci mi accorgo di avere più difficoltà oggi che una ventina di anni fa quando, come Carlo, ho risposto per la prima volta a queste domande.

Già alla prima domanda, “quali doveri verso il Grande Architetto?” mi fermo per chiedermi se vi siano dei doveri. L’idea di un dovere ha senso se si accetta un Dio che premia o castiga, che definisce regole scritte sulla roccia, che assegna compiti e doveri. Un Giudice Onnipotente capace di resuscitare i morti e di fermare il corso del sole perché il suo Giosuè possa finire la sua battaglia.

Questa è la concezione giudaico cristiana che ci sembra normale ed ovvia per via di una consuetudine di quasi quindici secoli, ma non è Punica possibile. Dio potrebbe anche essere meno coinvolto nelle nostre vicende, potremmo anche essere meno importanti di quello che pensiamo. La morale è un problema umano anche se, forse, è un dono divino per regalarci la possibilità di una convivenza civile. L’osservanza di certe leggi potrebbe riguardare soltanto noi ed essere solo un dovere verso il prossimo.

Così passo alla seconda domanda, ai doveri verso l’Umanità. Questa, forse, è la meno difficile, dalla società riceviamo molto e quindi dobbiamo ricambiare qualcosa. Qui abbiamo sicuramente qualche dovere, “Lavorare al bene ed al progresso dell’Umanità” mi convince anche se per un buddista non sarebbe così scontato.

Il piano della pratica quotidiana, delle azioni concrete, della coerenza personale è sicuramente la controprova che separa lo spazio delle chiacchiere da quello della realtà. La difficoltà in questo campo è il non limitarsi all’azione concreta perdendo il senso dello spirito. La cultura moderna, sostanzialmente materialista, porta a considerare l’azione concreta come l’unica degna di nota relegando la dimensione spirituale al misero livello della superstizione per i semplici e dei sofismi metafisici per i dotti un po’ bizantini.

Non bisogna però dimenticare di chiedersi quali siano le motivazioni che portano ad agire in un certo modo, forse perché ci piace, perché ci fa sentire soddisfatti, per l’ambizione di essere bravi. Sotto il profilo pratico non importa il motivo per cui si compie qualcosa, contano le azioni e basta.

Per chi si prefigge di conoscersi meglio la questione è invece rilevante. 1.2 nostre azioni sono una conseguenza del nostro modo di essere, i doveri verso il prossimo possono essere anche un alibi per nascondere il peso che l’immagine esteriore ha su di noi.

La vita è un palcoscenico in cui gli attori recitano a soggetto seguendo gli umori del pubblico. Essere ed apparire non sono così distinti come sembra. Essere integerrimi ed altruisti può appagare quanto il successo professionale.

Un sistema di doveri ben definito, garantito a priori, è un buon porto in cui ripararsi e sentirsi in pace. La sicurezza psicologica è un bisogno fondamentale come quello del cibo e del sesso, ma non altrettanto riconoscibile.

La chiave di interpretazione dei doveri che sentiamo di avere o che scegliamo di avere non è legata all’Umanità o a regole superiori, ma alla propria individualità, almeno in parte. L’ordine universale del cielo stellato sopra di noi è certamente opera del Grande Architetto, l’ordine morale dentro di noi, l’imperativo categorico, più semplicemente la coscienza, sono di origine certo più complessa.

17

11 lavoro dell ‘Architetto si sovrappone e si confonde con la chimica degli enzimi e degli ormoni che condizionano il nostro cervello e l’interpretazione dei nostri sensi oltre che della percezione dei nostri sensi. Molte volte ci capita di vederci reagire in modi molto diversi a stimoli uguali. La cultura e le circostanze ci plasmano e ci cambiano. Senza alcuna risposta sono già alla terza domanda.

“Conoscersi” credo sia il dovere principale, porsi interrogativi e non solo risposte rassicuranti. Le acque interiori sono torbide, stagnanti in superficie e vorticose un po’ sotto il pelo dell’acqua. Porsi delle domande è come scivolare in un abisso, per continuare la discesa occorre evitare i facili appigli che offrono una sosta rassicurante. La ninfa Calipso offriva ad Ulisse ogni lusinga, persino l’immortalità, pur di convincerlo a fermarsi e ad interrompere il suo viaggio. Guardarsi dentro è come compiere un viaggio nelle viscere della terra.

Gli Inferi sono forse le nostre radici un po’ remote e sepolte. Un viaggio interiore che ci viene proposto all’inizio dell’esperienza iniziatica, nel Gabinetto di riflessione. Un viaggio che non inizia subito, a volte non inizia neppure perché non si trova l’ingresso della caverna. Sovente si arresta, forse si concluderà in un altro Oriente.

Le tre domande sono l’accesso alla caverna da cui si può iniziare la discesa, le risposte banali che ci diamo sono la pietra occulta che nasconde la strada, il tentativo di rispondersi è il cammino. Per le risposte chiedete ad un altro.

TAVOLA DEL FR.’.G. B. Plin,

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CONSIDERAZIONI MASSONICHE SUL LIBRO “ALCHIMIA, SIGNIFICATO E VISIONE DEL MONDO”,

CONSIDERAZIONI MASSONICHE SUL LIBRO “ALCHIMIA, SIGNIFICATO E VISIONE DEL MONDO”, di Titus Burckhardt.

Premessa

Desidero prima di tutto ringraziare il Maestro Venerabile per avermi dato l’opportunità di redigere questa tavola, e per i preziosi suggerimenti e consigli che mi ha fornito in fase di stesura.

Sono altresì grato a tutti Voi, Fratelli carissimi, che mi consentite di esternare il presente lavoro, in questo che mi sento di definire il migliore dei contesti possibili, per un uomo occidentale di oggi. Come solitamente avviene nella stesura di una tavola, il miglior beneficiario è l’estensore stesso. Egli è colui che raccoglie in toto i frutti del suo lavoro; frutti tanto maggiori quanto più grandi saranno Stati il suo impegno, la sua ricerca, I ‘autenticità e la sincerità della sua ispirazione.

Per questi benefici, per la crescita che ne ho ricavato, per le emozioni ineffabili che ho provato nel corso della scolpitura, esprimo la mia gratitudine e riconoscenza nei confronti del Grande Architetto dell’Universo, nel cui Nome ed alla cui Gloria noi ci riuniamo, e subito dopo alla Massoneria Universale, arca e protettrice dell’ultima spiritualità in Occidente.

CONSIDERAZIONI MASSONICHE SUL LIBRO “ALCHIMIA,

SIGNIFICATO E VISIONE DEL MONDO” Dl TITUS BURCKHARDT.

Chi siamo, donde veniamo, dove andiamo?

Questo interrogativo ricorre frequentemente tra le colonne del Tempio ma sembra destinato a rimanere senza risposta …

Non che non esista una letteratura chiarificatrice ed autorevole sull’argomento. Basterebbe andare a consultare le opere che il Fr:. René Guénon ha dedicato alla Massoneria dando ad essa tutto il significato di organizzazione iniziatica che realmente ha, e che viene spesso confuso con quello di società filantropica, o con intenti puramente morali, o altro.

