UN GIORNO IN CLASSE

Un giorno in classe

“Ma prof. Questa è una vera friendzone!”

Il cuore della vecchia studiosa ha un sobbalzo, sto per urlare, poi l’insegnante vince e l’abitudine a lavorare con quello che c’è, per trasformarlo in insegnamento, ha il sopravvento:

“Morgan, io non so cosa vuol dire friendzone: puoi provare a spiegare quello che intendi a una persona di un’altra generazione? Quando parli in questa classe, devi usare parole che tutti possano capire. In questo caso chi non conosce sono io”

“Dunque prof la friendzone c’è quando uno è innamorato e non è corrisposto, lui vorrebbe fidanzarsi ma lei vuole restare solo un’amica. Nel caso di Dante è anche peggio, perché lui sta malissimo, è innamorato perso: sviene, fa gli incubi, non riesce più a parlare, vive questo amore tutto nascosto. Insomma, un disastro e lei nemmeno gli è amica, al massimo lo saluta. E a un certo punto nemmeno quello.”

Sorrido, Morgan ha portato Dante nel suo mondo, ora il mio compito è guidare i miei studenti di seconda media nel suo.

La biografia di Dante

I preadolescenti hanno una vera passione per la biografia e per l’aneddoto: alla storia che si muove per macrofenomeni, cause e conseguenze, preferiscono quella minuta degli eventi e dei personaggi. Credo che ciò derivi dal gusto ancora bambino per la miniaturizzazione, per l’esplorare le vicende dalla A alla zeta, per l’evento inaspettato e facile da ricordare, per la narrazione concreta. Nel caso di Dante poi la sua opera è così intimamente legata alla sua vita che non posso evitare di raccontarla, senza dimenticare che esplorarne la biografia mi permette di marcare la distanza con lui e di spiegare come si vivesse a quel tempo.

So bene che il rischio dell’attualizzazione e di romanzare la vicenda è dietro l’angolo, ma sono ben convinta di correrlo perché a dodici anni la magia della narrazione può essere dirimente per lo studio: avranno tutta la vita per diventare filologi e spaccarsi la testa su ricostruire il testo vero, per ora mi accontento di esplorare con loro dati, immagini, testi e di trarre delle conclusioni. Il percorso che qui presento è durato da ottobre a dicembre per circa undici ore di lezione.

Primo percorso: Firenze doloroso ostello

I primi tre versi con cui ho presentato Dante sono stati:

    I’ fui nato e cresciuto sovra’l bel fiume d’Arno a la gran villa (Inf. XXIII-94-95)

    O gloriose stelle/ […] quand’io senti’ di prima l’aere tosco; (Pd XXII, 112-117)

    I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando (Pg XXIV 52-54)

Per scelta li metto da subito al cospetto del fiorentino del Trecento: balza ai loro occhi che si tratta di una lingua diversa da quella che parliamo adesso, ma non così lontana da essere incomprensibile. Dante ci dice di essere nato a Firenze, città costruita sul fiume Arno: grazie a Google earth siamo andati a scoprire dove si trova questa città e come è fatta oggi. Abbiamo provato a ricostruire come fosse al tempo di Dante partendo da questa domanda: cosa vuol dire il poeta quando ci dice

    Fiorenza dentro da la cerchia antica,

    ond’ ella toglie ancora e terza e nona,

    si stava in pace, sobria e pudica.  (Par. XV, 97-99)?

Grazie alle mappe antiche abbiamo scoperto che Firenze aveva avuto diverse cerchie di mura, segno che negli anni si era ingrandita fino ad arrivare a 40000 abitanti, che i quartieri erano suddivisi fra arti e mestieri (come a Istanbul, mi dice Enes), che le strade e i vicoli erano stretti, che c’erano case e torri ma che popolani e nobili abitavano negli stessi quartieri. Ho mostrato loro una mappa odierna di Firenze e cancellato gli edifici che non c’erano ancora perché come scrive Santagata La Firenze di Dante è una città medievale: un intrico di vie strette, di case di pietra e di legno addossate le une alle altre, un insieme disordinato di abitazioni, fondaci, botteghe e magazzini, intervallati qual e là da orti, vigneti e giardini. Le chiese sono numerose ma piccole: le torri numerosissime e a volte di dimensioni notevoli.

Grazie alla facilità con cui nell’era d’internet si possono reperire le immagini, abbiamo confrontato la grandezza e maestosità di Santa Maria Novella con la chiesa di Santa Maria dei Cerchi, frequentata, forse, da Dante e con il battistero di San Giovanni dove il poeta salvò un bambino che stava per annegare. Questa è stata l’occasione per ragionare con loro su come fossero le funzioni religiose nel Trecento, sulla loro valenza sociale e sul perché Dante racconti di aver incontrato Beatrice per la terza volta proprio lì: le celebrazioni erano moto lunghe, uomini e donne restavano separati, ma era, comunque, una delle poche occasioni pubbliche per vedersi e incontrarsi.

Sulla presunta casa di Dante ho detto poche parole, ma ha fornito loro l’idea di come fosse una casa medievale e come vi abitasse una famiglia non troppo ricca: la presenza o meno di una camera ad uso personale di Dante, il numero delle persone di servizio, la suddivisione e gli usi degli spazi.

Dante è un poeta reale

Dalla città abbiamo dunque ristretto il cerchio al nostro autore nato nel 1265 sotto il segno dei gemelli; questa annotazione apparentemente banale mi è servita per mostrare ai ragazzi come l’astrologia nel Medioevo non fosse “l’oroscopo sui giornali” ma qualcosa di più profondo: si riteneva, infatti, che i cieli e le stelle avessero una reale influenza sulle vicende umane. Quando Dante ci parla della costellazione dei Gemelli, celebra quelle stelle pregno di gran virtù, dal quale io riconosco tutto,qual che sia, lo mio ingegno (Pd, XXII, 112-114): nella tradizione astrologica questa costellazione trasmette il dono della parola, del comunicare, dello scrivere, della capacità di linguaggio e quindi del poetare.

Insomma, un destino per lui già scritto nelle stelle: ed è poi quello che gli dice Brunetto Latini quando afferma se tu segui tua stella non puoi fallire a glorioso porto (Inf. XV, 55-56)

I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando (Pg XXIV 52-54) è una terzina che i miei studenti hanno studiato a memoria nella quale Dante afferma di vivere costantemente con Amore che lo ispira o meglio gli impone cosa dire (ditta dentro) mentre lui cerca di interpretare il suo messaggio.

Nel Trattatello in laude di Dante, Boccaccio ci racconta di un sogno fatto dalla madre:

    “Pareva alla gentil donna nel suo sonno essere sotto uno altissimo alloro, sopra uno verde prato, allato ad una chiarissima fonte, e quivi si sentia partorire  uno figliuolo, il quale in brevissimo tempo, nutricandosi solo delle orbache, le  quali dello alloro cadevano, e delle onde della chiara fonte, le parea che divenisse  un pastore, e s’ingegnasse a suo potere d’avere delle fronde dell’albero, il cui frutto  l’avea nudrito; e, a ciò sforzandosi, le parea vederlo cadere, e nel rilevarsi non  uomo più, ma uno paone il vedea divenuto. II,3

In una prima fase abbiamo trasportato il testo in italiano corrente: ho suddiviso il periodo in frasi semplici e le abbiamo affrontate una ad una, decodificando il messaggio a partire dal lessico e dalla sintassi. E’ indubbio che l’aiuto del docente è qui necessario e insostituibile, ho provato a chiedere loro: cosa non capite? La traduzione di quale parola avete bisogno? E da lì sono partita a spiegare. Frase per frase hanno poi riscritto sul quaderno la traduzione e l’abbiamo commentata insieme.

In seguito ho decodificato i simboli e reso chiaro il messaggio di Boccaccio, poi ho chiesto loro di illustrare il testo nel modo più fedele possibile, con didascalie esplicative.

A questo punto è stato loro evidente che Dante fosse un poeta che sa di essere straordinario e come tale è stato riconosciuto dagli altri letterati, a me, però, interessava renderlo il più reale possibile: dargli un volto e un corpo. Attraverso la ricostruzione del cranio conservata a Ravenna, fatta dal paleontologo Francesco Mallegni nel 2007, abbiamo scoperto che Dante era di statura media 1,64-1,65 cm, di struttura longilinea, aveva le spalle spioventi e un’artrite anchilosante che lo faceva camminare curvo; la testa aveva un cranio molto grande, la fronte spaziosa, il viso allungato, gli occhi grandi, il naso aquilino e gli zigomi sporgenti.

E, manco a dirlo, da questa descrizione oggettiva sono nati bellissimi ritratti del poeta.

Dante ci racconta la sua storia d’amore

Solitamente alla scuola secondaria di primo grado la Vita nova si salta a piè pari o, al più, la si accenna nell’elenco delle opere: io, invece, l’ho letta in classe, limitandomi agli aspetti autobiografici che potessero far presa sui ragazzi e, partendo da questi, ho iniziato a spiegare l’universo di Dante. Ho letto i brani scelti come se li scoprissimo insieme per la prima volta, senza alcuna indicazione di poetica o di contesto: abbiamo ricostruito cosa succedeva, chi faceva cosa e perché e quali conseguenze avessero le azioni. Solo in un secondo momento abbiamo provato a decodificare il testo: credo da sempre che la chiave per qualsiasi interpretazione sia conoscere il testo, quello che dice a noi e che siamo pronti a comprendere. L’interpretazione è una costruzione costante di significati che ha senso solo se il lettore vi partecipa attivamente. Dalla lettura dei capitoli II e III ci è apparsa immediata l’importanza data da Dante ai colori: Beatrice appare per la prima volta vestita di rosso, umile e onesto, poi dopo altri nove anni è vestita di colore bianchissimo, la nebula su cui giunge Amore nel sogno è colore di fuoco e sanguigno è anche il drappo che ricopre Beatrice mentre dorme nuda tra le braccia di Amore. Ci siamo dunque domandati il senso di queste note cromatiche: ho ragionato con loro di come nel mondo medievale i colori da indossare rispettassero un preciso codice ma, se a loro era chiaro il legame rosso/amore, ho dovuto spiegare il concetto cristiano di carità e il significato dei colori nei paramenti sacri.

Lo stesso è successo per il numero 9: a loro è stato subito evidente che non potesse essere un numero a caso, vista la ricorrenza con Beatrice, il mio intervento è stato a provare a spiegare cosa si intenda per Trinità e perché per Dante fosse così importante il legame tra il 3, potenza di 9, e la donna amata. Abbiamo poi analizzato gli epiteti con cui Dante la nomina, a partire da Beatrice nome omen (fu chiamata da molti Beatrice li quali non sapeano che si chiamare), gloriosa donna, mirabile donna, la mia beatitudine, questa benedetta: sono tutti termini che appartengono alla sfera religiosa e sono usati anche per Dio.

Con ragazzi così piccoli come i miei, inseriti in un mondo secolarizzato come il nostro, per capire Dante è necessario riprendere concetti teologici e religiosi: alla fine del nostro cammino nella vita nova non è parso loro assurdo un capitolo finale in cui Dante dichiari di non scrivere più fino a quando non sarà degno di lei che mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus (Prof. l’ultima parola è benedetto, ha la stessa radice di Beatrice? Mi ha chiesto Sara.)