Per altra via, cercherò di rispondere al quesito, passando attraverso quell’antica tradizione scomparsa che è l’Alchimia, in virtù dello strettissimo rapporto di parentela che lega quest’ultima con la nostra Istituzione.

Massoneria e alchimia

Si tratta in entrambi i casi di due vie iniziatiche basate sull’esercizio di un mestiere o di un’arte reale, per cui, pur essendo caratterizzate da due metodi diversi, per quanto riguarda le linee generali, gli scopi che perseguono, principi a cui si ispirano, esse si corrispondono pienamente.

Significativa conferma di ci è data dal fatto che la Massoneria ha accolto nel suo seno quello che rimaneva della tradizione ermetica (ne fanno testo le espressioni di derivazione alchemica nel rituale e nel simbolismo massonico) dando così l’attestazione della reciproca affinità.

La fonte

La fonte a cui ho attinto è il libro “Alchimia” di Titus Burckhardt. L’autore, nato a Firenze ai primi del secolo da una nota ed illustre famiglia di Basilea, è uno studioso di dottrine tradizionali che dimostra di conoscere non con l’ottica di un erudito, ma dall’interno, avvalendosi di una rara capacità interpretativa e di un autentico esoterismo.

Gli estratti che seguono daranno la misura e la portata di questo studioso che mi sento di riconoscere come uno dei pochi, anzi pochissimi, maestri del nostro secolo.

Indice degli argomenti

Che cos’è l’alchimia?

Circa lo stato di perfezione dell’uomo.

I Maestri della tradizione alchemica e la funzione dell’insegnamento.

La tradizione alchemica nei confronti di Dio e della religione. Circa il “segreto iniziatico” Conclusione.

N.B.: le scritte in grassetto sono gli estratti originali del libro.

Che cos’è l’alchimia?

Ecco la spiegazione che ci fornisce Burckhardt a questo proposito:

L’alchimia potrebbe essere definita come l’arte delle trasmutazioni del Panima. Tale definizione non vuole minimamente negare che gli alchimisti abbiano conosciuto e messo in atto procedimenti metallurgici quali la purificazione e la lega dei metalli; ma possiamo comunque dire che il loro più vero intento consisteva nella trasmutazione dell’anima, e che i procedimenti in questione non erano per loro che dei supporti esteriori o dei simboli operativi. La testimonianza degli alchimisti è su questo argomento unanime …” (Capitolo: Natura e linguaggio dell’alchimia).

Come non riconoscere immediatamente la concordanza con il lavoro operativo massonico? Stiamo parlando delle stesse cose, e dello stesso identico ordine di realtà. La Grande Opera degli alchimisti è la stessa cosa del Piano del Grande Architetto dell’Universo. E il caso di aggiungere che mentre un alchimista non è per questo necessariamente massone o libero muratore, il massone operativo è invece necessariamente alchimista . Difatti, come si è visto l’alchimia consiste nella trasmutazioni dell’anima, e queste sono ciò che caratterizza ogni processo iniziatico, in qualsivoglia tempo e paese. Per questa sua universalità l’alchimia ha potuto integrarsi in ogni tradizione completa dal punto di vista esoterico; in questo senso essa è tuttora vivente, e lo sarà fino a quando ci sarà un iniziato a calcare le vie del mondo.

Circa lo stato di perfezione dell’uomo

Interessanti gli spunti sullo stato di perfezione dell’uomo, che sembrano dedicati ai fautori dell’evoluzionismo: “I simboli alchemici della perfezione riguardano la concezione di una natura spirituale della condizione umana, il ritorno verso il suo proprio centro e ciò che le tre grandi religioni monoteiste definiscono riconquista del paradiso terrestre.” ed ancora dal punto di vista del suo significato spirituale, la trasmutazione del piombo in oro à né più né meno che la reintegrazione della natura umana nella sua originaria nobiltà ,

Circa lo stato primordiale dell’uomo, che corrisponde allo stato edenico, a cui fanno riferimento tutte le tradizioni, viene data questa descrizione: ” Si tratta di una perfezione non meno inimitabile dell’oro e l’uomo che è riuscito a realizzarla non può più essere paragonato agli altri esseri umani: ogni cosa in lui è adesso ‘originale’ proprio nel senso che il suo essere è ormai pienamente richiamato in vita e unito al suo principio di origine .

È da notare come qui si affermi e si descriva un grado spirituale che era insito nell’uomo primordiale, che è stato progressivamente perduto, ed il cui ritrovamento è precisamente lo scopo ed il fine dell’iniziazione. La certezza di queste asserzioni contrasta con l’atteggiamento inibitorio del dubbio che ricorre frequentemente tra i Fratelli massoni di oggi, ed è foriera di una calda e mirata operatività.

Certamente l’alchimia (come qualsiasi fonte spirituale e tradizionale) non sarebbe passata alla “storia” e non ci avrebbe trasmesso i suoi insegnamenti se i suoi rappresentanti non avessero posseduto autentiche certezze e conoscenze .

I Maestri della tradizione ermetico alchemica e la funzione dell’insegnamento

Senza voler fare un excursus storico preciso, cosa che esula dai fini del presente lavoro, non sarà inutile rammentare qualcuno dei Maestri che ci hanno tramandato l’insegnamento alchemico e dell’ermetismo.

Al fondatore, riconosciuto unanimemente tale, Hermete Trismegisto, il “tre volte Grande”, la cui origine si fa risalire all’antichità greca, periodo di Alessandro Magno, seguono numerose personalità, tra cui Plotino (203-269 d.c.); Heraclio, Imperatore di Bisanzio (metà del VII secolo d.c.), Morienus fine del VII secolo d.c.), Geber VIII secolo), Basilio Valentino (fine del XV secolo), Filalete (XVII secolo).

Vengono considerati alchimisti dall’autore (non nel senso ufficiale del termine, ma grazie alla qualità e ai contenuti delle loro opere) anche scrittori ispirati come Dante Alighieri e William Shakespeare.

Massonicamente mi sento di affermare che queste personalità hanno cooperato nel migliore dei modi per “il bene ed il progresso dell’umanità”.

La funzione di Maestro è fortemente misconosciuta nel mondo profano di oggi, in cui al concetto di autorità (spirituale) si vuole sostituire quello di eguaglianza, negando i diversi livelli intellettuali che esistono, di fatto, tra gli esseri umani. In realtà, quale più nobile ed elevato scopo dell’esercitate un’influenza spirituale e svolgere una funzione di guida e di insegnamento, dal momento che tutti i mali del mondo non sono che il frutto dell’ignoranza?