Certamente, gli episodi che hanno più colpito i ragazzi sono quelli in cui fosse più facile identificarsi o in cui la forza dell’amore apparisse più dirompente: il sogno in cui Beatrice mangia il cuore e la richiesta di aiuto e chiarimenti agli amici (fatta in poesia, perché quella era la lingua di Dante), il catalogo delle donne fiorentine, lo svenimento al matrimonio, le donne dello schermo, la malattia di Dante e il sogno della morte dell’amata. Mi ha molto colpito il “noo” accorato che ha accolto la lettura dell’incipit del capitolo XXVIII: ho iniziato la lezione dicendo “oggi scopriremo cosa succede l’8 giugno 1290”. Ho poi spiegato che Dante apre questo capitolo con la citazione in latino di un versetto di Geremia, un profeta che avrebbe preconizzato sventure e dolore per Israele: al tempo di Dante il latino era la lingua della chiesa e dei testi sacri. La città piena di gente, di tutte quelle persone che guardavano a Beatrice come a un essere venuto dal cielo alla terra per mostrare il miracolo di Dio, è ora vuota e triste ed è quasi vedova, priva di qualcuno che la riempisse di senso. Beatrice è morta.

Sono rimasti ammutoliti anche i miei 25 dodicenni.

Tanto gentile e tanto onesta pare

1. La spiegazione del docente:il contesto e l’occasione di scrittura

Non potevamo non misurarci con la poesia più famosa della letteratura italiana tanto gentile e tanto onesta pare, sonetto del capitolo XXVI della Vita Nova.

Ci siamo arrivati dopo alcuni capitoli di lettura della vita Nova: ai ragazzi erano quindi piuttosto chiari il contesto e l’occasione di scrittura, che io ho riassunto e ribadito, spiegando perché Dante sceglie la poesia e il genere del prosimetron.

2. la decodifica linguistica del testo

Per prima cosa ho letto il testo ad alta voce in classe e chiesto loro quali parole li colpissero e cosa avessero provato. Poi siamo andati a caccia nel testo e abbiamo suddiviso le espressioni in tre colonne: significato al tempo di Dante, significato per Dante, significato oggi. Ad esempio “pare” che per noi oggi vuol dire sembra, al tempo di Dante era appare, con la forze di una vera epifania; oppure il significato di “gentile” così diverso tra noi (educato e generoso nei modi) e il Trecento (nobile di sangue), ma anche così ambivalente in Dante (nobile di spirito, non necessariamente di schiatta, ma non in tutte le opere è così).

Tutta questa riflessione linguistica è stata la base per riscrivere il testo in italiano contemporaneo, cercando di essere fedeli al testo e al suo contesto.

3. Discussione in classe e commento

Una volta che il significato del testo è stato chiaro, li ho invitati a commentarlo. Tutti hanno sottolineato la dolcezza delle parole, l’effetto generato dalle rime, i suoni leggeri e dolci che rispecchiano la straordinarietà dell’amore provato: questa poesia riesce a farci vedere Beatrice come qualcosa di divino di cui Dante si è innamorato, la sua ammirazione è così grande che ci è sprofondato dentro (Giovanni); in questa poesia si capisce bene che per Dante la sola felicità è Beatrice (Asad), Beatrice anche con un gesto semplice come uno sguardo migliora la vita delle persone (Anita). Non sono mancate, però, le critiche: La poesia mi è piaciuta: è dolce e delicata ma ha provocato in me qualche perplessità perché l’idea che Dante ha della donna non è molto realistica, sembra che abbia delle qualità magiche che la rendono intoccabile (Anita). Questa poesia mi ha fatto pensare alla bellezza di Beatrice che è troppo perfetta e noiosa (Federico), Questa poesia è troppo sdolcinata, una ragazza così non esiste (Neumann).

4. Dal testo a un altro testo

A questo punto ho chiesto loro di studiare il sonetto a memoria e di trasformarlo in un altro testo: un’illustrazione e la recitazione ad alta voce, accompagnate entrambe da una pagina di spiegazione sulle scelte fatte. Come fa ad esempio Giorgia, accompagnando la sua lettura:

Ho scelto di leggere i primi due versi ponendo l’accento sulle parole gentile ed onesta perché mi sembrano le più importanti. Ho lasciato una pausa dopo “pare”, perché mi sono immaginata il poeta che resta come sospeso dopo aver visto Beatrice e ho scelto di pronunciare velocemente “la donna mia” perché ho immaginato che si vergogni di dirlo.

Dante politico

Affrontare la dimensione politica di Dante non è stato più semplice della sua storia amorosa: “Ma come, oltre a poeta era anche politico?”. E poi: quale lavoro faceva? Come si guadagnava da vivere? Perché decide di fare il priore? Perché non ha fatto il professore? Perché ci sono tutti questi scontri a Firenze?

Per mostrare meglio la situazione della Firenze del tempo ho raccontato loro la storia di Geri del Bello, cugino di Dante, ucciso da uno della famiglia Sacchetti, ghibellino. Dante lo incontra nelle Malebolge, tra i seminatori di discordie, Geri lo minaccia col dito e il poeta spiega a Virgilio le motivazioni di questa minaccia: nessuno della sua famiglia ha ancora vendicato la sua morte.

Siamo dunque di fronte a una società piena di tensioni, violenta, vendicativa, in cui era possibile essere ucciso per uno sguardo di troppo: a un ragazzo nato nella prima decade degli anni duemila Guelfi e Ghibellini dicono nulla, ma le dinamiche di potere, sopraffazione e violenza possono essere facilmente ricostruite.

Ho raccontato gli episodi di violenza che portarono i priori a scegliere di mandare in esilio le più importanti famiglie di Firenze (1/05/1300 un gruppo di giovani della casata Donati assalta un gruppo della famiglia Cerchi, 23/06/1300 un gruppo di Magnati aggredisce e bastona i consoli delle Arti), per mostrare ai ragazzi come si trattasse di una decisione necessaria, ma da cui dipese tutto il resto della vita di Dante.

Sulla figura di Bonifacio VIII e di Corso Donati (che ho identificato come i nemici di Dante) non ho volutamente offerto un’immagine oggettiva, ma mi sono affidata a quello che di loro dice il poeta nella Commedia.

La parola “esilio” è per i miei ragazzi priva di significato, per questo la sfida vera è stata far capire loro cosa significasse concretamente: la povertà, la perdita dei beni, la divisione dalla famiglia e dagli amici, la continua ricerca di mecenati che lo ospitassero gratuitamente, correndo il rischio di inimicarsi Firenze, e la difficoltà a spostarsi sulle strade dell’Italia medievale.

La possibilità di amnistia del 1315 ha suscitato un bel dibattito in classe, guidato da queste tre domande: quale significato ha il rito che chiede il Comune per il perdono? Che cosa avrebbe significato per Dante? Perché Dante rifiuta? Voi cosa avreste fatto?

Ci siamo poi mossi sulla carta geografica dell’Italia del tempo provando a ripercorrere le tappe; la storia della vita di Dante non poteva che concludersi con l’immagine del cenotafio a santa Croce e della tomba di Ravenna.

L’attualizzazione: due parole in conclusione

E’ naturale che per comprendere meglio si sposti nel presente ciò che è lontano nel tempo, ecco perché i miei studenti tendono a rimettere Dante nelle loro categorie sociali e culturali. Il mio compito di docente è mediare e cercare di portare Dante in classe nel modo più fedele possibile: ecco perché dopo la spiegazione della friendzone da parte di Morgan ho mostrato loro quando diverso fosse il rapporto tra Dante e Beatrice. Entrambi sposati, come era naturale fosse e senza drammi, vivono due vite diverse: l’amore di Dante è tutto nella sua testa (probabile che Beatrice nemmeno se ne fosse accorta) ed è un filo che lo conduce a Dio. Il senso della figura di Beatrice è nella sua morte, non è un caso che in cima al Purgatorio sarà proprio questo che la donna recriminerà al poeta: nel momento in cui più avrebbe dovuto avvicinarsi a Dio, dopo la sua morte, se ne allontana, rivolgendo lo sguardo al mondo e non al cielo.

La descrizione delle opposte fazioni di Firenze, invece, ha spinto i miei studenti a proporre un’analogia con le gang che si spartiscono il territorio nei quartieri periferici delle grandi città: anche in questo caso ho provato a mostrare loro le differenze. I bianchi e neri nascono nel contesto dei grandi magnati, le gang metropolitane nelle fasce popolari, li accomuna la violenza certamente, ma hanno diverse implicazioni politiche e così via.

Che i ragazzi trovino connessioni con altri testi e con la contemporaneità è importantissimo: significa che il testo sta agendo in loro e che diventa lettera viva, l’incontro con un docente che li affianca e guida è quello che permette loro, però, di non perdere la bussola e di avventurarsi nelle selve dell’interpretazione senza perdersi.

Noi intanto siamo pronti per la Commedia.

Bibliografia

Giampaolo Dossena Dante, Longanesi, 1995

Marco Santagata Il romanzo della sua vita, Mondadori le scie, 2012

Giorgio Inglese Vita di Dante, una biografia possibile, Carocci, 2018

Alessandro Barbero Dante, Laterza, 2020

Aberto Casadei Dante, Il Saggiatore, 2020

    Barbero, Casadei, Dante, Divina Commedia, Marco Santagata

Articoli correlati

    Raccontare Dante a chi non conosce Dante

    Dante, la psicoanalisi e i diavoli dell’inferno

    Il soprannaturale letterario di Francesco Orlando

    Teorie e metodi/3. Aria fresca e pulita. Su Il poeta innamorato di Marco Santagata     Un anno all’inferno/2. Un percorso

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

L’ULTIMO ATTO DELLA COMMEDIA UMANA: L’USCITA DI SCENA

Ultimo atto della commedia umana: l’uscita di scena

Paradossalmente nella vita di ciascuno di noi, pur essendo la Morte l’evento che tutti, dopo piuttosto che prima, dovremo comunque ed inesorabilmente sperimentare, è, al contempo, l’unico evento verso il quale non viene dedicata né la giusta attenzione, né tanto meno è apprestata la necessaria preparazione.

Questa riflessione mi coglie frequentemente quando nelle mie funzioni di cerimoniere al Tempio Crematorio colgo commenti espressi da amici e conoscenti del defunto ed a lui riferiti di questo tenore “Così giovane e nel pieno delle forze! La sua agenda era ricca di impegni! I suoi programmi prevedevano grandi cose! Pensa che solo l’altro ieri aveva pianificato le sue vacanze! Ecc. ecc.”

La meraviglia e lo sbigottimento che vengono così espressi, a me, a cui la Morte, sia pure degli altri ma soprattutto di estranei, rappresenta una quotidianità routinaria, provoca un bonario sorriso.

E da questa premessa che avvio le mie considerazioni sulla morte cercando di osservarla evidentemente con un tocco di ironia professionale ma anche con una sana curiosità intellettuale.

Innanzi tutto perché tanta avversione verso questo evento?

La prima domanda banale è: perché le viene attribuito un valore nefasto? Siamo infatti educati a considerare la Vita il Bene massimo e la Morte il massimo dei mali, come l’oscuro e non accettabile termine della Vita.