E chi, se non una organizzazione iniziatica può svolgere questo ruolo, attraverso i suoi Maestri, come è avvenuto con l’alchimia e con tutte le tradizioni del passato? [1]

La tradizione alchemica nei confronti di Dio e della religione

L’autore tocca degli argomenti che sono di estrema attualità. Ecco come si esprime a questo proposito Geber . ‘ . non ho mai rivestito di allegorie o di enigmi l’opera alchemica, ma sempre l’ho trattata in termini chiari e intelligibili, e descritta in tutta sincerità: così come so che essa esiste, così come io stesso l’ho appresa per ispirazione dell’altissimo, gloriosissimo e lodevolissimo nostro Dio, che si è degnato di rivelarmela; Lui, che è il solo a poterla dare a colui che ha scelto c a poterla togliere non appena gli piace …”

Una decisiva chiarificazione a riguardo ci fornisce Burckhardt stesso nel capitolo “le origini dell’alchimia occidentale”: “Converrà chiarire a questo punto, e in maniera categorica, che non può esistere un’alchimia di ‘liberi pensatori’ ostili alla religione, perché la prima necessità di un’arte spirituale consiste nel riconoscere tutto ciò di cui abbisogna la condizione umana – nella sua preminenza, ma anche nella sua precarietà – per raggiungere la propria salvezza Per quanto riguarda le verità più o meno inaccessibili all’antichità precristiana, e che  il cristianesimo si è incaricato di svelare, l’alchimia avrebbe potuto rifiutare di accoglierle nel proprio corpo solo a patto di decretare la propria fine” (potrebbe valere questo come avvertimento anche per la moderna Massoneria, là dove c’è qualche tendenza a pensare che si potrebbe fare a meno della divinità?).

“Errore ancora più grave sarebbe quello di vedere nell’alchimia una religione autosufficiente o un paganesimo più o meno mascherato: un atteggiamento di questo tipo rischierebbe di paralizzare la giusta tensione verso il raggiungimento del magistero interiore. Pur essendo indubbiamente vero che ‘Lo Spirito soffia dove vuole’ e che non è possibile dall’esterno porre dei limiti dogmatici alla sua manifestazione, è altrettanto vero che quello stesso Spirito non può certo ‘soffiare’ là dove, in sé (lo Spirito Santo), si trova scientemente negato in una delle sue rivelazioni.”

Non certo casuale è la concordanza con le nostre costituzioni del 1723 in cui viene affermato che “un massone non può essere un ateo stupido o un libertino irreligioso”!

Da rimarcare altresì l’atteggiamento del punto di vista iniziatico nei confronti della religione (il Cristianesimo non è qui citato che a titolo di puro esempio) il quale punto di vista oltre ad affermare l’esistenza di Dio, e quindi implicitamente la necessità della fede, riconosce la funzione della religione quale imprescindibile mezzo di salvezza. Questo dovrebbe far capire in maniera netta che tra la sfera e quella esoterica di una tradizione, restando il rapporto di superiorità della seconda rispetto alla prima, non deve sussistere opposizione, ma complementarismo.

Circa il “segreto iniziatico”

La sorprendente attualità degli argomenti continua con il “segreto iniziatico”. Scrive l’autore: “L’arte regale presuppone un’intelligenza fuori del comune e una particolare disposizione dello spirito; in assenza di queste due condizioni, la pratica di questo tipo può anche presentare un certo numero di pericoli.”

Scrive l’alchimista medievale Artefio: “Non sapete che la nostra è un’arte cabalistica? Voglio dire che è un’arte che si trasmette solo di bocca in bocca, ed è piena di misteri. E voi poveri stolti, davvero sareste così ingenui da illudervi di poter cogliere dalle nostre labbra, esplicitamente e chiaramente, il più grande e il più importante dei segreti; davvero così ingenui da prendere le nostre alla lettera

E Sinesio, vissuto probabilmente nel IV secolo: “I veri alchimisti si esprimono esclusivamente per simboli, metafore ed immagini, affinché solo i santi, i saggi e le anime illuminate possano capirli”.

E Geber da parte mia insegnerò il nostro Magistero in modo tale che nulla ne sia nascosto ai Saggi, pur senza cessare di essere oscuro agli spiriti mediocri. Quanto agli stupidi e ai folli, non potranno capirci niente …”.

Conclusione

Mi auguro con la presente tavola di avere dato un valido contributo per rispondere alla domanda “chi siamo, donde veniamo, dove andiamo?” e di aver suscitato nei Fratelli degli utili spunti di riflessione.

Consiglio, a chi volesse approfondire l’argomento, la lettura del libro di Burckhardt, edito da U. Guanda – Parma

TAVOLA DEL FR.’. E. My,


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UN GIORNO IN CLASSE

Un giorno in classe

“Ma prof. Questa è una vera friendzone!”

Il cuore della vecchia studiosa ha un sobbalzo, sto per urlare, poi l’insegnante vince e l’abitudine a lavorare con quello che c’è, per trasformarlo in insegnamento, ha il sopravvento:

“Morgan, io non so cosa vuol dire friendzone: puoi provare a spiegare quello che intendi a una persona di un’altra generazione? Quando parli in questa classe, devi usare parole che tutti possano capire. In questo caso chi non conosce sono io”

“Dunque prof la friendzone c’è quando uno è innamorato e non è corrisposto, lui vorrebbe fidanzarsi ma lei vuole restare solo un’amica. Nel caso di Dante è anche peggio, perché lui sta malissimo, è innamorato perso: sviene, fa gli incubi, non riesce più a parlare, vive questo amore tutto nascosto. Insomma, un disastro e lei nemmeno gli è amica, al massimo lo saluta. E a un certo punto nemmeno quello.”

Sorrido, Morgan ha portato Dante nel suo mondo, ora il mio compito è guidare i miei studenti di seconda media nel suo.

La biografia di Dante

I preadolescenti hanno una vera passione per la biografia e per l’aneddoto: alla storia che si muove per macrofenomeni, cause e conseguenze, preferiscono quella minuta degli eventi e dei personaggi. Credo che ciò derivi dal gusto ancora bambino per la miniaturizzazione, per l’esplorare le vicende dalla A alla zeta, per l’evento inaspettato e facile da ricordare, per la narrazione concreta. Nel caso di Dante poi la sua opera è così intimamente legata alla sua vita che non posso evitare di raccontarla, senza dimenticare che esplorarne la biografia mi permette di marcare la distanza con lui e di spiegare come si vivesse a quel tempo.

So bene che il rischio dell’attualizzazione e di romanzare la vicenda è dietro l’angolo, ma sono ben convinta di correrlo perché a dodici anni la magia della narrazione può essere dirimente per lo studio: avranno tutta la vita per diventare filologi e spaccarsi la testa su ricostruire il testo vero, per ora mi accontento di esplorare con loro dati, immagini, testi e di trarre delle conclusioni. Il percorso che qui presento è durato da ottobre a dicembre per circa undici ore di lezione.