E proprio questa valutazione esasperatamente assolutistica che mi rende perplesso e molto critico a prendere per buone “tout court” le loro definizioni

In una realtà, quella nostra, dove l’unico principio assoluto è il relativo, io non mi sento di accettare incondizionatamente l’assioma “vita – buona, morte – cattiva” al di fuori di corretti riferimenti.

Un diverso atteggiamento mi fa riandare alla storiella, già raccontata in un intervento anni fa del Fr.’. Fabrizio Clnn, di quel contadino con due figli che un bel giorno perdette un suo cavallo scappato dalla stalla. I vicini lo compiangevano: “sei stato ben sfortunato a perdere un si bel cavallo”. Al che il contadino rispondeva: “sarà una sfortuna o una fortuna ?” I due figli, messisi alla ricerca del cavallo, ne trovarono due forti e belli anche se selvaggi. Saputa la notizia, i vicini si congratularono con il vecchio contadino: “Sei stato fortunato a trovare questi due bei cavalli”. Al che il vecchio rispondeva : “sarà una fortuna o una sfortuna?” Nel domare i due cavalli selvaggi uno dei due figli cadde e si storpiò una gamba. Al che i soliti vicini commentarono: “sei stato sfortunato ad avere un forte e bravo figliolo azzoppato per colpa di quei due cavalli trovati”. Al che il vecchio rispondeva: “sarà una sfortuna o una fortuna?”

Nel frattempo scoppiò la guerra e solo il figliolo sano dovette andarci trovandovi la morte, mentre l’altro menomato sopravvisse. A questo punto la storia potrebbe andare all ‘infinito: “sarà una fortuna o una sfortuna?”

Non sapremo quindi mai cosa è il male in assoluto né tantomeno potremo identificarlo con la morte. Dunque, se tutto è relativo e se il relativo si associa al soggettivo, anche il bene ed il male si dovranno interpretare in chiave soggettiva. Per cui ciò che è un bene per me potrebbe non esserlo altrettanto per un altro.

L’uomo è un essere per lo meno contraddittorio. È divorato da una parte dal desiderio e dalla volontà di conoscere il mondo che lo circonda e d’altro canto non sa applicare i risultati delle sue speculazioni e della sua ricerca scientifica alla realtà che lo riguarda direttamente; è cioè riluttante a derivarne le logiche conseguenze su se stesso, visto quale creatura di questo mondo.

Egli ha scoperto i seguenti principi, vale a dire leggi universali ed eterne, mai contraddette dall’esperienza:

  1. il principio del dualismo che dice che di ogni fenomeno esistono due aspetti antitetici ( freddo-caldo, giorno-notte, bello-brutto, vita-morte);
  2. il principio della ciclicità di ogni fenomeno; esso cioè si ripete periodicamente col rinnovarsi periodico delle condizioni necessarie alla sua produzione;
  3. il principio della conservazione dell’energia: nulla si crea nulla si distrugge, tutto si trasforma;
  4. il principio della dinamicità: niente è fermo, tutto scorre;

f) il principio della reversibilità: non esistono cioè nella materia fenomeni irreversibili in senso assoluto.

Se l’uomo si considera, e non può essere diversamente, un essere che fa parte della natura, perché non dovrebbe riconoscersi in quelle leggi che egli riconosce appieno per la natura degli altri esseri viventi? Forse perché egli rifiuta irrazionalmente di accettare per se stesso quelle leggi che scopre valide invece per il mondo esterno dell’universo che lo circonda?

L’uomo, unica creatura della natura, rifiuta di assoggettarsi alla natura ed alle sue leggi. Dunque in un mondo dove tutto nasce e muore, l’uomo “presuntuosamente ed orgogliosamente” aspira all’eternità. Da dove gli verrà mai questo assurdo bisogno di eternità quando egli invece constata che tutto è immerso nel divenire, proviene cioè dal nulla per ritornare al nulla?

Proviamo a sondare meglio questo assurdo. Sulla base delle conoscenze biologiche definiamo l’uomo un essere vivente, animale vertebrato, della classe dei mammiferi, dell’ordine dei primati, della famiglia degli ominidi, del genere Homo che, ad un certo punto, si arricchisce di un’ultima straordinaria e rivoluzionaria qualificazione, “sapiens”, che lo rende unico differenziandolo da ogni altra manifestazione di vita.

Che cosa mai vorrà dire se non che l’uomo è l’unica manifestazione vivente in grado di autopensarsi, capace cioè di esistere con consapevolezza.

Qualcuno, (credo Theilard de Chardin), ha detto che la coscienza dorme nei minerali, sogna nei vegetali, si risveglia negli animali ed è finalmente desta nell’uomo.

Ma cosa significherà mai quest’incidente che ha trasformato una macchina costituita da trenta miliardi di cellule controllate e procreate da un sistema genetico che si è evoluto come tutte le altre forme di manifestazioni esistenti in natura lungo due miliardi di anni , capace, unico tra tutte le specie, di pensare?

Che sia proprio questa capacità di autocoscienza a trasformare nell’uomo la tendenza all’autoconservazione, propria di tutti gli esseri viventi, vegetali ed animali, nel bisogno assoluto dell’eternità?

Dopo una lunga riflessione credo di poter tracciare, sull’immenso e spinoso argomento, un’ampia linea di demarcazione tra due distinti atteggiamenti nel percepire la Morte.

Da un canto la Morte, nella sua accezione più nobile, è la coscienza della propria fine, che accompagna l’uomo lungo tutto l’arco della sua vita; verrà meno proprio col cessare della vita. E un sentimento causa di una continua meditazione che, sotto il profilo della speculazione filosofica, investirà l’essere umano ed il suo divenire. Lo stesso sentimento, se filtrato dalla fede ovvero permeato da volontà di ricerca esoterica, apre la speranza ad una vita trascendente.

L’altro modo di intendere la Morte è quello di considerarlo evento, cioè un accadimento più o meno significativo nel corso dell‘incessante divenire della natura; la Morte cioè è percepita come fatto naturale inteso in senso oggettivo, cioè come evento necessario proprio di tutti gli esseri viventi, una sorta di entropia dell’umanità; come tale essa è estranea ed esterna all’osservatore.

Ebbene è esattamente della Morte dell’uomo, quale evento oggettivato, su cui io intendo intrattenervi rimandando ad altra occasione l’esposizione della mia “personale” meditazione sulla rappresentazione filosofica ed escatologica della stessa.

A tal fine riporterò alcuni dei tanti episodi, cui ho presenziato in esecuzione de 11a mia attività professionale, che a me sono parsi particolarmente interessanti.

I O EPISODIO

La vedova e le sue due figlie, al termine del funerale del loro padre, mi riferirono, favorite da un mio approccio di rispettosa partecipazione al loro lutto, le circostanze della morte del congiunto, ritenute da esse degne di essere riferite come ricche di insegnamento.

ln breve, la madre, moglie separata da anni con proprio domicilio, fu invitata dall’ex marito a trascorrere in sua esclusiva compagnia le festività natalizie in una sua casa al mare. Essendo le due figlie, l’una sposata e residente in Spagna e l’altra in giro per proprio conto, l’invito, dopo un momento di stupore, fu accettato. Era l’occasione di condividere momentaneamente, da parte di due solitudini, la circostanza delle feste tradizionali di fine anno.

Al termine di questa breve vacanza, rientrando a casa propria, l’ex marito, chiusa l’auto nel garage, ne consegnava le chiavi alla ex moglie e le rivelava di essere affetto da grave forma tumorale che non gli avrebbe dato scampo e che si sarebbe evoluta rapidissimamente con esito letale entro un paio di mesi.

La previsione risultò esatta e nell’approssimarsi dell’evento la ex moglie, che nel frattempo era tornata a convivere con l’uomo per meglio assisterlo, informò la figlia residente in Spagna dell’urgenza di raggiungerli a Torino per rendere un ultimo saluto al padre morente. Il giorno dopo, di pomeriggio, le condizioni si aggravarono al punto che l’uomo disse alla due donne a lui vicine che era giunto il suo momento e quindi intendeva salutarle per l’ultima volta. Al che queste l’avvertirono che l’altra figlia sarebbe giunta solo il giorno successivo e che quindi si facesse forza ad aspettarla.

Preso atto della richiesta, l’uomo rispose che avrebbe pazientato solo fino al pomeriggio del giorno successivo. Arrivata la figlia, il padre si accomiatò da lei e, con un ultimo saluto alle altre due donne, con puntualità spirò.

20 EPISODIO

Una signora cinquantenne, di modesta condizione culturale, espresse rabbia mista a dolore al momento della presentazione dell’urna contenente le ceneri del marito; mi sorprese la sua veemenza. Solo dopo un attimo di sconcerto capii che la rabbia era stata causata dallo scoprire i risultati della cremazione; i circa tre litri di volume di cenere, contenute nell’urna, non rendevano adeguata giustizia alla magnifica complessione fisica del marito (alto m. 1,90 e del peso di 100 Kg, come la moglie ebbe a precisare), che da vivo le aveva procurato vanto ed orgoglio.

3 0 EPISODIO

Un caso a parte rappresenta il commiato reso al defunto dalla sua amante. Normalmente viene operato con la discrezione necessaria, di cui mi rendo complice, con visita concessa “a latere” della ufficialità.

Eccezionalmente avviene che l’amante donna, che per buon gusto non presenzia mai alla pubblica funzione, sia citata dalla vedova consorte nelle frasi di saluto che essa porge alle spoglie del marito infedele quando l’infedeltà sia notoria; la vedova in realtà è costretta a riconoscere pubblicamente il fatto e la persona, anche se con l’aria di chi comprende e perdona.

4 0 EPISODIO

Un signore settantenne, nell’accompagnare le ceneri della moglie alla celletta dove l’urna sarebbe stata collocata, avendo già provveduto a prenotare quella a fianco per sé, mormorò a fior di labbra: “ti raggiungerò al più presto”. Non tanto la frase, quanto la forte determinazione con cui era stata espressa, mi scosse. Impressionato, intervenni con parole di circostanza che mi parvero subito inascoltate.

Due mesi dopo l’uomo moriva per raggiungere la celletta a fianco della moglie. I figli, cui chiesi notizie circa la malattia del padre, che ricordavo giovanile ed aitante, mi risposero che non era risultata una causa patologica identificata come tale; essi addebitavano la morte ad una lucida scelta del padre dopo la scomparsa della moglie.

5 0 EPISODIO

Una famiglia, di buon livello per censo e cultura, ramificata in più generazioni, era presente compatta alle esequie della propria nonna, più volte promossa al grado di “bis”.

Alcuni giovani nipoti ed un pronipote decenne si alternarono in brevi interventi. Tutti sottolinearono l’aspetto caratteristico di un “certo suo stile di vita”, fatto di moralità non getta, di saggezza antica, di equilibrio rispettoso della propria e dell’altrui libertà e di vivacità intellettiva. Era descritto come la vera eredità lasciata dalla nonna ai propri genitori e che essi si impegnavano, a loro volta, a trasmettere integralmente ai propri discendenti.

60 EPISODIO

Una signora nubile, docente in pensione di grammatica latina alla facoltà di lettere, ultima esponente di una famiglia di antica tradizione cremazionista, la cui parentela risiede già da lungo tempo in un’area della zona storica del Tempio, mi chiese che fossero tolti tutti i vasetti portafiori dalle cellette dei congiunti; ella non poteva più garantirne per il futuro la cura.

Mi spiegò la ragione della sua richiesta: la mancanza di cure nella tenuta dei vasetti, dopo la sua scomparsa, avrebbe reso desolate le cellette ad uso perpetuo; ne sarebbe derivata una immagine di disordine, offensiva per il ricordo della sua famiglia.

Al di fuori di episodi tipici, si ripresenta una vasta gamma di comportamenti ricorrenti. Mi riferisco alle manifestazioni di fede politica che più volte ho dovuto gestire nelle loro rappresentazioni più o meno pittoresche nella Sala del Commiato.

L’improvviso scuotersi all’unisono delle braccia tese con le mani serrate a pugno o rigidamente aperte (unico visivo segno distintivo di opposte ideologie); i comandi urlati in tono militaresco; brani musicali evocanti militanze in opposti schieramenti. Tutto ciò muove i presenti alle forti emozioni della passione politica, che travalica la vita del defunto e la rende eterna.

I bambini piccoli ai funerali sdrammatizzano l’evento al punto di muovere al sorriso molti dei presenti. La loro spontaneità e freschezza toglie alla circostanza il senso della finitezza del luogo e lo sostituisce con una concreta speranza di rinnovamento dell’umanità. Ho idea che nei bambini la morte, di cui conoscono il significato più immediato del distacco, nonostante il diverso parere degli adulti, la debbano interpretare come una sorta di gioco a mosca-cieca, cioè un allontanamento non definitivo del defunto.

Di contro quanto penosa appare la parodia del dolore di certi parenti che con un’aria tutta compunta si schierano ai lati opposti della bara come per prendere posizione di battaglia fra loro. Con una gamma vasta di atteggiamenti intermedi si colgono diffidenze, rancori, ostilità, che scaturiscono dai veri o presunti torti subiti. Visi lacrimanti che si induriscono non appena gli sguardi incrociano, oltre la bara, quelli dei parenti; bocche composte al massimo rispetto che si trasformano improvvisamente in ghigni di sfida. In questi casi ho il mio buon da fare per prevenire improvvisi scoppi d’ira con scambi di insulti.

Ho offerto alle vostre riflessioni queste vicende umane concrete. Potrete derivarne le osservazioni a voi più congeniali; io mi limito a proporvi su di esse le mie succinte impressioni.

La morte-evento, a parer mio, è sostanzialmente rifiutato da tutti: il meccanismo utilizzato è quello della fuga in avanti. Intendo cioè affermare che l’evento morte è immediatamente archiviato nella sfera psicologica dell’uomo moderno. Nel passato infatti, in un mondo non ancora insuperbito dal progresso scientifico e fortemente permeato di partecipazione, la morte era accettata nella sua quotidiana presenza, come l’alternarsi delle stagioni, le malattie, le guerre, le carestie, le intemperie.

Oggi al suo posto appaiono, per bocca di parenti ed amici, vicende del passato ( rievocazioni di fatti significativi nel vissuto del defunto), ovvero osservazioni di valore pratico sulle procedure operative (richieste specifiche di vario tipo, da urgenze o posticipazioni per la tumulazione a richieste di specifici brani musicali da diffondere nella circostanza del saluto alla salma) che rimandano alla normalità degli atti della vita. Si cerca di ottenere appunto l’effetto di “normalizzare” l’evento morte, rimuovendolo dalle coscienze per diluirlo nella più tranquillante quotidianità.

TAVOLA SCOLPITA DAL FR.’. S. Lppls,

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

I LAVORI DI LOGGIA

I lavori di loggia

Venerabilissimo, Rispettabili Fratelli Maestri,

l’obiettivo di questa tornata è quello di parlare del programma dei lavori per l’anno corrente..

Il 1 0 Sorvegliante, responsabile di vigilare sul lavoro dei Fratelli, non può esimersi dall’esprimere il suo punto di vista sull’argomento.

L’obiettivo che mi pongo è quello di verificare la possibilità di imprimere una nuova marcia ad una Officina che, a mio modo di vedere, è da qualche tempo in una posizione di stallo dalla quale è incapace di uscire.

Mi rendo conto che l’affermazione è “importante” e quindi necessita di qualche ulteriore spiegazione.

La mia convinzione è che ci sia stato un calo di tensione negli ultimi anni, calo di tensione dovuto alla voluta o forzata diminuzione di impegno da parte di alcuni Fratelli in grado di imprimere un alto grado di “importanza” ai lavori.

A tale diminuzione di impegno non è corrisposto un adeguato ricambio di Fratelli in grado di portare linfa nuova e problematiche diverse all’Officina.

Non solo, ma anche la sclerotizzazione delle posizioni ha fatto sì che, quasi sempre, ancor prima che un Fratello si alzi si sa già quale sarà la sua posizione e di conseguenza il suo discorso.

Ciò è dovuto ad una sorta di cristallizzazione delle posizioni intellettuali dei Fratelli ed alla mancanza della linfa nuova di cui si diceva.

Metterei per ultimo, perché è probabilmente una conseguenza delle altre problematiche, una sorta di strisciante burocratizzazione dei Lavori di Loggia, al punto che troppo spesso, a mio avviso, ci si dedica a dibattere di problematiche squisitamente amministrative che, lungi dall’avere la loro importanza, dovrebbero però essere affrontate in altra sede che non nel corso dei Lavori Rituali. In definitiva:

latitanza di  Fratelli “importati”, mancanza di ricambio, sclerotizzazione delle posizioni, burocratizzazione della Loggia.

Non sono certamente cose nuove quelle che vado dicendo, ma il fatto di conoscerle e non tentare alcunché per cambiare la situazione rende ancora più grave il problema.

Detto questo ritorniamo al discorso del Lavori di Loggia e del conseguente programma.

Chiariamo subito un concetto: cosa si deve intendere per “Lavoro” nell’ambito di una Officina Massonica? E, per estensione, quale funzione deve avere un “programma” che regoli tali Lavori?

E necessario fare una immediata distinzione fra quelli che sono lavori che un Fratello compie o, meglio, dovrebbe compiere su sé stesso e che sono lavori squisitamente singoli, svolti attraverso riflessioni ed analisi personali, e che incidentalmente possono ispirarsi ai Lavori Rituali di Loggia.

È quindi evidente che quando si discute di Lavori di Loggia ci si deve riferire a qualcosa di diverso che abbia come riferimento l’impegno corale di tutti i Fratelli che compongono l’Officina, in rapporto alle capacità ed alle caratteristiche di ciascuno dei componenti il Gruppo.

Ed ecco quindi la necessità di chiarirci in modo esauriente che cosa significhi esattamente “Lavoro di Loggia” e “programmadei Lavori”.

In ambito profano per “programma dei lavori” ha da intendersi la messa in atto di tutte le iniziative necessarie al raggiungimento di un obiettivo prefissato.

Gli uomini che partecipano al programma saranno utilizzati al meglio secondo le loro competenze al fine di raggiungere l’obiettivo nel minor tempo possibile ed anche nel miglior modo possibile.

Quindi il programma dei lavori presuppone l’esistenza di un preciso obiettivo da realizzare,

Già, ma quale è il nostro obiettivo?

Facile, si fa per dire, il compito dei nostri antenati che costruivano cattedrali, facile anche quello di coloro che si battevano per delle elementari conquiste sociali.

I loro obiettivi erano chiaramente individuati ed il programma dei lavori consequenziale.

Già, è vero noi operiamo per “edificare templi alla virtù, scavare oscure e profonde prigioni al vizio e lavorare al bene ed al progresso dell’Umanità”, ma è proprio di fronte a cotanto obiettivo che la nostra pochezza risulta in modo ancora più evidente.

Mi sento di poter affermare, a questo punto, che il nostro problema è quello di non avere un obiettivo più immediato ed umano su cui puntare e che, quindi, il nostro programma di lavoro si limita a riempire delle caselle corrispondenti a delle date del calendario.

La buona volontà di qualche Fratello (quasi sempre gli stessi) e la necessità di tornate amministrative risolvono quasi sempre il problema, ma mi chiedo e vi chiedo, cari Fratelli, dopo tanti anni di militanza nell’Istituzione quali e quanti passi avanti abbia compiuto la Loggia nel suo lavoro “collettivo”?

Ed allora è forse opportuno tentare qualche altra strada. Cominciamo allora con domandarci:

  1. esiste la possibilità di trovare un obiettivo comune cui dedicare il nostro tempo futuro?
  2. è possibile ipotizzare che tutta l’Officina partecipi in rapporto alle capacità dei singoli al lavoro comune?
  3. abbiamo voglia di impegnarci un po’ di più dedicando all’obiettivo comune tutto il tempo che sarà necessario?
  4. è possibile, attraverso la individuazione di un obiettivo comune, tentare il ripescaggio dei Fratelli latitanti?

Se la risposta a tutte queste domande è affermativa possiamo ipotizzare una serie di passi successivi che potrebbero essere i seguenti:

  1. creazione di un gruppo di lavoro che individui la fattività dei vari punti sopracitati,
  2. confronto il Loggia sulle idee emerse e sulla loro fattibilità,
  3. scelto l’obiettivo su cui puntare, attivare tutti gli strumenti idonei al suo raggiungimento coinvolgendo, a vario titolo, tutti i Fratelli necessari.

Ho volutamente trascurato ogni possibile riferimento a qualche idea concreta, che pure è emersa negli ultimi tempi discorrendo con qualche Fratello, perché ciò che più mi preme, in questa circostanza, è verificare il grado di accettazione di questo progetto e poi, eventualmente, vagliare proposte operative.

Mi piacerebbe verificare se in Pedemontana esistono le capacità per tentare di realizzare qualcosa di “importate”.

Ho la sensazione che basterebbe che tutti imitassero la caparbietà e l’impegno che il Maestro Venerabile ha dimostrato in occasione delle celebrazioni per l’anniversario della Loggia per ottenere un risultato certamente degno di grande rispetto.

Sta solo a noi decidere se abbiamo voglia di tentare o meno.

TAVOLA DEL FR.’. G. F. Cmmrcc,

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

L’ENNEAGRAMMA

  L’Enneagramma

.. concedimi la Serenità di accettare le cose che non posso cambiare; … il Coraggio di cambiare quelle che posso; … la Saggezza di conoscere la differenza.

Quando il profano entra nel Gabinetto di Riflessione ad una delle pareti, quella Nord, legge l’iscrizione “V.I.T.R.I.O.L.”, abbreviazione della frase latina “visita interiora terrae, rectificando invenies occultum lapidem”, che tradotta recita testualmente: visita l ‘interno della terra e, rettificandolo, troverai la pietra occulta.

Nel Tempio l’Apprendista sentirà il Maestro Venerabile domandare al Primo Sorvegliante per quale scopo i “Liberi Muratori” si riuniscono. E sentirà rispondere: “per edificare Templi alla Virtù, scavare oscure profonde prigioni al vizio e lavorare al bene ed al progresso dell’Umanità”.

In questa frase vi è l’indicazione pratica dell’unico metodo di realizzazione che la Massoneria insegna, e che molto spesso non viene applicato nella vita quotidiana.