Primo percorso: Firenze doloroso ostello

I primi tre versi con cui ho presentato Dante sono stati:

    I’ fui nato e cresciuto sovra’l bel fiume d’Arno a la gran villa (Inf. XXIII-94-95)

    O gloriose stelle/ […] quand’io senti’ di prima l’aere tosco; (Pd XXII, 112-117)

    I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando (Pg XXIV 52-54)

Per scelta li metto da subito al cospetto del fiorentino del Trecento: balza ai loro occhi che si tratta di una lingua diversa da quella che parliamo adesso, ma non così lontana da essere incomprensibile. Dante ci dice di essere nato a Firenze, città costruita sul fiume Arno: grazie a Google earth siamo andati a scoprire dove si trova questa città e come è fatta oggi. Abbiamo provato a ricostruire come fosse al tempo di Dante partendo da questa domanda: cosa vuol dire il poeta quando ci dice

    Fiorenza dentro da la cerchia antica,

    ond’ ella toglie ancora e terza e nona,

    si stava in pace, sobria e pudica.  (Par. XV, 97-99)?

Grazie alle mappe antiche abbiamo scoperto che Firenze aveva avuto diverse cerchie di mura, segno che negli anni si era ingrandita fino ad arrivare a 40000 abitanti, che i quartieri erano suddivisi fra arti e mestieri (come a Istanbul, mi dice Enes), che le strade e i vicoli erano stretti, che c’erano case e torri ma che popolani e nobili abitavano negli stessi quartieri. Ho mostrato loro una mappa odierna di Firenze e cancellato gli edifici che non c’erano ancora perché come scrive Santagata La Firenze di Dante è una città medievale: un intrico di vie strette, di case di pietra e di legno addossate le une alle altre, un insieme disordinato di abitazioni, fondaci, botteghe e magazzini, intervallati qual e là da orti, vigneti e giardini. Le chiese sono numerose ma piccole: le torri numerosissime e a volte di dimensioni notevoli.

Grazie alla facilità con cui nell’era d’internet si possono reperire le immagini, abbiamo confrontato la grandezza e maestosità di Santa Maria Novella con la chiesa di Santa Maria dei Cerchi, frequentata, forse, da Dante e con il battistero di San Giovanni dove il poeta salvò un bambino che stava per annegare. Questa è stata l’occasione per ragionare con loro su come fossero le funzioni religiose nel Trecento, sulla loro valenza sociale e sul perché Dante racconti di aver incontrato Beatrice per la terza volta proprio lì: le celebrazioni erano moto lunghe, uomini e donne restavano separati, ma era, comunque, una delle poche occasioni pubbliche per vedersi e incontrarsi.

Sulla presunta casa di Dante ho detto poche parole, ma ha fornito loro l’idea di come fosse una casa medievale e come vi abitasse una famiglia non troppo ricca: la presenza o meno di una camera ad uso personale di Dante, il numero delle persone di servizio, la suddivisione e gli usi degli spazi.

Dante è un poeta reale

Dalla città abbiamo dunque ristretto il cerchio al nostro autore nato nel 1265 sotto il segno dei gemelli; questa annotazione apparentemente banale mi è servita per mostrare ai ragazzi come l’astrologia nel Medioevo non fosse “l’oroscopo sui giornali” ma qualcosa di più profondo: si riteneva, infatti, che i cieli e le stelle avessero una reale influenza sulle vicende umane. Quando Dante ci parla della costellazione dei Gemelli, celebra quelle stelle pregno di gran virtù, dal quale io riconosco tutto,qual che sia, lo mio ingegno (Pd, XXII, 112-114): nella tradizione astrologica questa costellazione trasmette il dono della parola, del comunicare, dello scrivere, della capacità di linguaggio e quindi del poetare.

Insomma, un destino per lui già scritto nelle stelle: ed è poi quello che gli dice Brunetto Latini quando afferma se tu segui tua stella non puoi fallire a glorioso porto (Inf. XV, 55-56)

I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando (Pg XXIV 52-54) è una terzina che i miei studenti hanno studiato a memoria nella quale Dante afferma di vivere costantemente con Amore che lo ispira o meglio gli impone cosa dire (ditta dentro) mentre lui cerca di interpretare il suo messaggio.

Nel Trattatello in laude di Dante, Boccaccio ci racconta di un sogno fatto dalla madre:

    “Pareva alla gentil donna nel suo sonno essere sotto uno altissimo alloro, sopra uno verde prato, allato ad una chiarissima fonte, e quivi si sentia partorire  uno figliuolo, il quale in brevissimo tempo, nutricandosi solo delle orbache, le  quali dello alloro cadevano, e delle onde della chiara fonte, le parea che divenisse  un pastore, e s’ingegnasse a suo potere d’avere delle fronde dell’albero, il cui frutto  l’avea nudrito; e, a ciò sforzandosi, le parea vederlo cadere, e nel rilevarsi non  uomo più, ma uno paone il vedea divenuto. II,3

In una prima fase abbiamo trasportato il testo in italiano corrente: ho suddiviso il periodo in frasi semplici e le abbiamo affrontate una ad una, decodificando il messaggio a partire dal lessico e dalla sintassi. E’ indubbio che l’aiuto del docente è qui necessario e insostituibile, ho provato a chiedere loro: cosa non capite? La traduzione di quale parola avete bisogno? E da lì sono partita a spiegare. Frase per frase hanno poi riscritto sul quaderno la traduzione e l’abbiamo commentata insieme.

In seguito ho decodificato i simboli e reso chiaro il messaggio di Boccaccio, poi ho chiesto loro di illustrare il testo nel modo più fedele possibile, con didascalie esplicative.

A questo punto è stato loro evidente che Dante fosse un poeta che sa di essere straordinario e come tale è stato riconosciuto dagli altri letterati, a me, però, interessava renderlo il più reale possibile: dargli un volto e un corpo. Attraverso la ricostruzione del cranio conservata a Ravenna, fatta dal paleontologo Francesco Mallegni nel 2007, abbiamo scoperto che Dante era di statura media 1,64-1,65 cm, di struttura longilinea, aveva le spalle spioventi e un’artrite anchilosante che lo faceva camminare curvo; la testa aveva un cranio molto grande, la fronte spaziosa, il viso allungato, gli occhi grandi, il naso aquilino e gli zigomi sporgenti.

E, manco a dirlo, da questa descrizione oggettiva sono nati bellissimi ritratti del poeta.

Dante ci racconta la sua storia d’amore

Solitamente alla scuola secondaria di primo grado la Vita nova si salta a piè pari o, al più, la si accenna nell’elenco delle opere: io, invece, l’ho letta in classe, limitandomi agli aspetti autobiografici che potessero far presa sui ragazzi e, partendo da questi, ho iniziato a spiegare l’universo di Dante. Ho letto i brani scelti come se li scoprissimo insieme per la prima volta, senza alcuna indicazione di poetica o di contesto: abbiamo ricostruito cosa succedeva, chi faceva cosa e perché e quali conseguenze avessero le azioni. Solo in un secondo momento abbiamo provato a decodificare il testo: credo da sempre che la chiave per qualsiasi interpretazione sia conoscere il testo, quello che dice a noi e che siamo pronti a comprendere. L’interpretazione è una costruzione costante di significati che ha senso solo se il lettore vi partecipa attivamente. Dalla lettura dei capitoli II e III ci è apparsa immediata l’importanza data da Dante ai colori: Beatrice appare per la prima volta vestita di rosso, umile e onesto, poi dopo altri nove anni è vestita di colore bianchissimo, la nebula su cui giunge Amore nel sogno è colore di fuoco e sanguigno è anche il drappo che ricopre Beatrice mentre dorme nuda tra le braccia di Amore. Ci siamo dunque domandati il senso di queste note cromatiche: ho ragionato con loro di come nel mondo medievale i colori da indossare rispettassero un preciso codice ma, se a loro era chiaro il legame rosso/amore, ho dovuto spiegare il concetto cristiano di carità e il significato dei colori nei paramenti sacri.

Lo stesso è successo per il numero 9: a loro è stato subito evidente che non potesse essere un numero a caso, vista la ricorrenza con Beatrice, il mio intervento è stato a provare a spiegare cosa si intenda per Trinità e perché per Dante fosse così importante il legame tra il 3, potenza di 9, e la donna amata. Abbiamo poi analizzato gli epiteti con cui Dante la nomina, a partire da Beatrice nome omen (fu chiamata da molti Beatrice li quali non sapeano che si chiamare), gloriosa donna, mirabile donna, la mia beatitudine, questa benedetta: sono tutti termini che appartengono alla sfera religiosa e sono usati anche per Dio.

Con ragazzi così piccoli come i miei, inseriti in un mondo secolarizzato come il nostro, per capire Dante è necessario riprendere concetti teologici e religiosi: alla fine del nostro cammino nella vita nova non è parso loro assurdo un capitolo finale in cui Dante dichiari di non scrivere più fino a quando non sarà degno di lei che mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus (Prof. l’ultima parola è benedetto, ha la stessa radice di Beatrice? Mi ha chiesto Sara.)

Certamente, gli episodi che hanno più colpito i ragazzi sono quelli in cui fosse più facile identificarsi o in cui la forza dell’amore apparisse più dirompente: il sogno in cui Beatrice mangia il cuore e la richiesta di aiuto e chiarimenti agli amici (fatta in poesia, perché quella era la lingua di Dante), il catalogo delle donne fiorentine, lo svenimento al matrimonio, le donne dello schermo, la malattia di Dante e il sogno della morte dell’amata. Mi ha molto colpito il “noo” accorato che ha accolto la lettura dell’incipit del capitolo XXVIII: ho iniziato la lezione dicendo “oggi scopriremo cosa succede l’8 giugno 1290”. Ho poi spiegato che Dante apre questo capitolo con la citazione in latino di un versetto di Geremia, un profeta che avrebbe preconizzato sventure e dolore per Israele: al tempo di Dante il latino era la lingua della chiesa e dei testi sacri. La città piena di gente, di tutte quelle persone che guardavano a Beatrice come a un essere venuto dal cielo alla terra per mostrare il miracolo di Dio, è ora vuota e triste ed è quasi vedova, priva di qualcuno che la riempisse di senso. Beatrice è morta.

Sono rimasti ammutoliti anche i miei 25 dodicenni.

Tanto gentile e tanto onesta pare

1. La spiegazione del docente:il contesto e l’occasione di scrittura

Non potevamo non misurarci con la poesia più famosa della letteratura italiana tanto gentile e tanto onesta pare, sonetto del capitolo XXVI della Vita Nova.

Ci siamo arrivati dopo alcuni capitoli di lettura della vita Nova: ai ragazzi erano quindi piuttosto chiari il contesto e l’occasione di scrittura, che io ho riassunto e ribadito, spiegando perché Dante sceglie la poesia e il genere del prosimetron.

2. la decodifica linguistica del testo

Per prima cosa ho letto il testo ad alta voce in classe e chiesto loro quali parole li colpissero e cosa avessero provato. Poi siamo andati a caccia nel testo e abbiamo suddiviso le espressioni in tre colonne: significato al tempo di Dante, significato per Dante, significato oggi. Ad esempio “pare” che per noi oggi vuol dire sembra, al tempo di Dante era appare, con la forze di una vera epifania; oppure il significato di “gentile” così diverso tra noi (educato e generoso nei modi) e il Trecento (nobile di sangue), ma anche così ambivalente in Dante (nobile di spirito, non necessariamente di schiatta, ma non in tutte le opere è così).

Tutta questa riflessione linguistica è stata la base per riscrivere il testo in italiano contemporaneo, cercando di essere fedeli al testo e al suo contesto.

3. Discussione in classe e commento

Una volta che il significato del testo è stato chiaro, li ho invitati a commentarlo. Tutti hanno sottolineato la dolcezza delle parole, l’effetto generato dalle rime, i suoni leggeri e dolci che rispecchiano la straordinarietà dell’amore provato: questa poesia riesce a farci vedere Beatrice come qualcosa di divino di cui Dante si è innamorato, la sua ammirazione è così grande che ci è sprofondato dentro (Giovanni); in questa poesia si capisce bene che per Dante la sola felicità è Beatrice (Asad), Beatrice anche con un gesto semplice come uno sguardo migliora la vita delle persone (Anita). Non sono mancate, però, le critiche: La poesia mi è piaciuta: è dolce e delicata ma ha provocato in me qualche perplessità perché l’idea che Dante ha della donna non è molto realistica, sembra che abbia delle qualità magiche che la rendono intoccabile (Anita). Questa poesia mi ha fatto pensare alla bellezza di Beatrice che è troppo perfetta e noiosa (Federico), Questa poesia è troppo sdolcinata, una ragazza così non esiste (Neumann).

4. Dal testo a un altro testo

A questo punto ho chiesto loro di studiare il sonetto a memoria e di trasformarlo in un altro testo: un’illustrazione e la recitazione ad alta voce, accompagnate entrambe da una pagina di spiegazione sulle scelte fatte. Come fa ad esempio Giorgia, accompagnando la sua lettura:

Ho scelto di leggere i primi due versi ponendo l’accento sulle parole gentile ed onesta perché mi sembrano le più importanti. Ho lasciato una pausa dopo “pare”, perché mi sono immaginata il poeta che resta come sospeso dopo aver visto Beatrice e ho scelto di pronunciare velocemente “la donna mia” perché ho immaginato che si vergogni di dirlo.

Dante politico

Affrontare la dimensione politica di Dante non è stato più semplice della sua storia amorosa: “Ma come, oltre a poeta era anche politico?”. E poi: quale lavoro faceva? Come si guadagnava da vivere? Perché decide di fare il priore? Perché non ha fatto il professore? Perché ci sono tutti questi scontri a Firenze?

Per mostrare meglio la situazione della Firenze del tempo ho raccontato loro la storia di Geri del Bello, cugino di Dante, ucciso da uno della famiglia Sacchetti, ghibellino. Dante lo incontra nelle Malebolge, tra i seminatori di discordie, Geri lo minaccia col dito e il poeta spiega a Virgilio le motivazioni di questa minaccia: nessuno della sua famiglia ha ancora vendicato la sua morte.