Terra e pietra occulta, vizio e virtù, bene e progresso, peccato e malattia, carattere e nevrosi, sono tutti termini che ancora una volta pongono, forse, il primo quesito essenziale dell’uomo, scolpito sul frontone del Tempio di Delfi: “conosci te stesso”. L’arcano significato di questa epigrafe, da sempre appartenuto alle religioni ed alla filosofia, da circa un secolo, con l’avvento della psicanalisi, è oggi presente nella medicina.

L’enneagramma è un metodo per la conoscenza di se stessi.

Elaborato, pare, nella notte dei tempi, forse già prima della nascita di Gesù Cristo, nella zona dell’attuale Afganistan, ritroviamo questo modello geometrico di indagine introspettiva in Persia, diffuso da appartenenti a sette mussulmane. A noi, invece, è giunto grazia all’insegnamento dei Maestri Sufi che erano soliti insegnare ai discepoli l’indagine introspettiva psicologica per vincere la “forza del vizio” mediante la “forza della virtù”, per il bene ed il progresso dell’Umanità, promuovendo così, di riflesso, in un’armonica realizzazione interpersonale, la fratellanza tra gli uomini.

In Occidente, l’enneagramma, è giunto grazie alle ricerche presso i Dervisci dell’armeno George Ivanovic Gurdjieff, fondatore dell’Istituto per lo Sviluppo Armonico dell’uomo; personaggio molto noto e discusso (1880 – 1949). In America, divulgatore fu il cileno Oscar Ichazo che diede vita all’Aricia Institute. Un suo allievo, Claudio Naranjo, divenne la massima fonte di riferimento del metodo dell’enneagramma.

L’enneagramma, al contrario di tanti altri sistemi filosofici, religiosi e, non ultimo, di analisi psicologica, non indugia su teorie e non insegna astratte riflessioni. Si dirige direttamente al cuore dei nostri problemi più concreti ripetendo: “visita interiora terrae, rectificando invenies occultum lapidem”.

L’enneagramma, in pratica, ci mostra come alcuni tipici nostri comportamenti sono riconducibili alle caratteristiche di una delle nove personalità psicologiche fondamentali che lo costituiscono e che sono disposte graficamente in forma circolare, leggibili in senso orario: il tipo corrispondente al numero nove è posto a mezzogiorno.

La disposizione circolare, muratoriamente sintetica, pur essendo in apparenza riduttiva, consente all’essere lapideo, l’uomo, di ottenere innumerevoli intersecazioni e di identificarsi con una delle nove personalità-tipo più rispondente al suo carattere. La fase della “rettificazione”, che avviene nel “Gabinetto di Riflessione”, s’identifica con la fase di ‘Yedenzione” per la religione, ovvero di “integrazione”, come comunemente viene detto in psicanalisi, segna l’inizio di sgrossamento della pietra grezza che diventerà levigata con il lavoro massonico e con il conseguimento della maestria.

Questi nove tipi di comportamento non sono legati alla civiltà, ma sono una caratteristica comportamentale che appartiene a tutti gli uomini, siano essi padani, aborigeni, orientali o indios, e così via.

L’errata visione della vita: “la Luce era nel mondo, ma le tenebre non I ‘hanno compresa …”, causata da un falso uso della realtà, porta coloro che si identificano in una delle personalità dell’enneagramma a considerare in modo decisamente diverso quali sono le vere corrispondenti del “vizio” e della “virtù”, tanto da poter affermare che la virtù è la forza che spinge una persona a realizzarsi, mentre il vizio è la forza che si oppone a tale realizzazione.

L’avere un senso falsato della realtà, cioè una visione distorta della vita, porta anche ad acquisire “un falso senso della virtù e del vizio”. Ciò impedisce all’uomo di rettificare il proprio comportamento e di realizzarsi, quindi, come sarebbe necessario. Potrebbe, considerato quanto sopra detto, considerare virtù ciò che nella realtà è difetto predominante non provando, conseguentemente, alcun rimorso.

Questa falsa interpretazione della virtù e del vizio varia a seconda della “lente” che la personalità utilizza nell’osservare la realtà.

Da una attenta analisi dei caratteri degli individui, le nove caratteristiche psicologiche che consentono l’identificazione delle personalità-tipo dell’enneagramma sono le seguenti:

  1. ira e perfezionismo
  2. orgoglio e personalità istrionica
  3. vanità, falsità e interesse
  4. invidia e carattere depressivo-masochista
  5. avarizia e distacco patologico
  6. paura, vigliaccheria e accusa
  7. gola, fraudolenza e narcisismo
  8. lussuria e carattere sadico
  9. pigrizia e inerzia psicospirituale

Dividendo la circonferenza in tre settori uguali, si ha modo di notare che i tipi 8, 9 e I si trovano graficamente nella triade dell’istinto (settore centrale alto), i tipi 2, 3, e 4 nella triade emotiva (settore di destra), mentre i rimanenti tipi 5, 6 e 7 nella triade mentale (settore di sinistra).

Scopo dell’iniziato è quello di tornare alle Origini, ma per compiere questo viaggio a ritroso è necessario conseguire la vera purificazione che si ottiene solo e mediante il compimento dei viaggi rituali.

Nel linguaggio cabalistico la “purificazione” corrisponde alla dissoluzione dei diversi strati; in quello alchimistico, all’eliminazione delle scorie; in quello massonico, poi, all’abbandono dei metalli e delle scorie metalliche che rappresentano i residui psichici degli stati anteriori che bisogna superare.

È l’ignoranza antica che ha permesso l’insediamento delle passioni che ostacolano il cammino nella via iniziatica, tanto da inchiodarci all’inizio.

Il concetto di “libertà”, sia esso inteso in senso psicologico che iniziatico, non può prescindere, comunque, dal meraviglioso e profondo messaggio contenuto nel Flauto Magico di Mozart. Tamino, il personaggio chiave dell’opera, conoscerà la verità soltanto quando avrà dato prova di pazientare, osservare, valutare il vero significato delle cose, esercitare, in altri termini, su se stesso la volontà di capire, tacere ed attendere. Tutto ciò gli consentirà di liberarsi dal pregiudizio dell ‘ira e dalla facile condanna, e lo aiuterà a giungere al cuore delle cose, attraverso la propria coscienza.

L’enneagramma è un modello geometrico che affonda le sue radici in molte di quelle tradizioni, soprattutto orientali, che hanno coltivato più la conoscenza della mente che quella del mondo

Claudio Naranjo

TAVOLA DEL FR .’. S. Frrnd

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

L’ULTIMA RACCOMANDAZIONE

Un’ultima raccomandazione: il Massone è necessariamente umile, sia per non offendere mai col proprio atteggiamento gli altri fratelli, sia perché la graduale scoperta che compie dell’infinita luce spirituale lo richiama con crudezza al suo ruolo di minuscola molecola dell’universo. E quanto ciò sia importante, quanto l’orgoglio sia un pericolo per l’animo umano, lo sottolineano ancora antichi documenti dicendo del Maestro Venerabile, massima autorità di Loggia: «Egli non dimenticherà che non è se non il primo tra i suoi eguali, e che il potere confidatogli è momentaneo. In   nessun caso farà egli sentire di essere superiore agli altri. Rifletta che se fu scelto per condurre uomini, ciò fu perché sì credé che egli possedesse tutta la saggezza che la sua carica esige, e che solo la dolcezza e l’umanità assicurano l’armonia che deve costantemente regnare tra i liberi muratori».

Vi avvio quindi sulla strada della Luce, con questo avvertimento: si può fare il Massone in molti modi, ma si può essere Massone in un modo solo.

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

FICHRE – PUO VALER LA FRAMMASSONERIA COMR FINE A SE STESSA?

Può valere la Frammassoneria come fine a se stessa?

Ora soltanto rispondo alla vostra domanda: “Non si può porre la Frammassoneria come scopo a se stessa”; semplicemente perché essa mi porge l’occasione per alcune determinazioni complementari.

Voi siete giunti a questa idea, come da voi medesimi comprendete, paragonando la Frammassoneria con la religione. Si può domandare, quale sia il fine della Chiesa: il propagamento della religione?

Senza dubbio, proprio di questa, poiché essa è meramente il risultato, l’esigenza dello spirito e del cuore nella loro armonia, il frutto della nostra saggezza, il più alto fiore della nostra ragione, la dignità della nostra natura. A che cosa deve essa ancora valere, o servire qual mezzo, che

[altro]

deve proporsi a scopo finale? Così l’Ordine dei Liberi Muratori esiste per mantenere, per conservare la

Frammassoneria; essa pure non è buona per alcunché, ma buona in sé e per sé, non già mezzo per un qualsiasi scopo. A che altro deve mai ancora mirare? Ciò ch’essa opera e può operare, ciò che essa ha generato in lui e anche in altri deve generare, questo deve conoscere il vero Massone: e questo è Frammassoneria.

Pertanto sarebbe vano, in generale, il ricercare un suo fine, come il rispondere a tal richiesta e l’impostare il concetto d’un siffatto fine (come noi abbiam fatto); essa verrebbe a desistere in forza di se medesima, dovrebbe assolutamente essere e sarebbe una parte costitutiva dell’assoluto.

E vi è un certo senso, in cui si può benissimo concepire questa tesi e nel quale essa è vera e importante; ma essa non sembra essere espressa in forma sufficientemente determinata. Si parla spesso, non preciserò qui se con esattezza filosofica, di un senso ampio e amplissimo, ristretto e strettissimo delle

parole e delle proposizioni nella filosofia. Sicché ciascuno potrebbe dire: «se io chiamo la Massoneria fine a se stessa, penso alla Massoneria nel suo significato più ristretto. Ma questa è per me appunto quella cultura comune [a tutti], puramente umana, che tu hai posto come fine della Massoneria. Quindi

per me il suo fine è essa medesima».

Ciò è giusto in sostanza, ma le parole sono un po’ oscure a comprendersi. L’uomo è fine a se stesso e quella cultura puramente umana è una maniera di essere dell’uomo assolutamente postulata, quindi una parte costitutiva di ciò che è fine a se stesso, ossia dell’assoluto. Ma si doveva pur da ognuno riconoscere per espressioni equivalenti Massoneria e cultura universalmente umana? La sentimentalità sonica (dopo che si abbia cioè spiegato a bella prima l’espressione nel modo teste concesso) può essere chiamata fine a se stesso ma suona poi tanto Massoneria, Ordine Frammassonico, quanto sentimentalità massonica? La Massoneria non è una cultura o un sentimento, ma una società  colleganza. Non posso dire: il Fratello N. N. ha compiuto secondo la sua Frammassoneria questa

lodevole azione, ma essa è una prova dei suoi buoni sentimenti massonici; ovvero: il signor N. N. ha in sé la Frammassoneria, senza essere accolto nell’Ordine, sebbene egli può possedere la vera (massonica) sentimentalità di una cultura universalmente umana. Ma poiché ora la parola «Massoneria» indica

associazione, essa non può essere chiamata fine a se stessa, ma soltanto mezzo, poiché l’associazione per il fine prefisso è solo mezzo e non deve essere in senso assoluto, ma solo sotto la condizione di una certa situazione del mondo, quale essa è pur ora presente. Invero, soltanto perché lo scopo, che la società separata si propone, non può essere conseguito nella grande [società] come essa è presente, verrà fondata la società: separata. Ma la più grande società non è

necessariamente così come essa è: può venir pensata nel campo della ragione affatto diversamente, per lo meno senza la condizione più sopra indicata nella formazione dell’individuo: deve piuttosto progredire del continuo verso il meglio, e questo meglio consiste, affatto particolarmente, anche nell’uguaglianza e armonia della cultura di tutti gli individui. Se essa fa questo, nella stessa misura

appunto ch’essa in ciò progredisce la società, separata diventa meno necessaria; e quando quella ha raggiunto la sua meta, [questa è ormai] superflua e inconsistente. Ora, di una cosa tanto relativa si può dire che sia parte costitutiva dell’assoluto.ma; Si potrebbe replicare, che sia scopo di tutta l’umanità costituire un’unica grande colleganza, come presentemente dovrebbe essere quella massonica. Ma la stessa mera esistenza della Massoneria dimostra che ciò, che noi abbiamo chiamato fine in sé, non è ancora affatto conseguito.