Siamo dunque di fronte a una società piena di tensioni, violenta, vendicativa, in cui era possibile essere ucciso per uno sguardo di troppo: a un ragazzo nato nella prima decade degli anni duemila Guelfi e Ghibellini dicono nulla, ma le dinamiche di potere, sopraffazione e violenza possono essere facilmente ricostruite.

Ho raccontato gli episodi di violenza che portarono i priori a scegliere di mandare in esilio le più importanti famiglie di Firenze (1/05/1300 un gruppo di giovani della casata Donati assalta un gruppo della famiglia Cerchi, 23/06/1300 un gruppo di Magnati aggredisce e bastona i consoli delle Arti), per mostrare ai ragazzi come si trattasse di una decisione necessaria, ma da cui dipese tutto il resto della vita di Dante.

Sulla figura di Bonifacio VIII e di Corso Donati (che ho identificato come i nemici di Dante) non ho volutamente offerto un’immagine oggettiva, ma mi sono affidata a quello che di loro dice il poeta nella Commedia.

La parola “esilio” è per i miei ragazzi priva di significato, per questo la sfida vera è stata far capire loro cosa significasse concretamente: la povertà, la perdita dei beni, la divisione dalla famiglia e dagli amici, la continua ricerca di mecenati che lo ospitassero gratuitamente, correndo il rischio di inimicarsi Firenze, e la difficoltà a spostarsi sulle strade dell’Italia medievale.

La possibilità di amnistia del 1315 ha suscitato un bel dibattito in classe, guidato da queste tre domande: quale significato ha il rito che chiede il Comune per il perdono? Che cosa avrebbe significato per Dante? Perché Dante rifiuta? Voi cosa avreste fatto?

Ci siamo poi mossi sulla carta geografica dell’Italia del tempo provando a ripercorrere le tappe; la storia della vita di Dante non poteva che concludersi con l’immagine del cenotafio a santa Croce e della tomba di Ravenna.

L’attualizzazione: due parole in conclusione

E’ naturale che per comprendere meglio si sposti nel presente ciò che è lontano nel tempo, ecco perché i miei studenti tendono a rimettere Dante nelle loro categorie sociali e culturali. Il mio compito di docente è mediare e cercare di portare Dante in classe nel modo più fedele possibile: ecco perché dopo la spiegazione della friendzone da parte di Morgan ho mostrato loro quando diverso fosse il rapporto tra Dante e Beatrice. Entrambi sposati, come era naturale fosse e senza drammi, vivono due vite diverse: l’amore di Dante è tutto nella sua testa (probabile che Beatrice nemmeno se ne fosse accorta) ed è un filo che lo conduce a Dio. Il senso della figura di Beatrice è nella sua morte, non è un caso che in cima al Purgatorio sarà proprio questo che la donna recriminerà al poeta: nel momento in cui più avrebbe dovuto avvicinarsi a Dio, dopo la sua morte, se ne allontana, rivolgendo lo sguardo al mondo e non al cielo.

La descrizione delle opposte fazioni di Firenze, invece, ha spinto i miei studenti a proporre un’analogia con le gang che si spartiscono il territorio nei quartieri periferici delle grandi città: anche in questo caso ho provato a mostrare loro le differenze. I bianchi e neri nascono nel contesto dei grandi magnati, le gang metropolitane nelle fasce popolari, li accomuna la violenza certamente, ma hanno diverse implicazioni politiche e così via.

Che i ragazzi trovino connessioni con altri testi e con la contemporaneità è importantissimo: significa che il testo sta agendo in loro e che diventa lettera viva, l’incontro con un docente che li affianca e guida è quello che permette loro, però, di non perdere la bussola e di avventurarsi nelle selve dell’interpretazione senza perdersi.

Noi intanto siamo pronti per la Commedia.

Bibliografia

Giampaolo Dossena Dante, Longanesi, 1995

Marco Santagata Il romanzo della sua vita, Mondadori le scie, 2012

Giorgio Inglese Vita di Dante, una biografia possibile, Carocci, 2018

Alessandro Barbero Dante, Laterza, 2020

Aberto Casadei Dante, Il Saggiatore, 2020

    Barbero, Casadei, Dante, Divina Commedia, Marco Santagata

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L’ULTIMO ATTO DELLA COMMEDIA UMANA: L’USCITA DI SCENA

Ultimo atto della commedia umana: l’uscita di scena

Paradossalmente nella vita di ciascuno di noi, pur essendo la Morte l’evento che tutti, dopo piuttosto che prima, dovremo comunque ed inesorabilmente sperimentare, è, al contempo, l’unico evento verso il quale non viene dedicata né la giusta attenzione, né tanto meno è apprestata la necessaria preparazione.

Questa riflessione mi coglie frequentemente quando nelle mie funzioni di cerimoniere al Tempio Crematorio colgo commenti espressi da amici e conoscenti del defunto ed a lui riferiti di questo tenore “Così giovane e nel pieno delle forze! La sua agenda era ricca di impegni! I suoi programmi prevedevano grandi cose! Pensa che solo l’altro ieri aveva pianificato le sue vacanze! Ecc. ecc.”

La meraviglia e lo sbigottimento che vengono così espressi, a me, a cui la Morte, sia pure degli altri ma soprattutto di estranei, rappresenta una quotidianità routinaria, provoca un bonario sorriso.

E da questa premessa che avvio le mie considerazioni sulla morte cercando di osservarla evidentemente con un tocco di ironia professionale ma anche con una sana curiosità intellettuale.

Innanzi tutto perché tanta avversione verso questo evento?

La prima domanda banale è: perché le viene attribuito un valore nefasto? Siamo infatti educati a considerare la Vita il Bene massimo e la Morte il massimo dei mali, come l’oscuro e non accettabile termine della Vita.

E proprio questa valutazione esasperatamente assolutistica che mi rende perplesso e molto critico a prendere per buone “tout court” le loro definizioni

In una realtà, quella nostra, dove l’unico principio assoluto è il relativo, io non mi sento di accettare incondizionatamente l’assioma “vita – buona, morte – cattiva” al di fuori di corretti riferimenti.

Un diverso atteggiamento mi fa riandare alla storiella, già raccontata in un intervento anni fa del Fr.’. Fabrizio Clnn, di quel contadino con due figli che un bel giorno perdette un suo cavallo scappato dalla stalla. I vicini lo compiangevano: “sei stato ben sfortunato a perdere un si bel cavallo”. Al che il contadino rispondeva: “sarà una sfortuna o una fortuna ?” I due figli, messisi alla ricerca del cavallo, ne trovarono due forti e belli anche se selvaggi. Saputa la notizia, i vicini si congratularono con il vecchio contadino: “Sei stato fortunato a trovare questi due bei cavalli”. Al che il vecchio rispondeva : “sarà una fortuna o una sfortuna?” Nel domare i due cavalli selvaggi uno dei due figli cadde e si storpiò una gamba. Al che i soliti vicini commentarono: “sei stato sfortunato ad avere un forte e bravo figliolo azzoppato per colpa di quei due cavalli trovati”. Al che il vecchio rispondeva: “sarà una sfortuna o una fortuna?”

Nel frattempo scoppiò la guerra e solo il figliolo sano dovette andarci trovandovi la morte, mentre l’altro menomato sopravvisse. A questo punto la storia potrebbe andare all ‘infinito: “sarà una fortuna o una sfortuna?”

Non sapremo quindi mai cosa è il male in assoluto né tantomeno potremo identificarlo con la morte. Dunque, se tutto è relativo e se il relativo si associa al soggettivo, anche il bene ed il male si dovranno interpretare in chiave soggettiva. Per cui ciò che è un bene per me potrebbe non esserlo altrettanto per un altro.

L’uomo è un essere per lo meno contraddittorio. È divorato da una parte dal desiderio e dalla volontà di conoscere il mondo che lo circonda e d’altro canto non sa applicare i risultati delle sue speculazioni e della sua ricerca scientifica alla realtà che lo riguarda direttamente; è cioè riluttante a derivarne le logiche conseguenze su se stesso, visto quale creatura di questo mondo.

Egli ha scoperto i seguenti principi, vale a dire leggi universali ed eterne, mai contraddette dall’esperienza:

  1. il principio del dualismo che dice che di ogni fenomeno esistono due aspetti antitetici ( freddo-caldo, giorno-notte, bello-brutto, vita-morte);
  2. il principio della ciclicità di ogni fenomeno; esso cioè si ripete periodicamente col rinnovarsi periodico delle condizioni necessarie alla sua produzione;
  3. il principio della conservazione dell’energia: nulla si crea nulla si distrugge, tutto si trasforma;
  4. il principio della dinamicità: niente è fermo, tutto scorre;

f) il principio della reversibilità: non esistono cioè nella materia fenomeni irreversibili in senso assoluto.

Se l’uomo si considera, e non può essere diversamente, un essere che fa parte della natura, perché non dovrebbe riconoscersi in quelle leggi che egli riconosce appieno per la natura degli altri esseri viventi? Forse perché egli rifiuta irrazionalmente di accettare per se stesso quelle leggi che scopre valide invece per il mondo esterno dell’universo che lo circonda?

L’uomo, unica creatura della natura, rifiuta di assoggettarsi alla natura ed alle sue leggi. Dunque in un mondo dove tutto nasce e muore, l’uomo “presuntuosamente ed orgogliosamente” aspira all’eternità. Da dove gli verrà mai questo assurdo bisogno di eternità quando egli invece constata che tutto è immerso nel divenire, proviene cioè dal nulla per ritornare al nulla?

Proviamo a sondare meglio questo assurdo. Sulla base delle conoscenze biologiche definiamo l’uomo un essere vivente, animale vertebrato, della classe dei mammiferi, dell’ordine dei primati, della famiglia degli ominidi, del genere Homo che, ad un certo punto, si arricchisce di un’ultima straordinaria e rivoluzionaria qualificazione, “sapiens”, che lo rende unico differenziandolo da ogni altra manifestazione di vita.

Che cosa mai vorrà dire se non che l’uomo è l’unica manifestazione vivente in grado di autopensarsi, capace cioè di esistere con consapevolezza.

Qualcuno, (credo Theilard de Chardin), ha detto che la coscienza dorme nei minerali, sogna nei vegetali, si risveglia negli animali ed è finalmente desta nell’uomo.

Ma cosa significherà mai quest’incidente che ha trasformato una macchina costituita da trenta miliardi di cellule controllate e procreate da un sistema genetico che si è evoluto come tutte le altre forme di manifestazioni esistenti in natura lungo due miliardi di anni , capace, unico tra tutte le specie, di pensare?

Che sia proprio questa capacità di autocoscienza a trasformare nell’uomo la tendenza all’autoconservazione, propria di tutti gli esseri viventi, vegetali ed animali, nel bisogno assoluto dell’eternità?

Dopo una lunga riflessione credo di poter tracciare, sull’immenso e spinoso argomento, un’ampia linea di demarcazione tra due distinti atteggiamenti nel percepire la Morte.

Da un canto la Morte, nella sua accezione più nobile, è la coscienza della propria fine, che accompagna l’uomo lungo tutto l’arco della sua vita; verrà meno proprio col cessare della vita. E un sentimento causa di una continua meditazione che, sotto il profilo della speculazione filosofica, investirà l’essere umano ed il suo divenire. Lo stesso sentimento, se filtrato dalla fede ovvero permeato da volontà di ricerca esoterica, apre la speranza ad una vita trascendente.

L’altro modo di intendere la Morte è quello di considerarlo evento, cioè un accadimento più o meno significativo nel corso dell‘incessante divenire della natura; la Morte cioè è percepita come fatto naturale inteso in senso oggettivo, cioè come evento necessario proprio di tutti gli esseri viventi, una sorta di entropia dell’umanità; come tale essa è estranea ed esterna all’osservatore.

Ebbene è esattamente della Morte dell’uomo, quale evento oggettivato, su cui io intendo intrattenervi rimandando ad altra occasione l’esposizione della mia “personale” meditazione sulla rappresentazione filosofica ed escatologica della stessa.

A tal fine riporterò alcuni dei tanti episodi, cui ho presenziato in esecuzione de 11a mia attività professionale, che a me sono parsi particolarmente interessanti.

I O EPISODIO

La vedova e le sue due figlie, al termine del funerale del loro padre, mi riferirono, favorite da un mio approccio di rispettosa partecipazione al loro lutto, le circostanze della morte del congiunto, ritenute da esse degne di essere riferite come ricche di insegnamento.

ln breve, la madre, moglie separata da anni con proprio domicilio, fu invitata dall’ex marito a trascorrere in sua esclusiva compagnia le festività natalizie in una sua casa al mare. Essendo le due figlie, l’una sposata e residente in Spagna e l’altra in giro per proprio conto, l’invito, dopo un momento di stupore, fu accettato. Era l’occasione di condividere momentaneamente, da parte di due solitudini, la circostanza delle feste tradizionali di fine anno.

Al termine di questa breve vacanza, rientrando a casa propria, l’ex marito, chiusa l’auto nel garage, ne consegnava le chiavi alla ex moglie e le rivelava di essere affetto da grave forma tumorale che non gli avrebbe dato scampo e che si sarebbe evoluta rapidissimamente con esito letale entro un paio di mesi.

La previsione risultò esatta e nell’approssimarsi dell’evento la ex moglie, che nel frattempo era tornata a convivere con l’uomo per meglio assisterlo, informò la figlia residente in Spagna dell’urgenza di raggiungerli a Torino per rendere un ultimo saluto al padre morente. Il giorno dopo, di pomeriggio, le condizioni si aggravarono al punto che l’uomo disse alla due donne a lui vicine che era giunto il suo momento e quindi intendeva salutarle per l’ultima volta. Al che queste l’avvertirono che l’altra figlia sarebbe giunta solo il giorno successivo e che quindi si facesse forza ad aspettarla.