L’esempio, di cui si fa uso per quella tesi, deve porre in più chiara luce il suo opposto. Si dice: non si potrebbe ricercare un fine della religione (o più precisamente: della religiosità, del sentimento religioso), ma invece un fine della Chiesa. Benissimo! solo che al concetto della religiosità appunto corrisponde non già il concetto della Massoneria, ma piuttosto quello della cultura puramente umana; a quello della Chiesa per contro [corrisponde] proprio quello della Massoneria, 0 (che poi è lo stesso) dell’Ordine dei Liberi Muratori.

Massoneria significa dunque (per riassumere tutto in breve) non il sentimento, bensì associazione: ma questa, per generare quel sentimento, e condizionata da alcunché di accidentale, che appunto per questo non potrebbe nemmeno essere € nel fatto non dovrebbe essere. La Massoneria non è quindi fine a se stessa, tanto poco quanto, secondo quella particolare opinione, la Chiesa; e per l’una come per l’altra si può, con tutti i diritti filosofici, ricercare i loro fini c determinarli in forma chiara e precisa.

Questo spero di aver fatto nei riguardi della Massoneria. Ma non siamo ancora alla fine: non solo dobbiamo ancora indagare che cosa e come operi la Massoneria tanto verso i suoi membri che verso il mondo, ma altresì distinguere compiutamente l’un dall’altro i principi fondamentali più sopra affermati

e applicarli più largamente, affinché essi diventino atti e sufficienti alla valutazione della situazione presente della Massoneria e dell’attività massonica.

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

FICHTE – LIMITI DI QUESTA DETERMINAZIONE DELLO SCOPO. . .

LIMITI DI QUESTA DETERMINAZIONE DELLO SCOPO: EDUCAZIONE ALLA LIBERTÀ ETICA O ALLA SENSIBILITÀ MORALE?

La seconda obiezione che avete accennata è più importante; e io aggiungo alla mia precedente definizione dello scopo [massonico] questa significativa limitazione: in quanto una tale cultura possibile mediante una società espressamente indirizzata a questo fine.

Vi è, infatti, una forma di cultura generalmente umana, in forza della quale ciascuno prende soltanto se stesso, la sua coscienza e Dio per testimoni e giudici: è l’educazione alla libertà etica. Voi conoscete la mia convinzione a questo riguardo. «Ciascuno che si creda onesto di fronte a se stesso, così scrivevo altrove, alcuni anni fa, deve instancabilmente osservare se stesso e lavorare per nobilitarsi: il che deve essergli diventato, in forza dell’esercizio, affatto naturale». Ma questa occupazione non sembra, giusta la sua natura, esser capace di alcuna comunicazione.

Andai da un pittore, ch’io volevo veder lavorare: ed egli mi mostrò tutti i suoi dipinti, perfino quelli ancora incompiuti; ma per quanto lo pregassi, egli non vi volle por mano sotto i mici occhi, e affermava che le opere del genio riescono solo nella solitudine. Questo mi trasse a considerare l’opera del genio morale dentro di noi, e intuii la verità, che anche in ciò bisognava essere soli; trovai sempre più

confermato [il concetto] che il vero sforzo per nobilitarsi è assai timido e vergognoso, anzi si ritrae in se stesso e non può affatto comunicarsi [ad altri]. Giammai avevo posto in questione il mio miglioramento innanzi à me stesso: come potevo desiderare di metterlo tuttavia in discorso innanzi ad altri! Bastava che io agissi diversamente, e che i mici amici, come io medesimo, conoscessero la

crescita della pianta solo dai suoi frutti. Pertanto non si deve mai portare alla luce il proprio miglioramento, né abbassarsi mai a una mera confessione dei propri difetti, ma estirparli. Dobbiamo provarne nausea: allora non staremo più a rigirarli per un verso e per l’altro, per esprimerli con esatte  ed eleganti determinazioni. Qualora si volesse, per un malinteso sentimento del dovere, obbligare anche a questo, per un certo spirito eroico nell’amicizia (0 a favore di un fine sociale), si verrebbe soltanto a prender confidenza con essi, a renderseli cari, per lo meno a non paventare più l’esistenza di difetti che si sono così clamorosamente condannati, per lo meno a infiacchirsi nella confessione, in quanto la si mettesse in conto di miglioramento ». E così è. Formare la propria educazione alla libertà etica per una data condizione sociale, parlarne con altri, lasciarsi trascinare da loro al rendiconto e confessarsi a loro o farsi confessare, scompiglia l’animo da capo a fondo: poiché ciò trae a deporre il santo pudore, a

diventare il più peccaminoso tipo di ipocrita, l’ipocrita verso se stesso; e una società che si ingeriva di questo condusse effettivamente al più tetro ascetismo monacale. Pertanto la Massoneria non ha niente a che fare con questa forma di educazione alla pura umanità: come {non ha niente a che fare con essa] nessuna società che non sia composta di fanatici e che abbia compreso l’Oraziano:

Insani sapiens momen ferat, aequus iniqui,

Ultra, quam satis est, virtutem si pelai ipsa.!

tutto ciò che accade secondo una qualsiasi distinzione fra gli uomini, sia che miri alla capacità tecnica o a conoscenze o alla virtù, è profano di fronte alla Massoneria: ma di fronte a ciò che riguardala libertà etica, la Massoneria stessa è profana e irreligiosa: poiché quella è il santo dei santi, in paragone del quale il santo stesso è volgare. Questo solido concetto, interamente determinato e chiaro in sé, dovremmo elevarlo assolutamente a canone della Massoneria e a principio di una critica di ogni cosa massonica, qualora avessimo da impiantare una critica siffatta.

Altra cosa è certamente, per accennare in breve anche questo, l’educazione dello spirito e [altra] l’aspirazione alla sensibilità morale, la formazione dei costumi esteriori e dell’esteriore osservanza alla legge. Questa appartiene senza dubbio alla Massoneria. Ora voi avrete presente all’animo immagine della Massoneria, come essa è in sé e per se stessa, o può e deve essere unicamente. Ma aggiungerò ancora alcuni tratti a questa immagine. Qui si raccolgono invero, liberamente, uomini di tutte le classi e portano ad un sol cumulo la cultura che ciascuno poté

acquistare secondo la propria individualità, nella sua condizione. Ciascuno porta © dà quello che possiede: la testa pensante concetti chiari e precisi, l’uomo d’azione capacità e agilità nell’arte del vivere, il religioso la sua religiosità, l’artista il suo entusiasmo artistico. Ma nessuno dà [il suo contributo] nella stessa maniera, in cui egli l’ha ricevuto nella sua classe sociale e nella sua classe lo

trapianterebbe.

Ciascuno lascia del pari da parte l’elemento singolo e specifico, c mette fuori ciò che egli ha realizzato nel suo intimo come risultato: si sforza di dare il suo contributo in modo che possa pervenire a ciascun membro della società: e l’intera società si affatica a sostenere questo suo conato e a conferire appunto

così utilità generale e universalità alla sua cultura, fin qui unilaterale. In tal colleganza ciascuno riceve nella stessa misura di quello che dà; appunto per via di questo, che egli dà, gli viene dato; precisamente la capacità di poter dare.

  • (horat. epist.i.6,16-17 «porti il sapiente nome di stolto, e il giusto di iniquo quando egli ricerchi la virtù stessa virtù più di quanto occorre.»]. Il saggio si attira nome di pazzo, e Aristide diventa ingiusto, «tosto che egli pratichi stessa virtù più del giusto » [Wieland]; ovvero: quando egli ricerca la virtù stessa affannosamente per false vie
Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

MASSONERIA E SOCIASLISMO

Dalla

Massoneria operativae Socialismo

Dopo l’insurrezione di Parigi del luglio 1830, gli accordi tra la nobiltà moderata e la borghesia liberale consentirono l’avvento al trono di Luigi Filippo d’Orléans in sostituzione di Carlo X, successore di Luigi XVIII. Lo sviluppo economico francese sotto la monarchia di Luigi Filippo alimentò le tensioni sociali, che sboccarono in varie rivolte sanguinosamente represse. I conseguenti sviluppo e diffusione del Socialismo riaccesero i timori nei confronti di ogni forma di aggregazione più o meno segreta, coinvolgendo anche la Massoneria che pure, dopo essersi troppo esposta con Napoleone e averne pagato le conseguenze, si teneva rigorosamente al di fuori del dibattito politico.

La rivolta popolare del luglio 1830 a Parigi. Durante il regno di Luigi Filippo la Massoneria francese, travagliata dalle dispute tra Grande Oriente e Supremo Consiglio, si occupò più che altro di problemi interni, astenendosi dal prendere qualsiasi posizione in ambito politico o sociale. Nonostante vari tentativi (1835 e 1841) fu tuttavia impossibile giungere all’unificazione dei Riti. In seguito ai rivolgimenti politici del 1848 sette logge si staccarono dal Supremo Consiglio per costituire la Grande Loggia Nazionale di Francia che, non riconosciuta in patria, riuscì tuttavia ad allacciare relazioni con la Massoneria straniera, prima di essere dichiarata sciolta dalla polizia nel gennaio del 1851.

In effetti, se è vero che il termine ‘Socialismo’ fu modernamente utilizzato per la prima volta nel 1830 dal saintsimonista P. Leroux, membro della Loggia ‘Diritti dell’Uomo’ di Grasse, si possono cogliere dei collegamenti soltanto tra la Massoneria e il cosiddetto Socialismo utopistico, in particolare con le formule proposte appunto da Claude-Henry de Rouvroy, conte di Saint-Simon (1760-1825) e François M.C. Fourier (1772-1837), sulla base di un comune umanitarismo, in parte ispirato a princìpi cristiani. C’è chi sostiene che i due personaggi citati abbiano avuto una formazione massonica, ma dalla loro opera non emerge alcun interesse per il carattere iniziatico dell’Ordine, che Fourier giudica addirittura un’opportunità non debitamente sfruttata per una riforma sociale e morale della società.