Preso atto della richiesta, l’uomo rispose che avrebbe pazientato solo fino al pomeriggio del giorno successivo. Arrivata la figlia, il padre si accomiatò da lei e, con un ultimo saluto alle altre due donne, con puntualità spirò.

20 EPISODIO

Una signora cinquantenne, di modesta condizione culturale, espresse rabbia mista a dolore al momento della presentazione dell’urna contenente le ceneri del marito; mi sorprese la sua veemenza. Solo dopo un attimo di sconcerto capii che la rabbia era stata causata dallo scoprire i risultati della cremazione; i circa tre litri di volume di cenere, contenute nell’urna, non rendevano adeguata giustizia alla magnifica complessione fisica del marito (alto m. 1,90 e del peso di 100 Kg, come la moglie ebbe a precisare), che da vivo le aveva procurato vanto ed orgoglio.

3 0 EPISODIO

Un caso a parte rappresenta il commiato reso al defunto dalla sua amante. Normalmente viene operato con la discrezione necessaria, di cui mi rendo complice, con visita concessa “a latere” della ufficialità.

Eccezionalmente avviene che l’amante donna, che per buon gusto non presenzia mai alla pubblica funzione, sia citata dalla vedova consorte nelle frasi di saluto che essa porge alle spoglie del marito infedele quando l’infedeltà sia notoria; la vedova in realtà è costretta a riconoscere pubblicamente il fatto e la persona, anche se con l’aria di chi comprende e perdona.

4 0 EPISODIO

Un signore settantenne, nell’accompagnare le ceneri della moglie alla celletta dove l’urna sarebbe stata collocata, avendo già provveduto a prenotare quella a fianco per sé, mormorò a fior di labbra: “ti raggiungerò al più presto”. Non tanto la frase, quanto la forte determinazione con cui era stata espressa, mi scosse. Impressionato, intervenni con parole di circostanza che mi parvero subito inascoltate.

Due mesi dopo l’uomo moriva per raggiungere la celletta a fianco della moglie. I figli, cui chiesi notizie circa la malattia del padre, che ricordavo giovanile ed aitante, mi risposero che non era risultata una causa patologica identificata come tale; essi addebitavano la morte ad una lucida scelta del padre dopo la scomparsa della moglie.

5 0 EPISODIO

Una famiglia, di buon livello per censo e cultura, ramificata in più generazioni, era presente compatta alle esequie della propria nonna, più volte promossa al grado di “bis”.

Alcuni giovani nipoti ed un pronipote decenne si alternarono in brevi interventi. Tutti sottolinearono l’aspetto caratteristico di un “certo suo stile di vita”, fatto di moralità non getta, di saggezza antica, di equilibrio rispettoso della propria e dell’altrui libertà e di vivacità intellettiva. Era descritto come la vera eredità lasciata dalla nonna ai propri genitori e che essi si impegnavano, a loro volta, a trasmettere integralmente ai propri discendenti.

60 EPISODIO

Una signora nubile, docente in pensione di grammatica latina alla facoltà di lettere, ultima esponente di una famiglia di antica tradizione cremazionista, la cui parentela risiede già da lungo tempo in un’area della zona storica del Tempio, mi chiese che fossero tolti tutti i vasetti portafiori dalle cellette dei congiunti; ella non poteva più garantirne per il futuro la cura.

Mi spiegò la ragione della sua richiesta: la mancanza di cure nella tenuta dei vasetti, dopo la sua scomparsa, avrebbe reso desolate le cellette ad uso perpetuo; ne sarebbe derivata una immagine di disordine, offensiva per il ricordo della sua famiglia.

Al di fuori di episodi tipici, si ripresenta una vasta gamma di comportamenti ricorrenti. Mi riferisco alle manifestazioni di fede politica che più volte ho dovuto gestire nelle loro rappresentazioni più o meno pittoresche nella Sala del Commiato.

L’improvviso scuotersi all’unisono delle braccia tese con le mani serrate a pugno o rigidamente aperte (unico visivo segno distintivo di opposte ideologie); i comandi urlati in tono militaresco; brani musicali evocanti militanze in opposti schieramenti. Tutto ciò muove i presenti alle forti emozioni della passione politica, che travalica la vita del defunto e la rende eterna.

I bambini piccoli ai funerali sdrammatizzano l’evento al punto di muovere al sorriso molti dei presenti. La loro spontaneità e freschezza toglie alla circostanza il senso della finitezza del luogo e lo sostituisce con una concreta speranza di rinnovamento dell’umanità. Ho idea che nei bambini la morte, di cui conoscono il significato più immediato del distacco, nonostante il diverso parere degli adulti, la debbano interpretare come una sorta di gioco a mosca-cieca, cioè un allontanamento non definitivo del defunto.

Di contro quanto penosa appare la parodia del dolore di certi parenti che con un’aria tutta compunta si schierano ai lati opposti della bara come per prendere posizione di battaglia fra loro. Con una gamma vasta di atteggiamenti intermedi si colgono diffidenze, rancori, ostilità, che scaturiscono dai veri o presunti torti subiti. Visi lacrimanti che si induriscono non appena gli sguardi incrociano, oltre la bara, quelli dei parenti; bocche composte al massimo rispetto che si trasformano improvvisamente in ghigni di sfida. In questi casi ho il mio buon da fare per prevenire improvvisi scoppi d’ira con scambi di insulti.

Ho offerto alle vostre riflessioni queste vicende umane concrete. Potrete derivarne le osservazioni a voi più congeniali; io mi limito a proporvi su di esse le mie succinte impressioni.

La morte-evento, a parer mio, è sostanzialmente rifiutato da tutti: il meccanismo utilizzato è quello della fuga in avanti. Intendo cioè affermare che l’evento morte è immediatamente archiviato nella sfera psicologica dell’uomo moderno. Nel passato infatti, in un mondo non ancora insuperbito dal progresso scientifico e fortemente permeato di partecipazione, la morte era accettata nella sua quotidiana presenza, come l’alternarsi delle stagioni, le malattie, le guerre, le carestie, le intemperie.

Oggi al suo posto appaiono, per bocca di parenti ed amici, vicende del passato ( rievocazioni di fatti significativi nel vissuto del defunto), ovvero osservazioni di valore pratico sulle procedure operative (richieste specifiche di vario tipo, da urgenze o posticipazioni per la tumulazione a richieste di specifici brani musicali da diffondere nella circostanza del saluto alla salma) che rimandano alla normalità degli atti della vita. Si cerca di ottenere appunto l’effetto di “normalizzare” l’evento morte, rimuovendolo dalle coscienze per diluirlo nella più tranquillante quotidianità.

TAVOLA SCOLPITA DAL FR.’. S. Lppls,

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