La distanza tra Massoneria e Socialismo si fa comunque nettissima quando quest’ultimo, dal punto di vista operativo, riesumò la lezione di François-Noël Babeuf, che nel 1796 aveva cospirato per rovesciare il Direttorio e instaurare la ‘Repubblica degli Uguali’ e assunse, per opera soprattutto di Filippo Buonarroti (vedi il capitolo Italia: verso il Risorgimento) e di Louis-Auguste Blanqui (1805-1881), caratteristiche decisamente rivoluzionarie.

Ancora più antitetiche appaiono le posizioni dal punto di vista teorico quando si prendano in considerazione l’opera di P.-J. Proudhon (1809-1865), che pure fu iniziato alla Massoneria, ma soprattutto il cosiddetto ‘Socialismo scientifico’, come K. Marx (1818-1183) definì la dottrina politica da lui elaborata in collaborazione con E. Engels (1820-1895). Sono infatti del tutto fuori dai ‘confini’ massonici (vedi il capitolo L’orizzonte massonico ‘regolare’) l’affermazione di un primato dell’economia e l’identificazione dello specifico umano nell’attitudine produttiva, l’assunzione della lotta di classe come principio interpretativo della storia e l’ostilità per la religione.

Copertina del libro Cuore (1905) di Edmondo De Amicis. Questo scrittore ligure (1846-1908) realizzò nell’adesione tanto alla Massoneria quanto al Partito Socialista i suoi ideali umanitari e solidaristici, che espresse per altro anche nella sua narrativa per l’infanzia.

Ciò non ha impedito che singoli Massoni, in piena libertà di coscienza, abbiano militato nelle file di formazioni socialiste, essendo d’altra parte molto diversificato il volto da queste assunto nel tempo e nello spazio. Per quanto riguarda l’Italia si può ricordare a titolo di esempio la figura di Andrea Costa (1851-1910), Gran Maestro Aggiunto del Grande Oriente d’Italia e 32° grado del Rito Scozzese Antico e Accettato, fondatore del Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna (1881) e primo socialista eletto deputato (1882) nella storia parlamentare del nostro Paese. Semmai, sono da ricordare le prese di posizione contrarie che, a partire dall’inizio del Novecento, gli organi socialisti ufficiali hanno variamente espresso nei confronti della Massoneria: perché le sue istanze umanitarie avrebbero eccessivamente ammorbidito la capacità combattiva del Partito (questa posizione fu espressa dalla corrente massimalista del Congresso di Ancona del 1914); perché presunti contatti con qualunque forma di società segreta avrebbero nuociuto all’immagine del Partito (Congresso di Palazzo Barberini del 1947); perché l’affiliazione di iscritti al Partito alla Massoneria avrebbe consentito a quest’ultima di esercitare pressioni sulla vita politica nazionale (posizione espressa dalla Federazione Socialista di Firenze nel 1970).

I militari controllano il palazzo presidenziale di Santiago dopo il colpo di stato che ha abbattuto il governo di Salvador Allende e che gli è costato la vita.

Caratteri del tutto diversi presentano invece i rapporti tra la Massoneria e il Socialismo nell’AMERICA LATINA, per la necessità di un fronte unico (non è casuale che vi abbia fatto e vi faccia parte anche la Chiesa cattolica locale) contro le ricorrenti iniziative dittatoriali e le forze economiche determinate a mantenere, nel cinico disprezzo dei più elementari diritti umani, drammatiche sperequazioni sociali. È stato così possibile a due personalità del mondo massonico latino-americano conseguire la massima carica politica dello Stato: si tratta di Lazaro Cardenas, presidente della Repubblica del Messico dal 1934 al 1940, promotore di una riforma agraria e della nazionalizzazione delle industrie petrolifere, e di Salvador Allende, regolarmente eletto presidente della Repubblica del Cile nel 1970 con l’appoggio delle forze socialiste, comuniste, radicali e cattoliche unite nella coalizione di Unidad Popular. Vittima del colpo di stato promosso da Pinochet nel 1973, Allende era il Venerabile della Loggia ‘Hiram n° 66’ di Santiago.

Differenze di metodo, prassi e scopi tra Socialismo e Massoneria

«… lo scopo attuale di un sodalizio qual è il vostro, dev’essere… di irradiare la verità e l’opera nelle masse, non di conservare un verbo chiuso, quasi privilegio degli adepti, da confidarsi fra convinti senza irradiazione al di fuori. Troppo ancora noi pigliamo, dove meno abbisogna, l’abito e il gesto dei cospiratori. Ora, le evoluzioni e le rivoluzioni economiche e morali (che è ciò a cui noi più particolarmente teniamo) non si fanno, come talvolta le politiche, per impulso e deliberazione di pochi segretamente affratellati ubbidienti a una parola d’ordine, fedeli a un cenno; nulla di stabile può ottenersi, in cotesta e sostanziale materia, che non sia voluto dai più o dai più forti (i quali non potrebbero mai essere pochi), che non sia per così dire il portato delle cose medesime, del grado di sviluppo obiettivo e subiettivo, materiale e morale, dei fatti sui quali si agisce e degli uomini che debbono agire, o quanto meno adattarsi ai nuovi e vagheggiati modi di azione e di vita. Anche le rivoluzioni politiche, oggi, per chi annette importanza a quella speculativameta, oggi che non abbiamo più stranieri sul collo, non potrebbero prepararsi alla chetichella, massonicamente, nel buio di private conventicole, senza pubblicità e senza eco.»

Filippo Turati a un gruppo di giovani militanti socialisti (1886)

Codice HTML © Copyright 2000-2001 La Melagrana. Tutti i diritti riservati.

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

GLI AMMONIMENTI NEL GABINETTTO DI RIFLESSIONE . . .

Degli ammonimenti nel Gabinetto di Riflessione e del Testamento del Profano

Venerabile Maestro, cari Fratelli,

uno dei primi incontri avuti dal profano ne bussare alle soglie dell’istituzione per chiedere la Luce è, per l’appunto, con il gabinetto di riflessione in cui egli compie il primo viaggio simbolico attraverso le viscere della terra e, poiché terra siamo e terra ritorneremo, questo incontro potrebbe essere rappresentativo del riflesso del viaggio di introspezione nella propria coscienza sostenuto dal profano nella sua fase preiniziatica.

Qui incontrerà degli ammonimenti: V.I.T.R.I.O.L., celebre aforisma degli alchimisti attribuito a Basilio Valentino dal seguente significato acrostico: Visita Interiora TerrŒ, Rectificando Invenies Occultum Lapidem.

Su V.I.T.R.I.O.L., sul suo aforisma e su ciò che nasconde la sua immagine ci sarebbe, credo, da stilare un’unica trattazione, Per questo voglio provare ad accennare solamente.

«Dalla metà del secolo XVII l’emblema è stato associato, per concordanza dei contenuti alla “Tavola di smeraldo” (Verba secretorum Hermetis) da alcuni autori tedeschi (Basilio Valentino, Glauber, Stolcius, ecc.) e fu pubblicato al principio o alla fine del testo 6.

Tuttavia, pur essendovi espressi gli stessi concetti basilari dell’alchimia, essi rappresentano due momenti diversi della corrente ermetica, essendo la “Tavola di smeraldo” apparsa per la prima volta nel secolo VIII in un lavoro tradotto dal greco in arabo: Sirr al-baliqua o Mistero della Creazione (il primo documento conosciuto che parla di un’iscrizione trovata nella tomba di Ermete incisa su una “Tavola di smeraldo”); mentre la prima pubblicazione del sigillo ermetico è quella dell’Aureum Vellus del 1598. Inoltre questo piccolo poema che si sofferma sui simboli contenuti nell’emblema sembra essere all’origine dell’immagine, inscindibili l’uno dall’altro e probabilmente dovuti allo stesso autore, un alchimista paracelsiano e, chissà, forse lo stesso Trismosin

Sotto questo aspetto si potrebbe vedere nel Leone e nell’Aquila, che figurano nella parte inferiore del sigillo, una relazione con le famose tinture del Leone Rosso e dell’Aquila Nera del Trismosin riportate nella prima parte dell’Aureum Vellus, come anche nei versi che precedono la ricetta del Leone Rosso in cui l’invito alla ricerca interiore e alla discesa nelle profondità di se stessi , un’allusione al motto acrostico del V.I.T.R.I.O.L. che circonda il disco.

L’acrostico del V.I.T.R.I.O.L. crea un legame con un altro cimelio dell’arte ermetica, la “porta magica” di Piazza Vittorio a Roma, come risulta da un’epigrafe del

La funzione del simbolo è presente ovunque il particolare rappresenti I ‘universale, non come sogno od ombra, bensì come rivelazione viva ed immediata di ciò che non può essere indagato. (Goethe).

Nessun essere umano, nemmeno Leonardo o Michelangelo, può svegliarsi una mattina e decidere: adesso disegno un simbolo. Dunque chi ha “creato” questi simboli? Un fratello di quest’officina ha dato una definizione molto interessante che riporto integralmente: Gli oggetti presenti nel tempio sono chiaramente vettori di messaggi simbolici che ci arrivano da un tempo più o meno lontano. Chi è il mittente? O meglio, chi sono i mittenti? Secondo me, uomini illuminati che hanno voluto in qualche misura farci partecipi della loro esperienza e trasmettere un insegnamento finalizzato a consentirci il progresso lungo un percorso di conoscenza. A volte li chiamiamo col nome collettivo di “tradizione’ .

Il simbolo, ci ricorda l’etimologia, è un’entità che congiunge, riunisce; di cui noi possediamo una metà. Dunque noi disponiamo di mezzo ponte su un fiume che desideriamo oltrepassare. In qualche raro caso avremo dei barlumi che ci permetteranno di vedere l’altra metà del ponte; in quel preciso momento il simbolo funziona e diventa reale. In pratica, agisce.

Non si tratta, quindi, di decifrare un cruciverba particolarmente complicato, ma di stimolare la nostra concentrazione nei confronti dello studio e della meditazione sui simboli: cosi si dovrebbe provocare un’onda di ritorno che permetta la progressiva “trasmutazione” nell’individuo.

Molte tradizioni riportano questo tipo di azione, non solo passiva come oggetto di riflessione, ma attiva come entità in grado di generare una trasformazione. Ci troviamo davanti alla più misteriosa delle funzioni del simbolo. Non chiedetemi come, perché, in che modo agisca questo effetto, rivolgetevi a Fratelli più grandi di me.

Ritengo, però, che per degli Iniziati, questo sia il significato più profondo: il significato da indagare.

Inizialmente noi sappiamo solo compitare, quindi riconosciamo le lettere, e non le parole o le frasi. Il nostro dovere è quindi di meditare ed ascoltare, in silenzio, i racconti di viaggio degli altri viandanti. Con il loro aiuto ed il nostro studio dobbiamo cercare di mettere insieme le lettere fino a formare frasi compiute che ci permettano di seguire una strada.

Una volta capito questo bisogna poi anche percorrerla e sicuramente non è la parte più facile.

 TAVOLA DEL FR.’.  S. Clnn,

.

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

RICERCA DELL’ESSENZA DELLA MASSONERIA

RICERCA DELL’ESSENZA DELLA MASSONERIA

            (Ovvero opinioni di un “vecchio Fratello”)

“Secondo la sua essenza la Massoneria non è meno antica della civiltà”.

(I dialoghi di Lessing)

Premessa.

Le opinioni che in appresso manifesterò, peraltro ricorrentemente manifestate anche da altri, scaturiscono da molti anni di soddisfacente appartenenza alla M.a ,dalla frequentazione assidua dei lavori di Loggia che costituiscono un osservatorio privilegiato dal quale, negli anni, ho notato essenzialmente:

 La Loggia ha sempre lavorato regolarmente, secondo tradizione, rituali e regolamenti dell’Ordine, nominando o eleggendo Venerabili e Dignitari che hanno costantemente lavorato affinché i Fratelli avessero a disposizione tutto quanto il necessario per lavorare in modo “giusto e perfetto”;

 Ad ognuno è stata data l’opportunità di ricercare la propria via partendo dalla base comune costituita, appunto, dalla regolarità dei lavori, dal rispetto dei “Landmarks” legittimando:

  1. Il Fratello “A” che privilegia la via “semplice” senza eccessive elucubrazioni mentali bastando (per lui) essere in Tempio a lavori aperti;
  2. Il Fratello “B” che vorrebbe “uscire” per realizzare qualcosa non meglio definito;
  3. Il Fratello “C” al quale bastano poche tornate l’anno per soddisfare le proprie necessità di ricerca;
  4. Il Fratello “D” che ritiene la speculazione l’unica via fruttuosa;
  5. Il Fratello “E” che scolpisce tavole solo quando è per così dire in “crisi”;
  6. Il Fratello “F” al quale va bene qualsiasi cosa. (legittima). Basta esserci.

Tutte posizioni legittime. Hanno prodotto qualche passo in avanti verso la Luce? Esiste il modo di verificare?

Tutto ciò premesso, senza voler insegnare la Via a chicchessia, esprimo alcune considerazioni.

L’aspirazione ad essere migliori, ad emergere, a contare nella vita è nella natura dell’uomo. Se si attua nel rispetto della deontologia, della correttezza e nell’osservanza dei principi etici universali è addirittura lodevole. Del resto, nell’insegnamento delle Logge massoniche si stimola, come già detto, l’Iniziato a voler “scavare profonde ed oscure prigioni al vizio ed elevare templi di virtù”. Purtroppo nella società in cui viviamo, povera di ideali e di principi etici, l’aspirazione ad essere migliori è sostituita da un insieme di accorgimenti ipocriti, sleali, finalizzati a farci apparire migliori degli altri e a farci apparire i soli capaci di azioni degne di lode. Ci attribuiamo meriti che non abbiamo, sottraendo agli altri, il frutto del loro lavoro, del loro sacrificio e della loro abnegazione, non perdiamo occasione per metterci al centro di tutto, non perdiamo occasione per calunniare gli altri al fine di diminuire la loro dignità e far emergere la nostra, non perdiamo occasione per ingigantire i difetti altrui in modo da fare rifulgere le nostre “eroiche” qualità.

Oggi tutti questi atteggiamenti ignobili vanno sotto il nome di protagonismo.

Il protagonismo è potrebbe essere considerato colpa massonica perché è la negazione del dovere di lavorare per il Bene dell’Ordine ed a Gloria del Grande Architetto dell’Universo.

Non è forse nei nostri Templi che i Fratelli vengono ad imparare (anche) la tolleranza, a praticare la solidarietà, a sconfiggere l’incertezza, l’ansia, la paura dell’uomo di oggi?

La radice della Massoneria è nell’uomo, nella sua ansia di conoscere, di superare il fisico ed il materiale, il provvisorio ed il caduco per giungere a una sintesi, (essenza) attraverso la ricerca esoterica, dei principi generali e universali, eterni ed immutabili che pongono l’uomo al centro del grande crocevia in cui si incontrano e si intersecano i fenomeni religiosi, filosofici, scientifici, storici e culturali. Quale massoneria privilegiare?

Non certo quella che nel Tempio dà spazio ai metalli e alle quotidianità, non quella che porge orecchio e dà ascolto a chi, con la scusa dell’impegno sociale, intende immergere la Loggia nel catino del potere profano, non quella che nel Tempio trascina lavori ripetitivi e monotoni, incontri senza anima, sempre più lontani dalla sacralità e dall’impegno rituale. Non saranno certo i Fratelli assenteisti, né quelli che accettano il rito come manifestazione esteriore e non già come interpretazione e realizzazione del simbolismo e della mitica Tradizione della Massoneria, non saranno costoro a farsi carico dei mali e dei dolori dell’umanità, poiché non si rendono conto che atteggiamenti, atti, pensieri, parole, hanno senso solo se dedicati al Grande Architetto dell’Universo e al bene dell’Umanità. Solo quando tutti i Fratelli avranno l’animo sgombro dai vincoli della profanità e si disporranno a indagare sulle origini dell’uomo e delle cose, sul trinomio “donde veniamo, chi siamo e dove andiamo”, solo allora tutto sarà giusto e perfetto.

Per quanto sia chiaro a tutti che la Massoneria non ha spazio né tempo e che la durata di un lavoro di Loggia è meno di un battito di ciglia dell’Universo, è tuttavia altrettanto vero che la Massoneria nel suo respiro universale è costituita da tutti quegli attimi vissuti in ogni Loggia del mondo. Quando ogni Fratello concentrerà la propria intelligenza e la porrà al servizio delle Luci della Loggia e della Catena d’Unione nel Tempio si sprigioneranno luce ed energia sufficienti ad illuminare i Lavori ed a guidarli verso l’elevazione dell’uomo. E’ in quella atmosfera magica e mistica che ogni Fratello comprende il senso della sua appartenenza all’istituzione.

L’Apprendista impara che saggezza talora vuol dire non parlare; il Compagno assapora la conoscenza e tuttavia si rende conto che la via della verità è lunga e difficile, disponendosi ai lavori con grande umiltà. Il Maestro ha presente il peso e la responsabilità dell’insegnamento e, sentendosi impari, fa propositi di un impegno di lavoro sempre più fermo e tenace.

Le Luci devono reggere, sorreggere, correggere i Fratelli. Gli Ufficiali ed i Dignitari debbono comprendere che la vita della Loggia dipende anche dal loro impegno a penetrare il profondo significato della loro carica ed a interpretare la funzione con dignità, disciplina e sacralità.

Solo il mondo iniziatico ha certezze. È l’unico mondo che non sogna rivoluzioni, né violente, né programmatiche, né istituzionali. L’iniziato accetta attivamente e con saggezza la tradizione e cerca di interpretarla sempre più profondamente e sempre più coerentemente.

L’iniziato lavora alla costruzione di una diversa umanità: più giusta, più tollerante, più disponibile a guardare negli occhi il proprio simile, a condividere gioie e dolori.

L’iniziato ha i suoi scampoli di gioia in questa terra ed essi si realizzano ogni volta che, con gli altri Fratelli, lavora in Loggia alla edificazione del tempio della propria personalità, sotto la guida di un Istituzione massonica monda di sospetti e di brutture, protesa all’elevazione materiale, culturale e spirituale dell’intera umanità.

Guai a noi se non elimineremo i maestri di profanità che siedono fra le nostre Colonne, Fratelli che pur cingendo i propri fianchi del grembiule di Maestro sono spiritualmente legati alla Colonna del Nord ed agiscono e si comportano come se la Loggia fosse una pubblica piazza o peggio un club profano.

Bisogna combattere il lassismo, generatore di confusione e disordine. I.}urgente ed improcrastinabile instaurare una disciplina esteriore che produca scrupolosa osservanza della sacralità e ritualità della Loggia.

L’insegnamento e la pratica iniziatica devono accompagnarsi ad una grande disciplina interiore, sicché ogni parola, ogni comportamento, ogni gesto, ogni atteggiamento siano di estrema coerenza con l’assoluta esclusione dei metalli dal Tempio.

Non dimentichiamo che la Massoneria cerca sempre di comprendere, mai di giudicare; che la Massoneria respinge ogni forma di fanatismo ed ogni tentativo aperto o subdolo di emarginazione e di umiliazione dell’uomo. Che la Massoneria vuole la lealtà e la sincerità dell’uomo e ne respinge la doppiezza e l’ipocrisia, il conformismo e la doppia morale.

Al mondo del dolore, al mondo dei vinti, al mondo dei nemici della natura, al mondo degli stolti, al mondo degli atei e dei materialisti noi offriamo la meditazione sul modello di vita della Loggia massonica dove oggi, oltre ai concetti illuministici di libertà, uguaglianza e fratellanza, sinsegnano i concetti di tolleranza e di responsabilità, cosi necessari nei pensieri e negli atti quotidiani di ogni uomo.

La saggezza della Tradizione massonica insegna che si deve lavorare nei tre Gradi: Apprendista, Compagno e Maestro. Avverte anche che a quest’ultimo Grado si deve pervenire, non per anzianità, ma per acquisizione di saggezza massonica e di pienezza iniziatica. Solo così potremo contemplare il cielo da Occidente ad Oriente, da Settentrione a Mezzogiorno e dal Nadir allo Zenit.

Lavoriamo, studiamo e meditiamo con serietà e scrupolo.

Lavoriamo per penetrare lo spirito della nostra ritualità, del nostro simbolismo, affinché ognuno di noi sia più istruito, più tollerante, più disinteressato, più propenso a morire ai difetti, alle incrostazioni, ai condizionamenti del proprio passato profano.

Lavoriamo per insegnare ai Compagni e agli Apprendisti che nella vita iniziatica nulla conta, eccetto ciò che è compiuto con adesione interiore e per insegnare loro che i riti ed i simboli sono stati sempre il sale della sapienza.

Lavoriamo per correggere la presunzione, la frettolosità nel giudicare, senza tenere conto di alcuna autorità; l’intransigenza nel condannare, senza riserva, tutto ciò che non collima con la nostra opinione personale. La superficialità e la leggerezza nel formarci convincimento senza una scrupolosa ricerca ed una seria analisi della complessa realtà che è la vita di ognuno dei nostri simili.

Non affrettiamoci a condannare, Fratelli! Il bianco e il nero dei nostri pavimenti c’insegna che nelle umane cose il bene ed il male, il vero e il falso, amano spesso stare l’uno accanto all’altro. Il profano non sa del bianco e del nero dei nostri Templi, non ne intende il profondo significato ed insegnamento e quindi si confonde e s’inganna nel giudizio.

Riconoscere il bianco e il nero in tutte le cose è prerogativa dell’iniziato, che perciò deve esprimere solo giudizi con indulgenza e con tolleranza.

La Massoneria non richiede ai suoi adepti di imitare i monaci o gli eremiti, i santi o gli stiliti. Essi avevano come obiettivo primario la salvezza della propria anima e l’acquisizione di un posto nel Regno dei Cieli. Ma in fondo erano anche molto egoisti, infatti, essi pensavano solo alla propria salvezza ed al proprio perfezionamento, uscendo così dal mondo, allontanandosene e disinteressandosene il più possibile.

Uno dei capisaldi dell’apprendimento libero-muratorio è che ogni uomo, singolarmente, deve lottare contro l’errore ed avviarsi alla conoscenza con le proprie forze. La verità è cioè conquista del singolo, peraltro mai completa, come insegna la nostra Tradizione, sapendo che la Tavola non è mai completa, né finita.

TAVOLA DEL FR.’.S. Pnt,  

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento