SAN FRANCESCO

SAN  FRANCESCO

Il Signore concesse a me, frate Francesco, d’incominciare così a far penitenza: poichè, essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia.

E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo.

E il Signore mi dette tale fede nelle chiese, che io così semplicemente pregavo e dicevo: Ti adoriamo, Signore Gesù Cristo, anche in tutte le tue chiese che sono nel mondo intero e ti benediciamo, perché con la tua santa croce hai redento il mondo.

Poi il Signore mi dette e mi dà una così grande fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa Romana, a motivo del loro ordine, che anche se mi facessero persecuzione, voglio ricorrere proprio a loro. E se io avessi tanta sapienza, quanta ne ebbe Salomone, e mi incontrassi in sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle parrocchie in cui dimorano, non voglio predicare contro la loro volontà.

E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come i miei signori. E non voglio considerare in loro il peccato, poiché in essi io riconosco il Figlio di Dio e sono miei signori. E faccio questo perché, dello stesso altissimo Figlio di Dio nient’altro vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il santissimo sangue che essi ricevono ad essi soli amministrano agli altri.

E voglio che questi santissimi misteri sopra tutte le altre cose siano onorati, venerati e collocati in luoghi preziosi.

E dovunque troverò manoscritti con i nomi santissimi e le parole di lui in luoghi indecenti, voglio raccoglierli, e prego che siano raccolti e collocati in luogo decoroso.

E dobbiamo onorare e venerare tutti i teologi e coloro che amministrano le santissime parole divine, così come coloro che ci amministrano lo spirito e la vita. E dopo che il Signore mi diede dei frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo. Ed io la feci scrivere con poche parole e con semplicità, e il signor Papa me la confermò.

E quelli che venivano per abbracciare questa vita, distribuivano ai poveri tutto quello che potevano avere, ed erano contenti di una sola tonaca, rappezzata dentro e fuori, del cingolo e delle brache. E non volevano avere di più.

Noi chierici dicevamo l’ufficio, conforme agli altri chierici; i laici dicevano i Pater Noster; e assai volentieri ci fermavamo nelle chiese. Ed eravamo illetterati e sottomessi a tutti.

Ed io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare; e voglio fermamente che tutti gli altri frati lavorino di un lavoro quale si conviene all’onestà. Coloro che non sanno, imparino, non per la cupidigia di ricevere la ricompensa del lavoro, ma per dare l’esempio e tener lontano l’ozio.

Quando poi non ci fosse data la ricompensa del lavoro, ricorriamo alla mensa del Signore, chiedendo l’elemosina di porta in porta.

Il Signore mi rivelò che dicessimo questo saluto:”Il Signore ti dia la pace! “.

Si guardino bene i frati di non accettare assolutamente chiese, povere abitazioni e quanto altro viene costruito per loro, se non fossero come si addice alla santa povertà, che abbiamo promesso nella Regola, sempre ospitandovi come forestieri e pellegrini.

Comando fermamente per obbedienza a tutti i frati che, dovunque si trovino, non osino chiedere lettera alcuna (di privilegio) nella curia romana, nè personalmente nè per interposta persona, nè per una chiesa nè per altro luogo, nè per motivo della predicazione, nè per la persecuzione dei loro corpi; ma, dovunque non saranno accolti, fuggano in altra terra a fare penitenza con la benedizione di Dio.

E fermamente voglio obbedire al ministro generale di questa fraternità e a quel guardiano che gli piacerà di assegnarmi. E così voglio essere prigioniero nelle sue mani, che io non possa andare o fare oltre l’obbedienza e la sua volontà, perché egli è mio signore.

E sebbene sia semplice e infermo, tuttavia voglio sempre avere un chierico, che mi reciti l’ufficio, così come è prescritto nella Regola.

E non dicano i frati: Questa è un’altra Regola, perché questa è un ricordo, un’ammonizione, un’esortazione e il mio testamento, che io, frate Francesco piccolino, faccio a voi, miei fratelli benedetti, perché osserviamo più cattolicamente la Regola che abbiamo promesso al Signore.

E il ministro generale e tutti gli altri ministri custodi siano tenuti, per obbedienza, a non aggiungere e a non togliere niente da queste parole.

E sempre tengano con se questo scritto assieme alla Regola. E in tutti i capitoli che fanno, quando leggono la Regola, leggano anche queste parole.

E a tutti i miei frati, chierici e laici, comando fermamente, per obbedienza, che non inseriscano spiegazioni nella Regola e in queste parole dicendo: “Così si devono intendere” ma, come il Signore mi ha dato di dire e di scrivere con semplicità e purezza la Regola e queste parole, così cercate di comprenderle con semplicità e senza commento e di osservarle con sante opere sino alla fine.

E chiunque osserverà queste cose, sia ricolmo in cielo della benedizione dell’altissimo Padre, e in terra sia ricolmato della benedizione del suo Figlio diletto col santissimo Spirito Paraclito e con tutte le potenze dei cieli e con tutti i Santi. Ed io frate Francesco piccolino, vostro servo, per quel poco che io posso, confermo a voi dentro e fuori questa santissima benedizione. (Amen). 

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MASSONERIA

Massoneria «La massoneria si profila come entità e come fenomeno di carattere complesso, non riducibile alla sola dimensione ideologica o sociopolitica né, per contro, alla sola dimensione iniziatica e spirituale.
Ma mentre la prima è esplorabile e analizzabile mediante gli strumenti ben collaudati della ricerca scientifica, la seconda rimane impenetrabile a questi strumenti e richiede l’uso di altri e più adatti mezzi d’indagine.
L’esoterismo è a tutti gli effetti l’universo sommerso e mal visualizzabile della massoneria, suo cuore e midollo, vero filo conduttore unitario attraverso il suo divenire, comune denominatore sotteso alla sua universalità e al suo cosmopolitismo, irresistibile segnale di richiamo per tutti gl’individui che nei tempi e a ogni latitudine hanno varcato le soglie del Tempio.
Nella presente esposizione di esoterismo ben poco si parla, anche se pare di avere già a sufficienza delucidato i motivi di questa apparente contraddizione con quanto or ora affermato in merito al ruolo dell’esoterismo nel contesto massonico, da cui consegue la costante necessità di tenerne presente l’influenza nell’esame del fenomeno muratorio pure laddove l’esoterismo non emerga in forma palese».

Il Mistero delle Origini Le origini della libera muratoria rimangono tuttora avvolte in un fitto mistero. Benché sia stata ipotizzata una continuità tra i collegia fabrorum romani, o corporazioni di mestiere istituite già nella Roma arcaica, e le corporazioni medioevali di muratori, per il tramite di maestranze bizantine o italiche (tra queste, i cosiddetti magistri comacini) operanti nell’alto Medioevo, nessuna prova documentaria è ancora emersa al riguardo.
Durante il medioevo, nei principali Paesi europei vennero a costituirsi numerose gilde o confraternite di muratori, in connessione con la ripresa delle costruzioni religiose e civili, in molti casi sotto il patronato o la direzione degli ordini monastici.
Si ha notizia infatti di diversi statuti o carte contenenti una disciplina del mestiere, dei rapporti reciproci tra membri delle corporazioni, tra membri e apprendisti, etc., ma soltanto negli antichi documenti inglesi e scozzesi sono riscontrabili elementi peculiari rinvenibili in seguito nella massoneria moderna, quali le allusioni a segreti del mestiere e a segni o modi di riconoscimento riservati agli operai ammessi nella corporazione.

Sono sopravvissute fino a oggi corporazioni di mestiere, tra cui quelle dei muratori e dei carpentieri, denominati rispettivamente compagnons in Francia e steinmetzen in Germania, caratterizzate da un apparato simbolico e da “leggende” del mestiere che presentano affinità con quelle massoniche e che quindi possono essere indicativi dell’appartenenza a un ceppo comune, per quanto remoto. Nondimeno, quando dopo il 1717 si verificò la diffusione della moderna massoneria inglese sul continente europeo, nei diversi Paesi non avvenne alcun travaso dalle preesistenti corporazioni di mestiere alla nuova organizzazione, che era ed è da considerare una diretta filiazione inglese.
Nei quasi tre secoli trascorsi dalla fondazione della Gran Loggia di Londra (1717), che segnò formalmente o convenzionalmente l’atto di trapasso dall’antica massoneria di mestiere o operativa a quella moderna o speculativa, sono state proposte varie teorie a spiegazione della specificità di essa rispetto a tutte le altre organizzazioni di mestiere, consistente nel suo patrimonio simbolico ed esoterico. Sono stati chiamati in causa il sacerdozio egiziano, i misteri eleusini, i pitagorici, gli esseni, le sette gnostiche e zoroastriane, il mitraismo, i druidi, il sufismo persiano e arabo, la qabbalah ebraica, i Templari, i catari, i Fedeli d’Amore, gli alchimisti, l’ermetismo rinascimentale, i Rosa Croce: in breve, l’intero retroterra esoterico della civiltà occidentale e del vicino Oriente.
Nonostante una pluralità di sorprendenti affinità e talvolta di coincidenze, nessuna vera prova sussiste in merito a eventuali rapporti di identità o di continuità tra qualcuno di questi supposti antecedenti e la massoneria. Diverso è il discorso per quanto concerne l’influenza che alcuni di essi possano aver esercitato nel processo di formazione della massoneria moderna, con riguardo soprattutto agli ultimi sopra menzionati. Evidenti innesti da talune eredità sapienziali, anche remote, sono ben attestati nella storia della massoneria ed emergono nitidamente dall’esame dei suoi rituali, in particolare per quanto concerne i diversi “sistemi ad alti gradi” che fin dalla prima metà del XVIII secolo vennero a stratificarsi sopra i gradi originari della massoneria di mestiere.
La massoneria soggettivamente si richiama a una tradizione iniziatica, trasmessa da uomo a uomo fin da epoche immemorabili, e perciò tale che la sua fondazione non può essere situata in un’epoca storicamente determinata né essere attribuita all’opera di un singolo uomo o gruppo di uomini. Conforme a questi presupposti, le origini della massoneria sono leggendarie o mitiche e, nella sua interna concezione, l’iniziazione muratoria non differisce dalle iniziazioni delle età più antiche, con le quali intrattiene rapporti di singolare somiglianza, al punto che, come si è detto, ne sono state ipotizzate le ascendenze più disparate e remote.
Ne consegue che accanto alla storia reale della massoneria, per tale intendendo quella ricostruibile attraverso gli usuali strumenti della ricerca storica, ne sussiste o acquista rilevanza un’altra, anch’essa “storia” ma in senso molto peculiare, o più propriamente metastoria, che prescinde dal dato documentario e s’inscrive in un orizzonte diverso, nel quale i nomi, le date e gli avvenimenti s’inseriscono nella dimensione sacrale del simbolo e acquistano un significato “altro” rispetto a quello profano. Le due “storie” non si escludono reciprocamente, ma confluiscono entrambe in una nozione di tradizione leggibile e decifrabile secondo almeno due ottiche diverse, quella della lettera e quella dello spirito, governate da scritture e da cifre non omogenee.

Segreto e Riservatezza

Società iniziatica e non “società segreta”, la libera muratoria si fonda tuttavia su un “segreto”, cioè su un contenuto “non comunicabile” e “non esprimibile”, la cui conoscenza è possibile soltanto attraverso l’esperienza vissuta dell’iniziazione. Il vincolo del segreto sui riti iniziatici è ben attestato dall’antichità pre-cristiana, ma si ritrova anche successivamente. Curiosamente una delle migliori definizioni del segreto iniziatico è dovuta all’avventuriero veneziano Giacomo Casanova, come questi la espose nelle sue Memorie:
Coloro che si determinano a farsi iniziare liberi muratori soltanto per pervenire a conoscere il segreto, possono sbagliarsi, perché può capitar loro di vivere cinquant’anni maestri muratori senza mai giungere a penetrare il segreto di questa confraternita…
Il segreto della libera muratoria è inviolabile per sua propria natura, perché il libero muratore che lo conosce, lo conosce soltanto per averlo indovinato. Egli non lo ha appreso da alcuno. L’ha scoperto a forza di frequentare la loggia, di osservare, di ragionare e di dedurre. Quando egli vi è pervenuto, si guarda bene dal partecipare la sua scoperta a chicchessia, fosse anche il suo miglior amico massone, poiché, se costui non ha avuto il talento di penetrare il segreto, non avrà neppure quello di trarne partito apprendendolo oralmente. Questo segreto sarà dunque sempre un segreto.
Tutto quello che si fa in loggia deve essere segreto; ma coloro i quali per una disonesta indiscrezione non si sono fatto scrupolo di rivelare ciò che vi si fa, non hanno certo rivelato l’essenziale. Come avrebbero potuto rivelarlo se non lo conoscevano? Se l’avessero compreso, non avrebbero rivelato le cerimonie.

Codesto segreto concerne quindi gli elementi propri dell’iniziazione e del suo apparato simbolico-rituale, e non già ipotetiche attività svolte clandestinamente al riparo del Tempio, inconfessabili perché disdicevoli sotto il profilo morale e giuridico. Altra cosa è la riservatezza, ossia la facoltà di ogni associazione liberamente costituita di pubblicizzare o di non pubblicizzare le sue attività, quando non siano illecite o vietate dall’ordinamento giuridico. A questo riguardo va precisato che comunque pressoché tutti i rituali dei lavori muratori e delle relative cerimonie di iniziazione sono stati stampati in ogni lingua, a partire almeno dal terzo decennio del XVIII secolo, e che i nominativi dei dirigenti, così come le ubicazioni delle logge, sono sempre stati noti.
Lo scopo dichiarato e autentico dell’iniziazione muratoria è il perfezionamento spirituale del singolo individuo. Infatti, essa consiste nell’ammissione del candidato in un Tempio, ossia in un luogo esplicitamente sacro, che si pone a ricordo e a perpetuazione del Tempio di Gerusalemme. Mentre quello era consacrato a YHVH, il Dio dell’Antico Testamento, questo è costruito “alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo”, nomen di sostituzione che si conforma a un tempo all’impronunciabilità del Nome divino, alle origini di mestiere della muratoria e del suo patrimonio simbolico, e all’universalismo proprio dell’esoterismo. Corollari e conseguenza logica di questa primaria finalità sono gli scopi del perfezionamento morale del singolo e l’estensione di siffatta opera di perfezionamento, sul duplice piano spirituale/morale, all’intera società, intesa come “umana famiglia”.
Carattere peculiare ancorché non esclusivo dell’iniziazione muratoria è la sua dimensione collettiva: l’iniziazione è conferita al candidato da una collettività di iniziati e dà initium a un percorso conoscitivo di natura esoterica che prevede periodici momenti di confronto e di lavoro comune nell’unità-loggia, secondo un piano scandito da un preciso rituale e da un apparato di simboli, la cui funzione è quella di rivelarsi gradualmente al singolo iniziato e alla sua comprensione, che va progressivamente affinata mediante sforzi individuali, nei quali è dato avvalersi dell’esempio fornito dagli altri iniziati e, ove necessario e possibile, della loro assistenza. da: “La Massoneria – Storia, Miti e Riti” di Natale Mario di Luca, pubblicato dall’Atanòr nella primavera del 2000.    Acquista il libro
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FORME GIOMETRICHE ELEMENTARI

Vorrei fermare la vostra attenzione su due forme geometriche elementari e sul loro valore espressivo: il quadrato ed il cerchio, forme tra loro antitetiche ed i cui significati, solo apparentemente banali, inducono a riflessioni assai più profonde della loro superficiale evidenza. Il quadrato e il rettangolo, il quadrangolo insomma, è da sempre il modello geometrico cui si ispira il tracciato della casa, della piazza, del tempio e della città. In definitiva è la forma primaria scelta per ogni costruzione a servizio dell’uomo, delle sue esigenze terrene, della sua vita quotidiana. Al contrario, al cerchio si ispira l’ambiente funerario; la tomba, infatti, a cominciare dalla preistoria è di forma circolare, vedi le tholos dei periodo miceneo, i tumuli etruschi, i mausolei romani e bizantini, l’Augusteo, la mole di Adriano a Castel Sant’Angelo, la chiesa-tomba di S. Costanza, sempre a Roma, quella di Teodorico a Ravenna fino al mausoleo di Napoleone agli Invalidi di Parigi. E persino il Santo Sepolcro a Gerusalemme. Quindi il cerchio o il cilindro, che ne deriva, o la cupola, anch’essa generata dal cerchio, è la tipologia destinata alla vita ultraterrena. Perciò il quadrato o il cubo, che è l’equivalente di esso nello spazio, sembra ispirare finalità profane; mentre il cerchio ed i suoi derivati finalità religiose, sacre, metafisiche. Quale è dunque la ragione di queste scelte fra due modelli alternativi: l’uno, il quadrato, per la vita terrena, l’altro, il cerchio, per la morte o per finalità ultraterrene? In un ambiente caratterizzato da pareti rettilinee e da spigoli ortogonali la lettura, la comprensione dello spazio, della realtà, è immediata e di facile acquisizione. Diciamo che quello spazio è posseduto, è misurato, è facilmente acquisito dai nostri sensi. Quello spazio è dunque scandito, è razionale. Al contrario, in un ambiente cilindrico, non esiste un punto fermo, è tutto un “continuum”; la parete scorre all’infinito. Nel cerchio, infatti, non vi è né principio né fine; tutto ha una illimitata continuità. La dimensione, la comprensione dello spazio ci sfugge, è annullata. Ed annullandosi le categorie dello spazio e del tempo si recupera il senso dell’eterno, del sacro. Ecco, dunque, perché al quadrato e quindi al cubo si connette il concetto di profano, di terreno, di spazio sensoriale; mentre al cerchio, invece, quello religioso, sacro, extrasensoriale, metafisico. Per meglio capire quanto si è detto, vorrei condurvi ad un’ulteriore riflessione circa l’accezione religiosa e metafisica che attiene al cerchio. Per costruirlo, difatti, si ha bisogno di un centro. E la circonferenza, che ne è generata, altro non è che la proiezione, l’espansione all’esterno del centro. Ebbene, il significato esoterico del centro (e il centro in assoluto è Dio) è fin troppo evidente. Quello spazio generato dal centro non può che essere religioso. Così, per un uomo corretto, integro nella sua rettitudine, fermo nei propri principi e nei propri sentimenti, per un uomo ideale, insomma, si usa il termine “tetragono”, che etimologicamente significa “quadrato”. Il quadrato, dunque, è associato all’uomo per le sue qualità, per il suo stile di vita, per il suo comportamento soprattutto morale. Le considerazioni sinora dedicate ai significati esoterici del quadrato e del cerchio costituiscono le premesse essenziali per arrivare a capire il significato vero e profondo dei due simboli primari della Massoneria, gli emblemi araldici con i quali si manifesta ed è conosciuta dal mondo profano: la squadra ed il compasso. Cioè i due strumenti muratori che sono generatori del quadrato e del cerchio. I significati correnti per i due simboli puntano sulla rettitudine per la squadra (che ha in sé l’angolo retto) e sulla differente angolazione del compasso, che indica una graduale apertura del pensiero sul penetrare la realtà. Ma anche a questi livelli riduttivi, la squadra conserva il suo riferimento ad una sfera pratica in quanto la rettitudine si esercita nel quotidiano, mentre l’apertura dei pensiero coinvolge una attività dello spirito, quindi una crescita metafisica. E se si è precisato che la squadra ed il compasso sono simboli per antonomasia della Massoneria, ne consegue per essi un valore primario fra tutti i simboli che adornano il Tempio e nel rituale che si esercita. Si ispira alla squadra la posizione ad angolo retto dei “passi” e della “marcia”, delle luci dei tre candelabri, la squadratura nella deambulazione in Loggia e la posizione “all’ordine” dei tre gradi massonici. Persino il passaggio “dalla perpendicolare alla livella”, nella promozione da Apprendista a Compagno, fa riferimento alla squadra. Tutti questi esempi sottendono significati di operosità, di disciplina e di progressione nella rettitudine. E basti pensare che il gioiello del M:.V:. è la squadra e che nel suo grembiule appare il segno del Tau che è formato da una doppia squadra. Ed a me piace ipotizzare che il riferimento, oltre che alla rettitudine, dote che il “primus interpares” possiede al massimo grado, si indirizzi soprattutto alla sua operosità come guida nei lavori di L:., quindi ad una sua attività pratica di esercizio di governo, riconducibile, pertanto alle prerogative dei quadrato e del cubo.   A questo punto bisognerà sciogliere una contraddizione, che è solo apparente. Perché mai il Tempio ed il nostro Tempio si ispira al tracciato dei quadrato o del rettangolo mentre è il cerchio che esprime la forma elettiva del sacro? Altra volta ho precisato che in antico il culto si esercitava all’aperto, che l’ara, cioè l’altare, era all’esterno in adiacenza alla scalinata del tempio e che questo era considerato l’abitazione della divinità e quindi si ispira al modello della casa. Va, infatti, ricordato che la cella, che custodiva il simulacro dei Dio, si designava col termine “naos” da nao che significa “abitare”, io “abito”. Ma, sapete quale era il significato originario della parola “Tempio”? Oggi lo usiamo per definire l’edificio sacro costruito, ma in antico “Templum” designava quel cerchio, cioè quello spazio di cielo, che l’augure tracciava col “lituo” nell’aria, ottenendo il consenso divino, cioè la rivelazione in quello spazio così designato. Quindi il Tempio altro non è che la proiezione in terra del “Templum” celeste. Ed ancora oggi l’etimo del verbo contemplare, cioè guardare in cielo, conferma quell’antico rituale. Potremmo dire che passando dalla sfera del divino a quella umana, alla realizzazione terrestre, il cerchio si mutava in quadrato o rettangolo. Altrettanto potrebbe dirsi del Tempio massonico, per il quale, oltre al modello salomonico, vale l’incidenza e la preminenza di finalità operative, che lo vincola all’attività umana del lavoro, dell’operosità. E, pertanto, sinonimo di Tempio è Loggia, Officina. Rimane comunque canonica la forma circolare al Tempio e valgono gli esempi del Pantheon o dei cosiddetti Templi di Vesta, ove, come tutti sanno si custodiva non il simulacro della Divinità ma il fuoco sacro, ipostasi evidente del divino.   E per il compasso? Vorrei ricordare che questo strumento è considerato l’attributo del Grande Architetto dell’Universo. Si è già detto del significato di sacro e profano del centro generatore del cerchio ed implicitamente del compasso che ne è lo strumento. Dante, nel 19° canto del Paradiso, citando il Grande Architetto dell’Universo, parla di Dio come “colui che volse il sesto (cioè il compasso) allo stremo del mondo e dentro ad esso distinse tanto occulto e manifesto”. La congiunzione del quadrato con il cerchio esprime sempre una correlazione del cielo con la terra, una jerogamia del cosmo. Ed il “mandala” tibetano, simbolo, appunto, del cosmo è formato dal cerchio, il cielo, che avvolge un quadrato, la terra. Altrettanto è per la Mecca, dove il cubo nero della Ka-aba si erge in uno spazio circolare bianco. Una semisfera, la cupola, con significato di cielo, sovrasta il presbiterio cubico nelle chiese cristiane. Le estensioni simboliche del cerchio, che, opposto alla staticità immanente e cristallizzata del quadrato, definita nello spazio, esprime invece fluidità, dinamismo continuo, illimitato ed invariabile; può rappresentare oltre al cielo, il tempo e la trascendenza. Ed ovviamente tutti i significati derivanti dal quadrato e dal cerchio sono trasferibili, come già si è visto, agli strumenti generatori delle forme suddette, cioè la squadra ed il compasso. Quando il compasso si coniuga con la squadra, sovrapponendosi, al libro sacro, aperto al versetto di Giovanni “in principio erat verbum”, formula magico-religiosa di creazione, è come se quel suggello impegni il Cielo (compasso) e la Terra (squadra) a determinare una nuova creazione del mondo, a promuovere, cioè, un nuovo ordine, un evento dello spirito che ci ponga in armonia col Cosmo. Lo spazio ed il tempo ne vengono rigenerati, perdono così ogni connotazione naturale, cade ogni barriera fisica. Per cui le dimensioni del tempo diventano infinite, come recita il catechismo dell’Apprendista, e perciò nel Tempio si identificano, si assommano tutti i Templi. L’Oriente non ha più alcun condizionamento geografico ed il tempo non ha più il codice storico dell’orologio, così la pienezza di luce solare non è più correlata a condizionamenti atmosferici. Avviene, quindi, una rottura di livelli, una trasmutazione dal fisico al metafisico, dal profano al sacro. Gli stessi strumenti dell’arte muratoria, l’abbigliamento, il tipo di lavoro, si elevano da oggetti a simboli. L’attività non è più materiale, ma spirituale; il Tempio incompiuto, per il quale si approntano mattoni e si squadrano pietre grezze, è diventato quello interiore che cresce di livello col nostro progressivo affinamento. E a ben riflettere sulle diverse posizioni fra la squadra e il compasso nel rituale dei tre gradi massonici, si noterà agevolmente la progressione fra i lavori in Camera di Apprendista, nei quali la squadra si sovrappone al compasso ad individuare ancora una prevalenza operativa della materia sullo spirito, per arrivare, infine, alla Camera di Maestro, nella quale, come recita il rituale “il compasso è finalmente sovrapposto alla squadra”, dopo aver salito, si badi bene, una scala curva formata da cinque scalini, che, ovviamente, hanno il profilo a squadro. L’inciso “finalmente” vuol significare una meta raggiunta, cioè la preminenza speculativa del pensiero sull’azione, il dominio della spiritualità sulla brutalità della materia, il superamento delle passioni, il predominio della saggezza sugli istinti, del razionale sull’irrazionale. Ma più che uno stadio conclusivo è una nuova soglia di perfezione, che informerà l’ulteriore comportamento in ascesi dell’uomo iniziatico.   Insomma, i due simboli dominano ed informano la vita del libero muratore; egli vive, così, “fra la squadra e il compasso”.
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LA VIA REALE

LA VIA REALE

(Messaggio ritrovato nei nostri Archivi da un vecchio membro dell’Ordine)

Certamente conoscete quell’inserzione ispirata che il nostro Ordine fece apparire in diversi giornali e riviste; cominciava così:

«L’uomo deve morire senza aver liberato il suo IO interiore? Possiamo conoscere l’esperienza di una evasione momentanea dell’anima, ossia diventare uno con l’universo e ricevere l’influsso della divina comprensione?»

In molti di noi quell’annuncio provocò uno choc che determinò l’affiliazione all’A.M.O.R.C.. Forse ciò successe sei mesi, due, cinque o dieci anni dopo, poco importa. Quanto esporremo sarà valido per tutti qualunque sia il momento in cui avete cominciato a calcare il sentiero che conduce alla comunione cosmica.

Insieme cammineremo su questo via, insieme faremo i primi passi, segneremo le lunghissime tappe che comporta, vi metteremo in guardia contro i pericoli e rianimeremo il vostro coraggio rischiarando il percorso.

Innanzi tutto ricordiamoci del nostro stato mentale quando abbiamo varcato il portale che apre su questa via reale. Solo l’entusiasmo può far cedere questo portale, e solo il soffio della nostra meraviglia, del nostro stupore ne ha forzato i battenti e ci ha buttati sulla strada. Eppure, una volta passato il primo entusiasmo, ci siamo rapidamente resi conto che per procedere nella luce era assolutamente necessario avere in ogni istante il controllo sul pensiero.

Nell’antichità, dove la maggior parte dei governi erano teocratici, la vita politica e sociale era concentrata nei templi all’ombra dei quali si formavano i grandi saggi di quelle epoche scomparse. Ci inchiniamo con ammirazione davanti ai loro metodi che hanno prodotto i Platone, i Pitagora, i Socrate, i Virgilio, i Seneca e tante altre glorie dell’umanità.

In futuro questi metodi saranno certamente ripresi, ma oggi non sono praticabili, non ci appartengono. I metodi antichi erano fondati sul discernimento sintetico dove DIO appariva come l’universo in manifestazione in tutte le sue parti e in tutti gli atti della creazione. La nostra epoca, al contrario, è dominata dallo scienziato che, partendo dal discernimento analitico, va dal fenomeno a DIO. Ora, accade che il saggio dell’antichità e lo scienziato si incontrino. La scienza moderna sta verificando i più vecchi insegnamenti del mondo: i nostri scienziati nei loro laboratori, convertendo la luce in materia e riconvertendo quest’ultima in luce, verificano l’insegnamento dei Veda e quello trascritto sulle tavolette babilonesi, e cioè che DIO creò prima la luce e che la materia è solo la condensazione dell’energia radiante.

Tutte le forze oggi conosciute lo erano anche dagli antichi i quali ne conoscevano altre che presto a loro volta gli scienziati troveranno. Sappiamo per esempio che i saggi dell’antichità erano capaci di concentrare l’energia elettrica nel corpo umano e scaricarla istantaneamente quando ce n’era bisogno per infondere terrore ai loro nemici. Si sono trovate, in molte tombe delle lampade perpetue che hanno fatto sognare i nostri scienziati.

Così dunque, come i saggi dell’antichità, i no­stri scienziati d’oggi non credono alla materia. Sono del resto all’inizio del loro cammino, ma penetreranno nel mondo psichico per esplorarlo di nuovo in modo insospettabile.

Non si formano più i saggi all’ombra dei templi. Nelle grandi scuole che li hanno sostituiti, si forma un altro tipo umano nel quale prevale la cultura intellettuale. L’uomo moderno poggia la sua ispirazione sui concetti logici e dà un’interpretazione moderna alle antiche pergamene. Non necessita più di dogmi, vuole cogliere le correnti di forza che si esprimono nella lingua del nostro secolo. È mediante queste correnti che le dottrine antiche gli diventeranno accessibili. Ora, con la radio, i giornali, i libri, le riviste di ogni tipo, queste correnti si propagano nel mondo intero con una forza considerevole. Le idee, gli insegnamenti di ogni genere, le più grandi verità sono lanciate alla rinfusa, a caso e il seme germoglia dove può. L’uomo moderno, per questo, annaspa da tempo nel falso sapere dettato solo dalla sua mente. In questo periodo la sua anima si dissecca e si vuota di ideale, fino al giorno in cui gli verrà la certezza che al di là della mente c’è qualcos’altro, un altro mezzo di conoscenza. Allora sarà pronto a forzare i battenti del portale che apre sulla VIA REALE.

In verità questa via non è cambiata, sono solo variati i mezzi.

Oggi come ieri essa si apre all’interno dell’uomo; è infinitamente lunga e difficile da percorrere.

Oggi come ieri il luogo d’incontro di DIO e dell’uomo è nel cuore; e, come ieri, bisogna arrivare a vivere le verità che esprime; bisogna svilupparsi al massimo sui tre piani nei quali l’uomo è chiamato a operare: intellettuale, psichico e spirituale. Si dice che Pitagora consacrò 32 anni a questa preparazione.

Secondo Platone l’umanità aspira a questi quattro valori: amore, salute, gloria e ricchezza.

L’iniziato deve elevarsi al di sopra di essi e volgere il suo sguardo verso la verità, valore assoluto, ideale.

Avanziamo dunque ora sul cammino. La prima tappa è la più lunga, la più dura, la più complessa da percorrere. Ci sono tante cose da distruggere! Bisogna dissodare l’anima per il seme, bisogna purificare la natura umana dagli elementi negativi derivanti dai pregiudizi del retaggio, dell’educazione, dei difetti, dei vizi.

Molti sono incapaci di comprendere questo lavoro di distruzione della personalità terrestre. Vorrebbero all’istante unirsi al DIO del loro cuore. Certo, la divinità è nell’uomo; certo è nell’intimo di noi stessi che DIO può essere raggiunto e sentito, ma la maggior parte non suppone le incommensurabili distanze che separano il loro stato di coscienza da DIO come essere cosciente. Immaginano di essere «a tu per tu» con Lui.

Ci è impossibile identificarci con il nostro ESSERE SPIRITUALE eterno fintanto che non è nato in noi. È necessario che la nostra VOLONTÀ ETERNA, cioè DIVINA, si perfezioni in una forma pura e limpida secondo la legge. Ma questa forma pura non può nascere e svilupparsi in noi senza la morte della nostra personalità terrestre che è destinata a essere in qualche modo sostituita da quella forma. Quando diciamo «morte», vogliamo dire: trasformazione radicale, poiché le energie che costituiscono la nostra personalità terrestre non possono morire, possono solo cambiare direzione; si tratta di morire a uno stato attuale per accedere a uno stato nuovo dell’a­nima.

Fintanto che questo lavoro di distruzione non è terminato e la personalità terrestre sussiste, malgrado il nostro grande desiderio di trovare DIO e unirci a lui, non ci sarà possibile; potremo unirci a una creazione della nostra personalità che potremo anche confondere con Dio in noi, ma non senza pericolo.

Insomma, che cosa dobbiamo distruggere?

L’orgoglio, l’impazienza, l’egoismo, i falsi pregiudizi, le concezioni errate dettate dall’egoismo o dalle convenzioni. Ci occorrerà imparare a riconsiderare i valori, a mettere in secondo piano quelli che mettiamo al primo.

Dovremo coltivare il rispetto e la venerazione poiché un atteggiamento scettico o di derisione abbassa la dignità individuale. Colui che nella sua anima non porta rispetto per il Principio Divino non può essere un iniziato. Certo, la natura ignora l’uguaglianza, ma conosce la solidarietà; e il rispetto e la venerazione generano l’obbedienza, l’umiltà e la pazienza.

La necessità di acquisire queste virtù appartiene a un certo grado di evoluzione; esse sono legate al sentimento cosmico delle cose. Sono assolutamente inaccessibili all’uomo comune.

L’orgoglio, la vanità, sono i più grandi ostacoli che si incontrano sul cammino e, senza la pazienza, qualunque progresso è impossibile. Non ci si rende conto all’inizio quanto siano lenti i processi di evoluzione universale; occorrono molti sforzi e pazienza prima di pervenire a un successo; l’impazienza annulla di colpo tutti i progressi acquisiti. La pazienza è assolutamente necessaria per dominare le passioni. L’iniziato deve diventare il maestro di se stesso prima di diventarlo per altri.

A dire il vero, la pazienza richiestaci è senza limite. Nella vita comune gli uomini la applicano sporadicamente, ma per quanto ci riguarda dobbiamo applicarla permanentemente.

Obbedienza, umiltà, pazienza, sono alla base dell’evoluzione dell’anima. E per acqui­sire queste virtù, siate certi, le prove morali non mancheranno mai. Bisogna sottomettersi a questa inevitabile necessità anche se ci sembra ingiusta e irrazionale.

Le lotte intime, le rivolte, le esitazioni segnano questa prima parte del cammino. Ogni volta che c’è una velleità d’orgoglio, la prova di umiltà segue immediatamente. Lo scoglio più terribile è lo spirito critico del nostro cervello. Tuttavia, non siamo capaci di una critica imparziale poiché ignoriamo le tappe del percorso e ci manca il colpo d’occhio d’insieme; d’altronde, con l’intelligenza e a misura dei nostri progressi spirituali vedremo i nostri errori.

La prova più terribile è quella della pazienza. Esige uno sforzo costante, terribile, lungo: non si sa che ne sarà, quanto durerà lo sforzo. Bisogna prepararsi a esercitare una pazienza illimitata e non si sa mai se si raggiungerà lo scopo. Questa prova talvolta porta alla disperazione.

In verità ci accorgiamo molto presto che questa via sublime non impegna solo la mente, ma l’intero nostro essere: è la vita con le sue esperienze, le esigenze, le sofferenze, con i problemi capaci di sconvolgere, di provocare degli choc che sono altrettante prese di coscienza capaci di far maturare l’anima.

Giorno dopo giorno la vita costituisce un esercizio continuo. Non si può eludere la vita, tutta la vita al contrario serve da esercizio poiché tutto quello che vogliamo trovare è nella vita giornaliera. La Vita quotidiana è anche l’esercizio più efficace che ci sia e, siatene certi, ognuno di noi ha esattamente il posto che gli è più congeniale per effettuare l’esercizio di cui ha bisogno. Ogni minuto della vita deve costituire una presa di coscienza totale. L’anima e il corpo non devono essere considerati separatamente, non si tratta di spiritualizzare il corpo ma, al contrario, di pervenire, mediante le forze del­l’anima, all’incarnazione dello Spirito Eterno dell’uomo sulla terra. Non si deve disprezzare il corpo, ma è necessario a che creda all’esistenza dell’IO ETERNO che è in lui. Questo Io Eterno è la sorgente delle forze, ma il corpo, è un recipiente dal quale attingere queste forze; non è dunque da disdegnare, è utile, ma deve essere trattato da subalterno.

Con questo lavoro di distruzione della personalità terrestre non usciamo dal piano materiale. Il nostro compito è ancora grande su questo piano: dobbiamo elargire la nostra co­noscenza, sviluppare al massimo le nostre facoltà fisiche, intellettuali, morali, per le lotte sempre più ardue che avremo da sostenere.

Dobbiamo imparare a sviluppare il nostro giudizio obiettivo. Nell’uomo comune il giudizio è quasi sempre soggettivo, cioè dettato dalle sue passioni, dal suo temperamento, dai suoi sentimenti, per questo quasi sempre si inganna.

Bisogna dunque che ci dedichiamo a sondare i motivi segreti dei nostri atti, del nostro comportamento; dobbiamo sviluppare in noi lo spirito di discernimento per essere in grado di comprendere l’animo umano. La psicologia, la filosofia sono dei collaboratori preziosi. Per quanto possibile coltiveremo le scienze sul piano materiale, poiché se l’intelletto non può parlare delle cose che non conosce, può tuttavia rendersi conto dell’esistenza di una legge la cui azione permette a certe circostanze di passare sul piano materiale della manifestazione. Così impiegato l’intelletto è il servitore della forza che plasma le circostanze.

L’iniziato non deve cadere né nell’errore del mistico puramente emotivo né in quello del metafisico puramente intellettuale; deve acquisire un’esperienza vasta e profonda in questo mondo disprezzato dagli uni e sovrastimato dagli altri. Solo in questo mondo e da nessun’altra parte possiamo compiere il nostro destino, realizzare la nostra più alta individualità. Ci vengono forniti tutti i mezzi affinché possiamo prendere coscienza dell’IO SUPREMO. L’esperienza del mondo ci è stata imposta dallo SPIRITO; e questo mondo fisico è il punto cruciale dove dobbiamo scoprire la verità mentre siamo nella carne.

Perciò non voltiamo le spalle alla vita, significherebbe far avvizzire il nostro cuore: non condanniamo niente e non cerchiamo di identificarci in niente; ogni identificazione e ogni condanna provocano il conflitto dei contrari, e un conflitto ne genera altri. Dobbiamo restare aperti a tutti gli aspetti della vita senza eccezione e avvicinare ogni cosa senza emozione, senza rifiuto, senza giustificazione; il nostro atteggiamento, allora, non provocherà più conflitto poiché un fatto in sé, non ha contrari; è il piacere o il malessere che proviamo avvicinandolo che provoca i contrari. La REALTÀ non può essere percepita finché non cessa l’opposizione dei contrari.

Senza uscire dal piano materiale arriviamo al termine della nostra prima tappa dove bisogna dire SI alla più alta esigenza del nostro essere.

Da molti dettagli ci accorgiamo che il nostro modo di sentire, di reagire, ha subito un rinnovamento. L’orgoglio degli altri non ci disturba più e, quando nella nostra coscienza constatiamo continuamente le nostre «mancanze» e la nostra impotenza, non ci indispettiamo né sorprendiamo che anche gli altri se ne accorgano. Ci rendiamo conto anche che tradiamo meno frequentemente i nostri pensieri, nel senso che conformiamo i nostri atti ai nostri pensieri a misura delle prese di coscienza che diven­tano sempre più numerose.

Tuttavia, non lasceremo questa prima tappa senza darvi un consiglio di considerevole portata.

Se è facile parlare di rinuncia, se è agevole dare il via alla presa di coscienza di noi stessi per distruggere la nostra personalità terrestre, è molto più difficile farlo, e non ci sbagliamo dicendovi che nessuno può riuscirci senza due aiuti di una potenza infinita: la FEDE e la PREGHIERA; queste vanno mano nella mano e sono inseparabili.

 Finché noi stessi non siamo in grado di fare delle verifiche, solo la fede può stimolarci, darci il coraggio e mantenerci fermi sul cammino; solo la preghiera può ridarci le forze nell’ora dolorosa in cui siamo presi dallo scoraggiamento sulla via che abbiamo scelto.

Nel corso della prima tappa solo la preghiera sarà il nostro legame con la divinità.

Pregare non è un esercizio riservato ai deboli. Non si tratta di fare i mendicanti davanti alle porte dello splendore divino. Non è nemmeno una pozione calmante, un rimedio contro la paura, la sofferenza, la malattia, la morte.

Pregare è la cosa più naturale che ci sia, è nutrire l’anima, darle il suo pane quotidiano. Noi moriamo di fame spiritualmente. Abbiamo bisogno di respirare per vivere, ma ci bagniamo anche in un mondo spirituale e la nostra anima ha bisogno di impregnarsi di questo agente spirituale proprio come il corpo ha bisogno d’ossigeno. Non è con il cervello che preghiamo, ma con il cuore; si sente Dio come il calore del sole, come il profumo di un fiore.

Procediamo per analogia e facciamo un esempio sul piano materiale. Supponiamo che siate spossati dalla stanchezza, mezzi morti dal freddo. Che cosa fate? Che cosa desiderate con tutte le forze dal vostro essere? il riposo e un dolce calore. Niente al mondo conta per voi più del riposo e del calore. E quando vi sarete seduti confortevolmente davanti a un bel fuoco, dubiterete di essere riscaldati, supplicherete il fuoco di riscaldare le vostre membra intorpidite? Sarebbe follia. Vi accontenterete di sedere ad una giusta distanza e direte: Dio mio! Come si sta bene qui… Tutte le cellule del corpo si lasceranno penetrare dal calore irradiante e una dolce voluttà vi invaderà; automaticamente riprenderete le vostre forze e facoltà. Ebbene, pregare non è altro che andare a riscaldarsi e a rinnovare le forze e le facoltà al divino focolare di pura luce che possiamo raggiungere solo per mezzo della scintilla divina nel profondo di noi stessi. Cerchiamo dun­que il più spesso possibile una presa di contatto con questo incalcolabile potenziale di energia e lasciamo scorrere i suoi flutti nelle vie che avremo preparato dentro di noi.

Eccoci pronti a intraprendere la seconda tappa. Non ci è stata risparmiata alcuna prova. Queste prove non le abbiamo subite nel tempo, ma nella vita, nel momento esatto in cui dovevamo subirle; ogni prova da cui siamo usciti vittoriosi ha decuplicato le nostre forze. Possiamo ora avvicinare il campo dell’anima, cominciare le nostre esplorazioni sul piano psichico. Abbiamo imparato a conoscere certe leggi e cominceremo a sviluppare i poteri latenti dell’anima: il nostro grado di purezza e di coscienza ci permetterà di non dubitare di questi poteri. D’altra parte, a questo stadio, un desiderio si precisa in noi e si fa ogni giorno più ardente: tradurre in tutta la nostra vita la volontà dell’IO ETERNO e far tacere la volontà dell’ego.

Certo, siamo ancora lontani dall’aver spezzato le ultime barriere della prigione mentale e le lotte contro la personalità terrestre continuano; ma, ormai, in ragione dei terribili sforzi che avremo fornito, alte potenze ci verranno in aiuto e vi diremo più avanti in quale modo.

La cultura morale, intellettuale, continua senza interruzione; prende un’estensione e una forma sempre più elevata. Non ha più un carattere individuale, ma universale, ci impone l’obbligo di atti utili. L’amore cambia piano e abbraccia tutta la creazione; crea anche degli obblighi: tendere una mano soccorritrice ai buoni come ai cattivi quando li si vede soffrire e smarrirsi.

Impariamo a essere un giudice imparziale. In una parola, cambiamo sfera di evoluzione e passiamo dal piano materiale al piano spirituale. È da questo momento che cominciano il nostro isolamento e le prove che ne risulteranno.

Il controllo delle sensazioni è continuo in ogni istante. Questo controllo, e il potere di concentrazione, servono da regolatore delle passioni mettendo un freno alle cattive e stimolando le buone. Goethe diceva che la sola cosa che lo distingueva dal resto dell’umanità era il potere che aveva su qualunque soggetto. In questa tappa dobbiamo poter fermare i nostri pensieri su un soggetto scelto per il tempo necessario a considerarlo sotto tutte le sue sfaccettature.

In questa tappa inoltre adotteremo l’atteggia­mento che ci permetterà di ascoltare «LA VOCE DEL SILENZIO». In un isolamento completo, lontano dal mondo, dai rumori, impareremo ad attingere nel silenzio mistico della natura insegnamenti universali. Per questo dobbiamo sgombrare ogni ostacolo creato dal mondo materiale. In quello stato possiamo analizzarci, notare i nostri difetti, mettervi un freno e ascoltare l’insegnamento del grande silenzio pieno d’armonia.

A questo punto ci accorgiamo che l’istinto primitivo che spinge l’uomo comune ad attaccare appena si sente leso, scompare. Non c’è più esplosione di passioni: tutto si calma e si neutralizza; comprendiamo la nostra solidarietà con il resto dell’umanità e la scusiamo invece di opporle il nostro egoismo personale.

LA VOCE DEL SILENZIO ci aiuta a comprendere il problema del bene e del male. Vediamo l’antinomia universale portare l’uomo, attraverso il gioco delle forze contrarie, allo scopo supremo della sua evoluzione. Impariamo anche che è nella lotta che maturiamo e diventiamo coscienti.

LA VOCE DEL SILENZIO ci spiega la grande le­zione del dolore mediante la quale si ri­genera l’intera natura. Ogni nascita corrisponde a una morte, ogni sofferenza genera una speranza e la speranza una gioia. E in questo ciclo eterno il dolore si alterna invariabilmente alla gioia.

Infine, LA VOCE DEL SILENZIO chiama verso le regioni del sacrificio, consacrazione su­prema della Verità.

Allora, quel porci eternamente domande, cessa. Diventiamo silenziosi. Tuttavia l’ego personale non è ancora morto e i colpi di martello si abbattono ancora sull’incudine. I poteri dell’anima sono sempre molto indisciplinati e non portano ancora né il sigillo della padronanza, né quello della grandezza, a causa della presenza ancora attiva dell’ego.

Simile a una sentinella siamo dunque sempre sul chi va là poiché le trappole degli altri e quelle che ci tende il nostro ego sono numerose e inattese. Il combattimento ci sembra senza fine, ignoriamo i progressi che abbiamo fatto; non sappiamo né quando né come potremo arrivare e dobbiamo attingere in noi le forze necessarie alla lotta. Allora, a quel punto, proviamo una delle torture morali più penose: il dubbio. Dopo il sacrificio di tutto il nostro io egoista, ci domandiamo con angoscia se tutto questo serve a qualcosa, se la nostra vita non è stata sprecata; un profondo scoraggiamento ci invade e conosciamo la tristezza spirituale.

È una crisi dell’anima abbattuta dal grande sforzo morale che ha dovuto sostenere per distruggere i legami della materia. La sua vittoria l’ha esaurita. È il vuoto, è l’angoscia profonda. Tutto scompare: la fede, l’entusiasmo, il fuoco sacro; è lo scorag­giamento più assoluto. Uno spirito di rivolta ci tortura, i nostri maestri ci sono odiosi, la nostra missione ci sembra irrealizzabile e la verità per la quale abbiamo tanto lavorato ci ap­pare un miraggio. Stanchi, scoraggiati, spossati, aspiriamo solo alla calma solenne della morte. Eppure, lontanissima, appena percettibile, vive ancora una speranza, il tempo passa: non si muore; e un giorno una parola, una lettura, un episodio riattizza il fuoco; l’oscurità si disperde, è la convalescenza. La crisi è terminata, ma siamo senza forza sebbene la luce sembri più risplendente che mai.

Prove spirituali, poteri occulti, conoscenze assimilate mediante un lavoro assiduo ci portano alla fine della seconda tappa. La materia si riduce, riconosce la supremazia dello Spirito, fra poco obbedirà.

Simile al soldato che ha provato le sue forze su tutti i campi di battaglia, abbiamo trionfato su gran parte della personalità materiale, la lotta deve continuare, ma la rosa, quando l’anima arriverà a maturità, sboccerà infine sulla croce. La formazione del Cristo in noi può prodursi solo nello stato che contiene in se stesso le virtualità di Dio. Essa è perfetta, ma è necessario che nasca, si ingrandisca e si espanda nella vita. Il chicco umano è destinato a diventare il SIGNORE del piano dell’anima.

Se i poteri psichici ottenuti sono ancora deboli non preoccupiamocene oltre misura, adottiamo deliberatamente l’atteggiamento seguente:

Fissiamo il pensiero, i sentimenti, il volere sull’uomo spirituale perfetto in noi. Questo atteggiamento interiore deve essere continuo, durante qualunque compito, in tutte le circostanze e i gesti della vita quotidiana. Insomma, dobbiamo essere come un telescopio costantemente puntato sull’uomo spirituale che vive, agisce, si manifesta grazie al suo strumento fisico: il corpo materiale.

Dobbiamo noi stessi, grazie alle nostre stesse forze, provocare la metamorfosi in ogni attimo della vita, in ogni comportamento quotidiano, in ognuno dei nostri pensieri, in ogni desiderio, in ogni slancio. Tutto, assolutamente tutto, deve essere sottomesso al controllo della volontà formatrice. Il nostro atteggiamento non deve mai rilassarsi, bisogna che determini tutta la nostra vita giornaliera.

Allora siate certi accadrà quanto segue:

Senza il vostro concorso cosciente si formerà un centro di forza ogni giorno più rilevante. Un legame allora si stabilirà tra questo centro e altri centri o nuclei di forza simili, già perfetti, senza che dobbiate intervenire mediante un atto di volontà qualunque. Non appena si stabilirà questo legame beneficerete dell’aiuto spirituale di co­loro che hanno già trovato. Sarete diventato un punto ricettore sintonizzato su una certa lunghezza d’onda spirituale. Non c’è bisogno di un volere cerebrale per creare questo centro, al contrario, esso impedirebbe il processo di cristallizzazione delle forze che si precipitano le une verso le altre per costituire questo nuovo centro indipendente dalle funzioni cerebrali.

Dopo questo contatto con gli aiuti spirituali le vostre forze saranno di nuovo sottoposte a una specie di prova i cui risultati determineranno l’aiuto ulteriore che sarà in armonia con il vostro grado d’evoluzione. Sono questi aiuti che permettono di completare il lavoro e solo i più forti, i più puri, arriveranno all’unione con la luce originale.

Unirsi al Sé luminoso è conoscere la propria individualità indistruttibile e provare simultaneamente in sé la coscienza di tutte le individualità spirituali manifestate negli esseri umani. L’essere è fuso in una forza di coscienza collettiva, ma la sua coscienza non si dissolve nella coscienza comune. Fa l’esperienza della vita cosciente nell’Io Supremo. L’ego allora si abbandona completamente e può dire in tutta umiltà: «Che la tua vo­lontà sia fatta». Non scompare, diventa un organo mediante il quale agisce l’Io Supremo. Da una parte l’uomo è collegato al principio primo, dall’altra a tutta l’umanità. È diventato un centro di concentrazione dello Spirito e questo centro diventa a sua volta uno strumento di penetrazione nell’intelletto degli uomini per provocare il loro risveglio spirituale.

Solo allora l’iniziato può permettersi di dire che il corpo è irreale, poiché il corpo resta reale finché non abbiamo realizzato Dio. Se dico che il corpo è irreale, mi inganno e inganno gli altri, ma se ho realizzato Dio, io vedo che è irreale. E questo Dio personale che l’iniziato realizza è reale dal piano in cui lo realizza, così come il corpo è reale sul piano fisico, ma, oltrepassato questo piano, scompare, non è più reale del corpo. Quel Dio è stato creato dalla volontà libera e cosciente dello Spirito che forma se stessa e diventa per se stessa un Dio.

Quando questo Dio sarà nato in noi saremo usciti dal turbinio delle vibrazioni mentali e il Cristo in noi camminerà nella vita senza paura. Il male, il peccato, i limiti, la morte, il timore, la paura, tutto scomparirà dalla mente e cammineremo in tutta tranquillità senza inquietarci per tutte queste cose. Non sprecheremo più il nostro tempo nel cercare l’affermazione e la felicità, perché la porta del tempio sarà sempre aperta per noi e potremo trovarvi il nostro Dio, quella presenza. Ogni tumulto cesserà, avremo trovato l’ultimo rifugio.

Non saremo più divisi tra i nostri desideri impotenti e le nostre angosce divoranti. Nella nostra anima regnerà una grande calma, quella che riflettono i colossi d’Egitto. È stato chiamato ieratico il portamento delle statue egiziane. Questo termine si adatta loro ammirevolmente e niente evoca meglio l’iniziato di questi visi improntati di una nobiltà, di una grandezza serena incomparabile.

Questa calma l’iniziato la ottiene dopo dura lotta. Giunto al termine del cammino sa che tutte le sofferenze, le prove, le sventure sono per il bene. Questa opinione, è vero, non è quella di tutti. Incompreso, può accadere che diventi vittima della cecità umana, ma egli accetta la sua croce. La sua ricompensa è l’illuminazione, fonte di rivelazione al di sopra di tutte le fonti, esperienza eminentemente solenne e convincente per colui che l’ha avuta nella sua forma più pura. Egli cammina sicuro e risoluto perché l’essenza nascosta delle cose e il senso intimo della sua missione gli sono stati rivelati. Ora può affrontare gli ostacoli poiché la sua anima è forgiata in potenza e conoscenza. Il suo cuore è divorato dal fuoco ardente della fede e le sue armi invincibili gli assicurano la vittoria finale.

Ascoltatemi: La strada è lunga e dura e nell’ora dolorosa in cui sarete tentati di lasciarvi cadere per la stanchezza, mormorate questi brevi versi tratti dal Salmo della Vita di Longfellow (traduzione Mme de Pressensé):

Va!, e che ogni giorno ti trovi alla sua aurora,

Più prossimo allo scopo sacro, con la fiaccola nella mano! 

Agisci!, il tempo è breve, corre e divora 

Ciò che non è reale, immortale e divino. 

Che il tuo piede sulla soglia lasci un’impronta nobile 

E forse, seguendo i tuoi sentieri dopo di te, 

Qualche spirito agitato dal dubbio o dal timore 

Ritroverà la speranza, il coraggio e la fede.

Lascia al vago avvenire le sue lontane promesse, 

Allo sterile passato i suoi sorrisi d’addio, 

Allontana i sogni d’oro e le fiacche tristezze, 

Il presente dipende da te, il resto da Dio

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LA ROSA, SIMBOLO DI PSICOLOGIA SPIRITUALE?

LA ROSA, SIMBOLO DI PSICOLOGIA SPIRITUALE?

    Per decenni, in questo XX secolo, si può dire che, in generale, psicologia e spiritualità sono state considerate antinomiche. Jung, tuttavia, ha messo bene in evidenza l’importanza della dimensione spirituale come fattore di evoluzione dell’essere umano che è un essere in divenire con reali capacità di cambiamento. Ma riconosciamo che forse Jung è stato poco capito e che la maggior parte degli insegnamenti della psicologia nelle università resta perfettamente improntata al pensiero materialista, cosa che del resto va contro il fenomeno del recupero di interesse per la spiritualità, fenomeno che troviamo da venti o trent’anni e che dovrebbe portare il suo contributo di rimessa in causa in molti campi.

    Parlare di psicologia spirituale è considerare nella sua totalità la dimensione spirituale dell’essere, nell’ambito stesso dell’approccio psicologico. Dunque non è soltanto interessarsi al bambino, all’infanzia, al vissuto psico-affettivo, al vissuto professionale di un individuo, ma anche considerare il vissuto spirituale o il risveglio spirituale con le qualità psichiche che vi si riferiscono come l’intuizione, per esempio, e con tutta la simbologia che può riferirvisi o derivarne, simbologia che si esprimerà nei sogni, attraverso il corpo fisico (simbologia corporea), il corpo psichico (psico-energetico), alcuni avvenimenti interiori e certe malattie significative. E’ anche analizzare gli elementi dell’ombra in noi, cioè gli elementi negativi del nostro Io, gli elementi che causano problemi e che devono essere riconosciuti come tali e canalizzati per essere poi trasmutati (come l’aggressività o la passività che sono riconosciuti tali consciamente e che possono poi essere trasmutate con gli anni in un’energia positiva disponibile per altre cose). Ed è anche integrare fenomeni che escono dall’ordinario e sono motivo di interrogativi come le esperienze NDE, alcune visioni mistiche, la sincronicità, il rapporto alle vite anteriori, ecc.: tutto ciò fa parte dell’alchimia interiore.

    Come dice il Dottor Jacques Vigne: “Ciò che distingue la psicologia spirituale è la sperimentazione personale: le osservazioni vengono effettuate calandosi nella propria psiche, cosa che i saggi praticano da milioni di anni grazie alla meditazione e ad altre tecniche di espansione della coscienza. Per loro ogni essere umano è il laboratorio di se stesso per esplorare i propri stati interiori. Non si tratta di credenza o di fede, ma di esperienza…”.

    Per noi Occidentali questo non vuol dire rifiutare la psicologia classica, convenzionale potremo dire, che ha sviluppato molto l’aspetto analitico, ma di inserirla in una prospettiva spirituale che sviluppa l’aspetto più intuitivo e metaforico. In altre parole, significa riconciliare in noi l’analitico e l’intuitivo.

    Freud, nella sua opera, ha lavorato molto sulla strutturazione dell’Io, insistendo sul ruolo del neonato, del bambino, ecc. Jung, invece, ha approfondito le sue ricerche sull’evoluzione dell’Io verso il Sé. In alchimia mentale e in psicologia spirituale noi sappiamo che è essenziale avere un Io ben strutturato (da cui l’importanza dell’infanzia e dell’adolescenza) e sappiamo anche che, a partire da questo Io ben strutturato, può prodursi un’evoluzione verso il Sé di buona qualità.

    I mistici aspirano alla realizzazione del Sé e la psicologia spirituale si interessa particolarmente a questo campo. Il Sé è quanto vi è di più elevato in noi e rappresenta in effetti 1′ “Imago Dèi” che ogni essere umano possiede in se stesso, il regno di Dio dentro di noi. Come constatò lo psichiatra Adler, dal punto di vista psicologico, il Sé può essere considerato come l’esperienza di Dio in noi, in un certo senso il Dio del nostro cuore. Costituisce ciò che si potrebbe chiamare la più alta intensità di vita.

    Ed è in seguito all’espansione progressiva del campo di coscienza che il nostro Io può tendere verso il Sé cosmico, la cui esperienza ultima è la reintegrazione dell’anima nell’Uno. Ed è proprio questa espansione che i Rosacrociani affinano imparando a sviluppare in loro la coscienza cosmica.

    Abbordiamo ora tre punti simbolici concernenti la rosa in un approccio psico-spirituale.

I – La rosa come simbolo del desiderio spirituale della Realizzazione del Sé

    La via interiore può essere simbolizzata dallo schiudersi della rosa sulla croce. Ecco perché è considerata uno dei simboli di questo processo di cambiamento, di questa trasmutazione alchemica, ma anche altri simboli come il diamante, il fior di loto, il bambino interiore, la sfera dorata, la luce bianca, sono esempi di questi simboli del Sé. Noi possiamo ritrovarli nei sogni spirituali, nei grandi miti dell’umanità, in alcuni racconti tradizionali per bambini, ma anche nei manoscritti alchemici o nei centri del Tarocco iniziatico, per esempio.

    Ricordiamo comunque che non basta sognare meravigliosi simboli per essere un Realizzato: questi simboli del Sé, queste situazioni archetipiche sono soprattutto da considerare come un incoraggiamento ed esprimono il desiderio di andare più lontano; non è la fine del processo, ma un nuovo inizio per un nuovo giro di spirale.

    Allo stesso modo possiamo dire che un’esperienza di risveglio come una visione mistica, non è il Risveglio. E semplicemente un’esperienza di risveglio, un incoraggiamento sul cammino o una ripresa nell’evoluzione. Lo schiudersi della rosa con i suoi molteplici petali può tradurre questo desiderio, mostrando che nuove mete devono essere raggiunte.

Il – La rosa come simbolo del “saper dare” e del “saper ricevere”

    La rosa può essere percepita come un meraviglioso simbolo dell’armonizzazione tra il “saper dare” e il “saper ricevere”. Molti autori hanno insistito su questa necessità di equilibrare in noi il saper dare e il saper ricevere: tra questi citiamo Jung, Maslow, Stanislas Grof, Annick de Souzenelle, ecc. Questo equilibrio risulta da un movimento armonioso, da un’alleanza tra queste due componenti, movimento che costituisce una dinamica tra l’esteriore e l’interiore di noi stessi. Nella nostra vita quotidiana, naturalmente, noi non selezioniamo il “saper dare” dal “saper ricevere” (esempio: non c’è un’ora di “saper dare” seguita da un’ora di “saper ricevere”).

    La nostra psiche è costituita di energia maschile e di energia femminile. L’energia maschile rappresenta la nostra capacità di azione nel mondo fisico: pensare, parlare, muoversi, per esempio. Per l’uomo, come per la donna, è l’energia maschile che permette di agire: è l’emissività (la funzione emissiva) e il “saper donare” partecipa a questo processo di emissività.

    L’energia femminile rappresenta la nostra parte più intuitiva, quella porta interiore che può aprirsi all’intelligenza suprema dell’universo. Per l’uomo, come per la donna, è la ricettività (la funzione ricettiva) e il “saper ricevere” partecipa a questo processo di ricettività.

    Possiamo dire in modo schematico che il processo creativo si traduce così: l’aspetto femminile riceve l’energia creatrice universale e l’aspetto maschile la esprime nel mondo mediante l’azione; il tutto parte, ben inteso, della nostra alchimia mentale e spirituale.

    Prendendo il simbolo della rosa ci rendiamo conto che ha un nucleo centrale da cui emanano i petali. La psicologa Ania Teillard fa notare che tutto si svolge come se nel simbolo della rosa ci fosse sia un assembramento intorno al punto centrale, sia un irraggiamento stellato emanante dal centro: da una parte le energie provenienti dall’esterno passando attraverso i differenti petali e riunendosi al centro della rosa, rappresentano in qualche modo il “saper ricevere” (dall’esterno verso l’interno, il fenomeno dell’interiorizzazione). Dall’altra, le energie che partono dall’interno, dal centro della rosa, diffondendosi attraverso i petali e aprendosi verso l’esterno, rappresentano in qualche modo il nostro “saper dare” (dall’interno verso l’esterno, il fenomeno dell’esteriorizzazione).

    Tutto questo rappresenta simultaneamente la concentrazione interiore e l’unione col mondo esteriore. Questo partecipa anche al processo di evoluzione individuale e collettivo. Abbiamo bisogno dei due: del “saper ricevere” e del “saper dare”. Può essere utile ricordare in che cosa consistono questi due concetti:

1) Il “saper ricevere”

    Non tutti sanno ricevere o essere nella ricettività. Sylvie Galland e Jacques Salomé, psicoterapeuti, dicono che “noi siamo degli infermi del ricevere e in una relazione di lunga o breve durata, numerosi sono i registri nei quali facciamo fatica a ricevere”.

   Ricevere dei regali, delle riflessioni gradevoli, dei complimenti, delle considerazioni d’amore: anche se può sembrare sorprendente, molti non sopportano queste attenzioni. Gli autori si pongono questa domanda: il controllo che abbiamo su noi stessi è tanto severo, esigente, da non farci accettare la riconoscenza di ciò che è?

    Ma ricevere è anche ricevere delle messe in discussione, delle opinioni differenti, delle idee nuove, talvolta scomode. La maggior parte degli esseri umani ha un atteggiamento difensivo; molti davanti a ciò che sembra loro sconosciuto dicono subito no; pochi sono realmente aperti alla differenza e ciò spiega molti dei problemi della società contemporanea caratterizzati a volte dall’istantaneità della loro intolleranza. La mancanza di tolleranza, è una paura ancestrale, una chiusura, un blocco nell’energia del ricevere.

2) Il “saper dare”

    Come possiamo essere infermi nel “saper ricevere”, così possiamo esserlo nel “saper dare”. Come la rosa può ricevere la luce e il calore del sole senza riserve, cosi può dare il suo profumo, il suo splendore senza contare e senza privarsi di nulla.

    Si prova del piacere nel saper dare, questo non è calcolo né scambio di buone maniere, ancora meno strategia. Il saper donare non dipende dalla sofferenza o dal sacrificio, ma una forma d’amore. Nella vita quotidiana è frequente sentire formulazioni come questa: “dire che ho sacrificato dieci anni della mia vita a quello scopo, a quell’ideale, a quella persona”… In questo caso non si tratta più di dono né di amore, ma di dovere e conosciamo benissimo, in psicologia moderna, i limiti del dovere. Il dovere non ha niente a che vedere con l’amore. È importante ricordare che nel “saper dare” come nel “saper ricevere” è in gioco il piacere. Piacere di dare come il piacere di ricevere, e viceversa.

    E questo può essere fatto in modo naturale, come nell’esempio della rosa che riceve calore e luce e da profumo e splendore. L’equilibrio al quotidiano forse sta in questa giustizia, questo adattamento con flessibilità del “saper dare” e del “saper ricevere” simultaneamente.

    Quanto abbiamo detto della rosa, possiamo applicarlo al simbolo della Rosa-Croce. La croce è, in qualche modo, la nostra vita quotidiana, cioè un insieme di esperienze da vivere, col suo braccio verticale simbolo della spiritualità, il braccio orizzontale simbolo della materialità e il loro punto d’incontro, dove fiorisce la rosa, apertura dell’essere. Possiamo riagganciarci ai concetti del “saper ricevere” e del “saper dare”, poiché materialmente e spiritualmente riceviamo dall’esterno elementi, informazioni, energie che dopo essere circolate i bracci della croce si incontrano nel nucleo essenziale, la rosa e, inversamente, dalla rosa emana ogni tipo di irraggiamento che si diffonde lungo i bracci della croce, ripercuotendosi sulla nostra vita spirituale e materiale.

    Non dimentichiamo anche che quanto è valido per un individuo vale anche per un insieme di individui, insieme che può essere un gruppo, una nazione e, perché no, l’intero pianeta. Se il nostro pianeta attualmente non va bene, è forse perché ha perso il senso della misura.

III – La rosa come simbolo dell’apertura del cuore

    Quanto tratteremo adesso è completamente collegato a quanto detto prima: si tratta di ciò che si chiama “l’apertura del cuore”, elemento essenziale nella via iniziatica.

    Nella Rosa-Croce, la rosa è al centro della croce, cioè nella posizione del cuore del Cristo. Angelus Silesius, mistico del XVII secolo, autore di un’opera intitolata “Il Pellegrino cherubinico”, fa della rosa l’immagine dell’anima, nonché del Cristo.

    Manteniamo dunque questa immagine della rosa, simbolo (tra l’altro) dell’apertura del cuore, e più particolarmente della spiegazione simbolica dell’immagine dell’iniziando con un bocciolo di rosa che non chiede altro se non di aprirsi, come se l’iniziando, nel suo viaggio interiore, farà sbocciare in lui l’essenziale.

    Questo essenziale passa verosimilmente attraverso la via del cuore e della rigenerazione dell’Essere interiore. Il cuore può essere considerato come il simbolo centrale di questa via poiché indica quanto sia importante per l’uomo saper amare a tutti i livelli del suo essere, l’Amore cosmico quale livello massimo. Saper amare apre molte porte e in uno dei libri segreti di gnostica dell’Egitto si leggeva questa espressione significativa: “Voi, i Figli del Sapere del Cuore”.

   Il centro cardiaco è uno dei 7 centri psichici maggiori. Ricordiamo che, come raccomandano gli insegnamenti rosacrociani, è preferibile non polarizzarsi eccessivamente su questo o quel centro psichico poiché è principalmente in modo naturale che il risveglio, o più esattamente il risveglio di questi centri, avviene in modo armonioso, a mano a mano che si produce l’evoluzione spirituale. Le qualità psichiche corrispondenti a ciascun centro si destano anch’esse progressivamente. Tutti e 7 i centri hanno la loro importanza e l’insieme deve essere armonizzato affinché la circolazione energetica possa verificarsi normalmente dall’alto al basso e dal basso all’alto.

    Tra i 7 centri psichici, il centro cardiaco ha un posto interessante. Che si parta dall’alto o dal basso è sempre il quarto. Alcuni lo citano come il primo centro altruista. Il suo posto centrale a mezza distanza tra il basso e l’alto, gli conferisce un ruolo particolare poiché l’apertura del cuore, come si dice solitamente, favorirà l’espansione degli altri 3 centri superiori ed eserciterà un’azione pacificante e armonizzante sugli altri 3 centri inferiori (quest’ultimi sono spesso inaspriti nella nostra società iperconsumistica e ipermediativa tra emozionale e spettacolare).

    Può darsi che questa apertura del cuore sviluppi il desiderio spirituale di avere una relazione più intima con la propria anima. Può darsi che consenta all’uomo di comprendere meglio la natura dell’amore.

    Possiamo aggiungere che più saliremo nella luce cosmica o, in altri termini, più saremo illuminati all’interno del nostro essere, più saremo in grado di aiutare gli altri e dividere con loro quegli elementi di comprensione, conoscenza e rivelazione mistiche che avremo integrato. In effetti, più questa comunione cosmica si affina e più possiamo amare e aiutare naturalmente e senza sforzo di volontà personale, poiché aiutare con uno sforzo di volontà personale risente ancora qualcosa del concetto di potere.

    L’aiutare gli altri è essere come un trasmettitore, un canale psichico e spirituale. L’apertura del cuore, ossia questa rosa che si apre a poco a poco in noi, ci istruisce sulla bellezza interiore. Questa via, essendo carica d’amore, va molto oltre il semplice cammino intellettuale. Tende verso un’evoluzione più profonda dell’essere al quale elargisce un espansione del campo di coscienza e talvolta una ipercoscienza (una ipercoscienza transitoria forse, ma comunque una ipercoscienza) come un desiderio spirituale di comunione interiore che induce a prendere coscienza della sensazione di universalità dell’unità.

    Non dobbiamo perciò stupirci se malgrado tutte le loro conoscenze, certi uomini di scienza passano vicino alla loro verità: non lavorano altro che con la testa.

    Ora, questa semplicità del cuore, questo calore interiore lo ritroviamo nella tradizione mistica occidentale. La rosa e la croce, attraverso i loro differenti sensi simbolici ci propongono di custodire il più possibile intatte queste qualità della via del cuore anche durante esperienze difficili (e forse maggiormente durante le esperienze difficili).

    I Rosacrociani sanno che vivere questi fa parte del campo dell’iniziazione. Queste esperienze da vivere possono essere individuali o collettive, ma tutte devono essere considerate significanti, ossia cariche di senso.

    E l’insieme delle esperienze, da una parte quotidiane con il loro contenuto di gioie e di sofferenze per ognuno, dall’altra mistiche e spirituali, può sfociare nell’esperienza fondamentale della luce interiore e questo nell’accettazione piena e completa del Piano divino.

    Un adagio dice: “Al momento di impegnarti su una via, chiediti se quella via ha un cuore”. Non si tratta di cuore fisico, ma del cuore quale centro di integrazione di alcune facoltà spirituali, quel cuore centro dell’essere.

    Alla soglia dell’Era dell’Acquario, in psicologia spirituale noi sentiamo che l’uomo deve riconciliarsi col proprio cuore. L’intelligenza senza cuore, la scienza senza coscienza ci hanno portato alla situazione planetaria attuale, con le nostre società insieme troppo analitiche e troppo emotive in apparenza, troppo fredde in profondità.

    L’apertura del cuore può dare un senso e un altro punto di vista alle scoperte dell’intelligenza, alla vita quotidiana, e il cuore, purificato nel senso alchemico del termine, diviene capace di vedere “Colui che è” nella sua essenza.

    Come dice il poeta, in una visione alquanto idealista: “Cos’è un cuore puro se non quell’occhio in grado di guardare tutte le cose, senza proiezione, senza transfert, con quella qualità di innocenza che fa sì che il mondo si rifletta in se stesso come in un’acqua limpida?…”.

   Parallelamente a questa visione poetica, possiamo ricordare quella spiegazione di Mircea Eliade sul simbolismo che egli considera come un dato immediato della coscienza totale, cioè dell’uomo che si scopre tale, che prende coscienza della sua porzione nell’universo; queste scoperte primordiali sono tali che lo stesso simbolismo determina sia l’attività del subcosciente sia le più nobili espressioni della vita spirituale.

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INIZIAZIONI AGLI ANTICHI MISTERI

INIZIAZIONI AGLI ANTICHI MISTERI

    Dobbiamo riconoscere che le iniziazioni primitive degli antichi erano molto rozze; venivano celebrate in modo quasi barbaro. Tuttavia, molte delle iniziazioni date oggi dalle fraternità e società della nostra epoca non hanno alcun significato.

    L’iniziazione si basa su due qualità umane intangibili. La prima è l’analisi di sé. In ragione di un intenso bisogno di considerarsi, analizzarsi e analizzare l’ambiente che lo circonda, l’uomo impara a fare delle cose: senza di ciò il suo contributo all’avanzamento dell’umanità e al progresso della società sarebbe minimo. La maggior parte delle possibilità naturali dell’uomo sono in lui. Con questi poteri compie varie opere nella vita, ma non sempre è completamente sicuro della loro sorgente. E’, in larga misura, come un uomo perso in una grande foresta che, disperato, si siede su di un forziere del quale non si dà mai la pena di esaminare il contenuto. Il tempo passa e il suo bisogno di mangiare, bere e proteggersi dagli elementi cresce. Se solo aprisse il forziere sul quale è seduto, probabilmente potrebbe soddisfare i suoi bisogni.

    Facciamo un’altra analogia: l’uomo comune somiglia all’individuo che, su una collina, si appoggia ad una roccia lamentandosi della sua sorte e della mancanza di possibilità di migliorarsi; la roccia, tuttavia, potrebbe forse dargli una risorsa minerale che gli procurerebbe una grande ricchezza, ma in ragione della sua ignoranza e della mancanza di curiosità, non lo sa.

    L’analisi di sé tuttavia fa più che svelare le nostre possibilità. Rivela anche i nostri limiti, le cose che non siamo ancora in grado di compiere. Mostra fino a che punto siamo lontani da quegli ideali che riconosciamo come lo stato di perfezione. Indica con precisione i punti da migliorare. L’analisi di sé deriva dalle nostre esperienze personali e da quelle che ci sono state raccontate dagli altri. Attraverso esse, facendo appello alla ragione, scopriamo la nostra forza e le nostre debolezze. Possiamo dire perciò che la ragione è il fattore fondamentale soggiacente all’analisi di sé.

    L’iniziazione ha anche la sua fonte in una seconda qualità: l’aspirazione. L’aspirazione è formata dalle sensazioni e dai desideri dell’io in opposizione alle passioni del corpo. Si soddisfa nella realizzazione di un bisogno o di un ideale prefissato. Nell’analisi di sé, mentre la ragione ci rivela cosa in noi fa difetto, l’aspirazione ci obbliga a cercare la risposta a questo bisogno e a elevarci oltre il nostro stato attuale.

    Di conseguenza, qualsiasi rito o cerimonia, qualunque sia la forma o il modo in cui è condotto, è una vera iniziazione se provoca i seguenti effetti: indurci all’introspezione, ossia farci rivolgere la coscienza verso l’interno per osservarci, generare in noi ispirazione e idealismo, richiederci un impegno sacro o una promessa – a noi stessi o agli altri – di cercare di realizzare le nostre aspirazioni.

    Etimologicamente, iniziazione deriva dal vecchio termine latino: initium, che significa cominciare, formazione o inizio di una preparazione, cominciare l’istruzione. L’insegnamento che si ritiene costituisca l’iniziazione, dipende da tre elementi molto importanti. Innanzitutto dall’efficacia o dal potere dell’istruzione data. Un insegnamento possiede l’influenza solo dell’autorità che c’è dietro. In altre parole, il valore di un insegnamento dipende dall’autorità, dalla fonte da cui proviene.

    In secondo luogo, colui che riceve l’insegnamento, qualunque sia la sua efficacia, deve esserne degno: altrimenti, è evidente, farebbe un pasticcio dell’insegnamento.

    Terzo, perché questi insegnamenti siano benéfici, devono essere soggetti ad alcune condizioni. In altri termini sono importanti il tempo e il luogo. Gli insegnamenti profondi non possono essere riconosciuti in qualsiasi momento. Per la loro assimilazione sono essenziali una meditazione e delle circostanze adeguate, altrimenti il seme cadrebbe sul suolo sterile.

    Per gli Antichi c’era ancora un altro fattore importante. Ritenevano che fosse necessario allontanare l’insegnamento dato durante le iniziazioni dai profani, ossia dalle masse in generale. In altre parole, era essenziale il segreto. La ragione era che l’uomo comune, senza immaginazione o aspirazione, non poteva comprendere quanto gli veniva offerto. Non era pronto ed avrebbe potuto profanare quella che doveva essere una verità sacra. Si dice anche che gli insegnamenti dell’iniziazione erano riservati a pochi rari eletti scelti quali depositari di tale conoscenza. Di conseguenza si doveva essere invitati ai misteri, come veniva chiamato il contenuto dell’iniziazione – i Misteri erano le leggi e i precetti trasmessi. Nell’antica Roma, i Misteri venivano chiamati initia.

    L’iniziazione primitiva, i Misteri condotti dalla società primitiva, si rivelarono di due categorie delle quali ritroviamo tracce oggi nella maggior parte delle iniziazioni di numerosi ordini o fraternità, che però i candidati moderni non riconoscono. La prima categoria è la cerimonia attraverso la quale un individuo o un gruppo di individui conferiva un potere ad un altro individuo per uno scopo definito. Per esempio, lo sciamano o l'”angakok”, come venivano chiamati i guaritori delle tribù esquimesi, trasmettevano agli iniziati, durante delle cerimonie, delle formule magiche che li rendevano possessori di un potere: far cadere la pioggia, far germogliare la mietitura o aumentare la fertilità della terra. Secondo lo sciamano il potere di fare queste cose era trasmesso materialmente, per esempio attraverso amuleti. Nel corso della cerimonia, lo sciamano dava al candidato una pietra pulita brillante o una piuma di colore vivo ritenuta in possesso dei poteri magici necessari.

    La seconda categoria di iniziazione primitiva consisteva in cerimonie che facevano parte integrante della vita sociale delle tribù. Questa categoria era di gran lunga la più importante. Una semplice spiegazione è che nella società primitiva o tribale le persone della stessa età o sesso avevano in genere gli stessi interessi, le stesse occupazioni e gusti simili. C’era dunque una tendenza a raggruppare le varie classi secondo le loro funzioni, capacità o incapacità. I vecchi erano in un gruppo, i giovani in un altro, quelli senza figli, i celibi, i malati o i deformi in altri gruppi ancora. L’uomo primitivo pensava che il passaggio da un gruppo all’altro producesse sull’individuo alcuni effetti.

    Naturalmente gli effetti naturali di tali gruppi sono evidenti. Dei cambiamenti fisiologici si producono quando un ragazzo diventa uomo. La donna in cinta subisce anche dei cambiamenti psicologici. Ma si pensava che quando un ragazzo raggiungeva la virilità gli veniva conferito insieme il potere di diventare uomo. Si celebravano perciò delle cerimonie per iniziare l’individuo al suo nuovo status nella società o gli si spiegavano le nuove funzioni e poteri che si riteneva avesse acquisito.

    Solo molto più tardi si fece una distinzione tra i gruppi specializzati di lavoratori nelle professioni, mestieri e arti altamente sviluppate da una parte e gli operai comuni dall’altra. Gli artigiani desideravano proteggere i segreti della loro professione. Per questo formarono delle gilde nelle quali si entrava per iniziazione. A titolo d’esempio, nel XIII secolo, nell’Italia del Nord numerose città erano degli stati sovrani indipendenti da tutti i punti di vista. Ogni città, circondata da un certo territorio, era un mondo a sé stante. Spesso erano ostili tra loro e ognuna aveva il proprio esercito; se erano costiere avevano la propria marina. Venezia e Firenze sono esempi noti di questi stati.

    Nel corso di quel periodo, Venezia divenne celebre per il lavoro del vetro, notevole e superiore al resto del mondo. I segreti del soffiaggio del vetro furono prima trasmessi da padre in figlio, poi, con l’aumentare della richiesta, fu necessario aumentare la produzione e iniziare altre persone ai segreti del mestiere. L’apprendista, così, divenne un neofita e veniva iniziato al soffiaggio del vetro. Doveva giurare di non rivelare i segreti al profano.

    Oggi, nella nostra società moderna, abbiamo alcuni riti che equivalgono alle iniziazioni pubbliche e che integrano il principio della trasmissione del potere. In altre parole, il cittadino medio che ricerca certi privilegi legali, deve partecipare a delle cerimonie che equivalgono ad un’iniziazione sociale. Il matrimonio è un esempio. Questo diritto è conferito ad un individuo sotto la forma di una cerimonia che equivale all’iniziazione. È lo stesso per il privilegio di adozione. Parimenti, chi desidera diventare cittadino, deve passare una cerimonia nella quale gli sono trasmessi i poteri di cittadino.

    Anche l’iniziazione, come tutto il resto, ha seguito un processo d’evoluzione. Sviluppandosi l’uomo ha continuato ad ottenerne dei vantaggi. Ma col tempo sono divenuti differenti. Non più semplicemente materiali o fisici, ma morali. Mediante l’iniziazione l’uomo desiderava essere in migliori rapporti con gli déi. Sperava di imparare a calmarli, ottenere il loro favore, sapere cosa si aspettavano da lui e che cosa rappresentava un comportamento buono o pio. Questa conoscenza gli era rivelata sotto forma di drammi, vale a dire che le iniziazioni somigliavano alle passioni nelle quali il candidato doveva, per assicurarsi per esempio la salute o l’esistenza, sopportare le sofferenze che secondo lui avevano sopportato i suoi dei. Poteva anche assumere l’atteggiamento mentale che riteneva fosse quello dello stato elevato di dio. Oppure poteva svolgere un ruolo nel quale, mediante la mimica, suggeriva quelle virtù che supponeva degli déi e che desiderava incorporare nella propria vita.

    Per ricevere una tale iniziazione, un candidato doveva mostrarsene degno; doveva spesso passare per una preparazione morale. Nella Grecia antica, per esempio, tutti gli spergiuri, i traditori e i criminali erano esclusi dalle iniziazioni ai Misteri. L’antico Egitto aveva un metodo ancora più opportuno. Solo quelli che venivano chiamati potevano partecipare effettivamente alle cerimonie. Una di queste, il Tribunale di Osiride, aveva lo scopo di rivelare come il dio Osiride, nel suo tribunale celeste, pesava l’anima degli uomini per determinare se erano degni di entrare nell’altra vita. Solo coloro che potevano partecipare a questa cerimonia venivano chiamati.

    La struttura della maggior parte delle iniziazioni, specialmente delle iniziazione ai Misteri del passato e di numerose iniziazioni esoteriche attuali, segue quattro forme definite. Tutte hanno quattro elementi principali anche se l’attività e la funzione reali sono differenti.

    La prima forma è conosciuta col nome di rito della separazione. Si fa sapere al candidato o neofita che subirà una transizione dell’anima, ovvero che attraverso i riti e i simboli della cerimonia sarà indotto a prendere coscienza che cambierà il vecchio ordine di vita, abbandonerà i vecchi pensieri, preparandosi a qualcosa di nuovo e di diverso. Nel corso di questo rito della separazione, che suggerisce il cambiamento da un’antica vita ad una nuova, si può dirgli che dovrà separarsi, per un certo tempo, dalla famiglia e dalle precedenti relazioni. Può dover fare voto di celibato, ossia promettere di rimanere celibe fino ad una certa età. Può ricevere la richiesta di isolarsi dal mondo esterno per un breve periodo di tempo. In altre parole può dover diventare un anacoreta e vivere solo, in meditazione in un luogo deserto, finché raggiunge un determinato livello dello sviluppo. Oppure può dover mascherare in un certo modo la sua personalità e condurre una vita semplice. Durante questo rito può simbolicamente essere sepolto, in altri termini distendersi in un forziere o una bara per mostrare che ha tracciato una riga sul passato e ha lasciato dietro di sé tutti i vecchi modi di vivere e pensare.

    La seconda forma è il rito dell’ammissione. Per mezzo dell’iniziazione il candidato viene portato a comprendere che entra in un piano di pensiero e coscienza superiore. Questo rito può dargli l’impressione di nascere di nuovo sul piano del pensiero e della vita. Questo può essere simbolizzato facendolo coricare a terra, poi in ginocchio e, infine, facendolo alzare come se crescesse. Può anche essere obbligato a passare da una stanza buia in una fortemente illuminata, a simbolizzare l’uscita dal vecchio mondo di superstizioni e paure, che si ritiene abbia lasciato dietro di sé, ad un mondo di pace e di nuova saggezza.

Una tale ammissione simbolica in un nuovo mondo talvolta prende la forma di quello che è conosciuto come il rito della deambulazione. Consiste nel disegnare un cerchio sul pavimento del tempio o nel luogo dove si svolge l’iniziazione, ponendovi il candidato al centro. Intorno al primo cerchio ne viene tracciato un secondo, più grande, nel quale si pongono delle candele accese. A questo punto si toglie al candidato la maschera che gli copre gli occhi ed egli deve attraversare o varcare la linea che separa i due cerchi. Ciò rappresenta una transizione da un mondo limitato ad uno illimitato o illuminato.

Platone, riferendosi alle iniziazioni ai misteri del suo tempo dice: “La morte è un’iniziazione”. Voleva dire con questo che la morte consiste semplicemente in un cambiamento o processo di iniziazione mediante il quale lasciamo la nostra attuale esistenza per una in un nuovo regno.

    La terza forma è conosciuta sotto il nome di dimostrazione di effetti sacri. Durante questa parte della cerimonia di iniziazione si rivelano al candidato dei segni rappresentanti verità, precetti, nomi dei gradi che ha superato o che supererà e il simbolismo dell’ordine.

    La quarta ed ultima struttura è il rito del rientro, in altre parole questa è la parte della cerimonia durante la quale il candidato viene invitato a rendersi conto che ritorna al mondo fisico e profano da dove è partito. Gli si insegna che in ragione dell’esperienza che ha vissuto, quando ritornerà all’esistenza, le circostanze non saranno più completamente le stesse. In genere è obbligato, fino ad un certo punto, a cambiare le condizioni della propria vita quotidiana per mettersi in risonanza al livello dell’ideale che gli è stato rivelato durante l’iniziazione. Inoltre, durante questi riti di rientro, gli si conferisce un segno distintivo, qualcosa di fisico, indicante che ha raggiunto un certo grado. Sebbene egli viva di nuovo tra i profani, si sa da questo segno, che ha acquisito alcuni privilegi.

    Per esempio, se gli è possibile durante la sua esistenza, ogni Arabo, ogni vero maomettano, cercherà di andare alla Mecca per entrare nel recinto sacro della Kaaba e assistere ai sacri riti. E un viaggio penoso. L’Arabo deve recarvisi unendosi ad una carovana oppure organizzando la propria se sufficientemente ricco. Se raggiunge felicemente La Mecca, al ritorno ha il diritto di portare intorno al copricapo o fez quello che volgarmente viene chiamato “cordone bianco”, a indicare che ha fatto il viaggio ed è stato debitamente iniziato alla Visione Sacra. Nei paesi islamici ho visto numerosi Arabi con due o più cordoni.

    Sappiamo dagli Arcani esoterici che gli antichi Esseni, dopo la loro iniziazione, indossavano, al ritorno nella società, abiti bianchi. Il bianco era un simbolo di purezza che essi conoscevano e di cui avevano fatto l’esperienza durante la loro iniziazione e che ricordava loro gli obblighi e la transizione che ritenevano si fosse prodotta nella loro coscienza.

    Consideriamo ora nella loro totalità alcune delle antiche iniziazioni o, come erano chiamate, misteri.

    La più antica di tutte è forse il ciclo di Osiride o Misteri Osiriaci. Venivano chiamati così perché trattavano la nascita, la vita, la morte e la rinascita di Osiride. In questi misteri fu presentata per la prima volta all’uomo la dottrina dell’immortalità. Secondo la mitologia egiziana la dea Nut sposò il dio Geb. Ebbero quattro figli: due fratelli, Osiride e Seth e due sorelle, Iside e Nephtys. Secondo la leggenda Osiride, in quanto Dio, ricevette la sovranità su tutte le terre dell’Egitto. In verità, fu un dio generoso perché, si dice, istituì le leggi che permettevano agli uomini di autogovernarsi. Trasmise loro l’arte e l’agricoltura, la tecnica dell’irrigazione e numerosi perfezionamenti che recavano felicità e conforto. Insegnò anche ad adorare i loro dèi; in altre parole, la religione. Il mito dice che era molto amato dal suo popolo.

Seth divenne geloso dell’affetto dei mortali per Osiride, così organizzò un piano per eliminarlo. Segretamente ottenne le misure del corpo di Osiride e fece fabbricare un forziere delle stesse dimensioni. Diede poi un grande banchetto, invitando Osiride e assistendovi con i suoi settanta cospiratori. Durante il festino, Seth, con fare gioioso, disse che avrebbe donato il forziere decorato a colui le cui forme corrispondevano perfettamente. Tutti i membri dell’assemblea, al corrente delle sue intenzioni, cercano di sdraiarsi ma, naturalmente, non corrispondeva alle misure di nessuno, tranne di Osiride quando vi si depose. Era perfetto e mentre vi era disteso, i presenti si precipitarono sul cofano e richiusero il coperchio.

Poi il dio Seth ordinò che fosse gettato in un affluente del Nilo; e così fu. Alla fine raggiunse il mare e venne rigettato sulle rive di Byblos, nell’antica Fenicia. La leggenda continua dicendo che una grande pianta di erica germogliò intorno al forziere nascondendolo completamente e raggiungendo proporzioni tali da sembrare un grosso albero. Un giorno il re scopri l’albero e lo fece abbattere per farne una colonna di supporto al tetto del suo palazzo.

Iside, venuta a sapere cosa era successo al corpo di Osiride, suo marito-fratello, decise di iniziare la ricerca. Si recò a Byblos sotto mentite spoglie e alla fine ottenne l’albero d’erica; riuscì a staccare il cofano dall’albero e a riportarlo in Egitto. Mise il corpo di Osiride sulla spiaggia dove Seth lo vide una notte mentre passeggiava al chiaro di luna. Ne fu alquanto contrariato, tanto che nel suo odio smembrò completamente il corpo e ne sparse le membra per tutto l’Egitto. Iside, venutane a conoscenza, pianse amaramente. Il suo dolore fu origine di molti racconti celebri in Egitto. Di nuovo decise di recuperare il corpo e si dice che finì col ritrovarne quasi tutte le membra.

La cosa importante è che quando tutti i pezzi furono riuniti, ella soffiò nella bocca di Osiride che, ricevendo quel respiro, resuscitò e ridivenne un essere vivente, un essere sì di questo mondo, ma di un’altra vita, più elevata.

Il figlio Horus, più tardi, decise di vendicare la morte del padre.

    E’ interessante sottolineare che questo racconto dei due fratelli, Osiride e Seth, è la più vecchia storia del mondo. Migliaia d’anni fa in Egitto questa storia era intitolata “Il racconto dei due fratelli”. La prima traduzione fu opera del famoso egittologo Dr. Charles E. Moldenke. Nel Museo Rosacrociano dell’Egitto Orientale, possediamo gran parte della collezione di questo eminente personaggio e le note e i papiri originali della sua traduzione del celebre “Racconto dei due fratelli” sono nella Biblioteca Rosacrociana di Ricerca. E anche di interesse storico sapere che la storia biblica di Caino e Abele, come ammettono in generale le autorità esegeti, deriva dal fatto che gli Ebrei sono stati esiliati in Egitto e si sono familiarizzati con questo mito egiziano.

    La leggenda di Osiride fu rappresentata come mistero specialmente nelle antiche città di Denderah e Abydos. Con lo svolgersi del dramma, i grandi sacerdoti, o Khéri-Hebs, spiegavano agli iniziati o candidati il senso di ogni parte. Questo dramma a volte veniva effettuato al chiaro di luna in grandi barche sui laghi sacri. Spesso occorrevano diverse notti per assistere a tutta la cerimonia e non era concesso al candidato di vedere gli ultimi atti fintanto che non avesse perfettamente compreso i precedenti.

Veniva spiegato che Osiride rappresentava le forze creatrici della terra, la virtù e la bontà e che il fratello Seth era la manifestazione del male. Le due forze erano continuamente in conflitto nel mondo. Veniva rivelato allora che sebbene Osiride avesse condotto una vita buona e cercato di aiutare gli altri, poiché non vi è giustizia sulla terra, un uomo può essere ricompensato per i suoi atti in una vita futura. L’uomo non deve sperare di ricevere quaggiù una giusta compensazione per tutte le sue azioni. Veniva mostrato come Osiride era resuscitato e godesse di una vita futura.

    Sappiamo inoltre che il candidato, per prepararsi a questa iniziazione, non doveva mangiare e bere per un breve periodo; doveva rasarsi la testa e lo svolgimento o illustrazione del dramma richiedeva parecchie notti.

    C’è ancora un’altra iniziazione antica che ci interessa. E’ conosciuta col nome di Misteri d’Eleusi perché si svolgeva ad Eleusi nell’antica Grecia. Durava circa otto giorni in un periodo dell’anno che corrisponde per noi dal 15 al 23 settembre. Questi misteri avevano due personaggi principali: le dee agresti, cioè dell’agricoltura, Demetra e la figlia Persefone. Le prime scene dei Misteri d’Eleusi dipingono le sofferenze di Demetra a causa del rapimento della figlia Persefone da parte di nemici.

In seguito tentano di trasmettere una certa conoscenza di ciò che succede all’uomo nell’al di là e di insegnare il concetto dell’immortalità. Questo avveniva paragonando l’uomo alla vegetazione. Si mostrava come le piante appassiscono e muoiono durante l’inverno, ma rinascono in primavera che dà loro una nuova vita, un nuovo potere; esse resuscitano dalla terra in tutta la loro forza e gloria precedenti e si dichiarava che quando i giorni dell’uomo su questa terra saranno conclusi, egli appassirà per resuscitare nell’Eliseo, equivalente antico del cielo.

Negli annali storici si dice che i candidati dovevano intraprendere lunghi viaggi per recarsi sul luogo dell’iniziazione, cioè ad Eleusi, e che dovevano camminare in fila indiana. Sappiamo anche che nel corso delle cerimonie si tracciava loro una croce a forma di tau sulla fronte, ovvero una croce a forma di T maiuscola. Venivano chiesti loro dei ramoscelli di acacia come simbolo di immortalità, forse perché l’acacia apre e chiude le proprie foglie ad indicare la nascita e la morte.

    A questo punto, quali sono ci domandiamo la natura e lo scopo dell’inziazione Rosacrociana? Innanzitutto, l’iniziazione Rosacrociana, in generale, è simile nello spirito e scopo ad ogni vera iniziazione esoterica o ai misteri, benché le sue funzioni, lo svolgimento e il simbolismo siano naturalmente differenti. Ogni manoscritto d’iniziazione dell’Ordine della Rosa-Croce reca la seguente citazione: “L’iniziazione trasferisce nel campo dell’emozione lo spirito dell’introduzione ai misteri”. Questa frase, come vedremo, è proprio la chiave dell’Iniziazione Rosacrociana.

    Le iniziazioni precedenti, quelle che abbiamo considerato, si riferivano a tutti gli aspetti della ragione. In altre parole il loro scopo era di presentare all’uomo una nuova conoscenza, delle esperienze di qualità poetica. Erano concepite per trasmettergli una conoscenza delle sue varie esistenze, dell’al di là, della natura degli dèi, della virtù, ecc.

    Ma la ragione non basta alla padronanza dell’esistenza e, per essere felice, l’uomo non ne deve dipendere unicamente ed esclusivamente. Se così fosse l’umanità diventerebbe solo una macchina calcolatrice. La giustizia sarebbe soltanto una legge pensata per l’uomo e spoglia di compassione e comprensione. Quanto faremmo gli uni per gli altri dipenderebbe solo dalla necessità o dal fatto che sarebbe l’unica cosa da fare. La bontà umana sarebbe assopita. La società moderna si comporterebbe completamente alla stregua degli antichi Spartani: i deboli e i malati sarebbero distrutti senza alcun sentimento e senza amore. La loro esecuzione sarebbe dettata dalla ragione, semplicemente poiché è la cosa da fare visto che non possono più servire utilmente lo Stato. Invece l’Iniziazione esoterica cerca di far conoscere all’individuo il contenuto della sua anima. Tenta di aiutarlo ad esprimerla affinché faccia parte della sua coscienza quanto le altre cose della vita. Mira a fare dell’intelligenza dell’anima non un semplice principio filosofico o un rito in un dramma dei misteri, ma una realtà per l’uomo.

    Possiamo quindi dire che l’iniziazione Rosacrociana è il processo o il metodo che permette di raggiungere la coscienza interiore, di fare l’esperienza della Coscienza cosmica. L’obiettivo dell’Iniziazione Rosacrociana è il risveglio della coscienza interiore del nostro essere. Tutti possiedono questa coscienza, ma sfortunatamente nella maggior parte è addormentata. Ecco perché le Iniziazioni Rosacrociane, sin dalla loro origine, sono state concepite per arrestare e controllare la coscienza oggettiva dell’uomo in modo da liberare e mettere in risalto la coscienza interiore o subliminale.

    Perciò, partecipando effettivamente alle cerimonie Rosacrociane, sentendo alcuni suoni vocali e bruciando l’incenso, stimoliamo anche i nostri centri psichici e risvegliamo in noi la coscienza dell’anima. Tutte queste cose creano, se volete, lo stato d’animo e la liberazione emozionale che consentono all’anima di esprimersi. E più che certo che condizioni quali la pace, l’umiltà e l’ordine che sentiamo nel corso dell’Iniziazione Rosacrociana sono tanto soddisfacenti per l’anima quanto il cibo e le bevande lo sono per il corpo. L’iniziazione Rosacrociana fortifica l’Io, il vero Io Interiore, ponendolo in un ambiente stimolante, precisamente come lo studio sviluppa alcune zone di associazione del cervello

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GIUSEPPE MAZZINI (Massone)

GIUSEPPE MAZZINI (Massone)

da: “I Savoia e il Massacro del Sud”, Grandmelò, 1996

Annoverato dal regime tra i padri della patria, fu iniziato alla carboneria tra il 1827 ed il 1829, divenendo presto uno dei discepoli di Mr. Picke. Nel 1864 il Grande Oriente di Palermo gli accorda il 33° grado. Il 3 giugno 1868 fu proclamato venerabile perpetuo ad onorem della Loggia Lincoln di Lodi e lo si propose alla carica di Gran Maestro. Il 24 luglio fu nominato membro onorario della Loggia La Stella d’Italia di Genova ed il 1° ottobre 1870, della Loggia La Regione dello stesso Oriente (*).

(*) Dictionnaire Universel de la Franc-Maçonnerie, Tomo II, 1974.

Dio

L’origine dei vostri Doveri sta in Dio. La definizione dei vostri doveri sta nella sua Legge. La scoperta progressiva e l’applicazione della sua Legge appartengono all’Umanità.

Dio esiste. Noi non dobbiamo né vogliamo provarvelo: tentarlo ci sembrerebbe bestemmia, come negarlo, follia. Dio esiste perché noi esistiamo. Dio vive nella nostra coscienza, nella coscienza dell’Umanità, e nell’Universo che ci circonda. La nostra coscienza lo invoca nei momenti più solenni di dolore e di gioia. L’Umanità ha potuto trasformarne, guastarne, non mai sopprimerne il santo nome. L’Universo lo manifesta coll’ordine, coll’armonia, colla intelligenza dei suoi moti e delle sue leggi. Non vi sono atei fra voi: se ve ne fossero, sarebbero degni non di maledizione, ma di compianto. Colui che può negare Dio davanti ad una notte stellata, davanti alla sepoltura de’ suoi più cari, davanti al martirio, è grandemente infelice o grandemente colpevole. Il primo ateo fu senz’alcun dubbio un uomo che avea celato un delitto agli altri uomini e cercava, negando Dio, liberarsi dell’unico testimonio a cui non poteva celarlo e soffocare il rimorso che lo tormentava: forse fu un tiranno che avea rapito colla libertà metà dell’anima a’ suoi fratelli e tentava sostituire l’adorazione della Forza brutale alla fede nel Dovere e nel Diritto immortale. Dopo lui, vennero qua e là, di secolo in secolo, uomini che per aberrazione di filosofia insinuarono l’ateismo, ma pochissimi e vergognosi: – vennero, in momenti non lontani da noi, moltitudini, che per irritazione contro un’idea di Dio falsa, stolta, architettata a proprio benefizio da una casta o da un potere tirannico, negarono Dio medesimo; ma fu un istante, e in quell’istante adorarono, tanto avevano bisogno di Dio, la dea Ragione, la dea Natura. Oggi, vi sono uomini che aborrono da ogni religione, perché vedono la corruzione nelle credenze attuali e non indovinano la purità di quelle dell’avvenire; ma nessun tra loro osa dirsi ateo: vi sono preti che prostituiscono il nome di Dio ai calcoli della venalità, o al terrore dei potenti: vi sono tiranni che lo imposturano invocandolo a protettore delle loro tirannidi; ma perché la luce del sole ci viene spesso offuscata e guasta da sozzi vapori, negheremo il sole o la potenza vivificatrice del suo raggio sull’universo? Perché dalla libertà i malvagi possono talvolta far sorgere l’anarchia, malediremo alla libertà? La fede in Dio brilla d’una luce immortale attraverso tutte le imposture e le corruttele che gli uomini addensano intorno a quel nome. Le imposture e le corruttele passano, come passano le tirannidi: Dio resta, come resta il Popolo, immagine di Dio sulla terra. Come il popolo, attraverso schiavitù, patimenti e miserie, conquista a grado a grado coscienza, forza, emancipazione, il nome santo di Dio sorge dalle rovine dei culti corrotti a splendere, circondato d’un culto più puro, più fervido e più ragionevole.

Io dunque non vi parlo di Dio per dimostrarvene l’esistenza, o per dirvi che dovete adorarlo: voi lo adorate, anche non nominandolo, ogni qualvolta voi sentite la vostra vita e la vita degli esseri che vi stanno intorno: ma per dirvi come dovete adorarlo; per ammonirvi intorno a un errore che domina le menti di molti tra gli uomini delle classi che vi dirigono, e, per esempio loro, di molti tra voi: errore grave e rovinoso quanto è l’ateismo.

Questo errore è la separazione più o meno dichiarata, di Dio dall’opera sua, dalla Terra sulla quale voi dovete compire un periodo della vostra vita.

Avete, da una parte, una gente che vi dice: “Sta bene: Dio esiste; ma voi non potete più che ammetterlo ed adorarlo. La relazione tra lui e gli uomini, nessuno può intenderla o dichiararla. È questione da dibattersi fra Dio medesimo e la vostra coscienza. Pensate intorno a questo ciò che volete, ma non proponete la vostra credenza ai vostri simili; non cercate d’applicarla alle cose di questa terra. La politica è una cosa, la religione un’altra. Non le confondete. Lasciate le cose del Cielo al potere spirituale stabilito, qualunque ei siasi, salvo a voi di non credergli, se vi pare ch’ei tradisca la sua missione: lasciate che ognuno pensi e creda a suo modo; voi non dovete occuparvi in comune che delle cose della terra. Materialisti o spiritualisti, credete voi nella libertà, o nell’eguaglianza degli uomini? volete il ben essere per la maggiorità? volete il suffragio universale? Riunitevi per ottenere codesto intento; non avete bisogno per questo d’intendervi sulle questioni che riguardano il cielo.”

Avete d’altra parte uomini che vi dicono: “Dio esiste; ma così grande, troppo superiore a tutte le cose create, perché voi possiate sperar di raggiungerlo coll’opere umane. La terra è fango. La vita è un giorno. Distaccatevi dalla prima quanto più potete: non date valore che non merita alla seconda. Che sono mai tutti gli interessi terreni a fronte della vita immortale dell’anima vostra? Pensate a questa: guardate al Cielo. Che v’importa se voi vivete quaggiù in un modo o in un altro? Siete destinati a morire; e Dio vi giudicherà secondo i pensieri che avrete dato, non alla terra, ma a Lui. Soffrite? Benedite al Signore che vi manda quei patimenti. L’esistenza terrena è una prova. La vostra è terra d’esilio. Sprezzatela ed innalzatevi. Di mezzo ai patimenti, alla miseria, alla schiavitù, voi potete rivolgervi a Dio, e santificarvi nell’adorazione di Lui, nella preghiera, nella fede in un avvenire che vi compenserà largamente, e nel disprezzo delle cose mondane.”

Di quei che così vi parlano, i primi non amano Dio; i secondi non lo conoscono.

L’uomo è uno, direte ai primi. Voi non potete troncarlo in due, e far sì ch’egli concordi con voi nei principii che devono regolare l’ordinamento della Società quand’ei differisca intorno all’origine sua, ai suoi destini e alla sua legge di vita quaggiù. Le religioni governano il mondo. Quando gli uomini dell’India credevano d’essere nati, gli uni dalla testa, altri dalle braccia, altri dai piedi di Brama, Divinità loro, ordinavano la Società secondo la divisione degli uomini in caste, assegnavano agli uni ereditariamente il lavoro intellettuale, ad altri la milizia, ad altri le opere servili, e si condannavano a una immobilità che ancor dura e durerà, finché la credenza in quel principio non cada.

Quando i Cristiani dichiararono al mondo, che gli uomini erano tutti figli di Dio e fratelli di Lui, tutte le dottrine dei legislatori e dei teosofi dell’antichità, che stabilivano l’esistenza di due nature negli uomini, non valsero ad impedire l’abolizione della schiavitù, e quindi un ordinamento radicalmente diverso nella Società. Ad ogni progresso delle credenze religiose, noi possiamo mostrarvi corrispondente alla storia dell’Umanità un progresso sociale: alla vostra dottrina d’indifferenza in fatto di religione, voi non potete mostrarci altra conseguenza che l’anarchia. Voi avete potuto distruggere, non mai fondare: smentiteci, se potete. A forza d’esagerare un principio contenuto nel Protestantesimo, e che oggi il Protestantesimo, pur sente il bisogno di abbandonare – a forza di dedurre tutte le vostre idee unicamente dall’indipendenza dell’individuo – voi siete giunti, a che? all’anarchia, cioè all’oppressione del debole, che non ha mezzi, né tempo, né istruzione per esercitare i propri diritti, nell’ordinamento politico; all’egoismo, cioè all’isolamento e alla rovina del debole che non può aiutarsi da sé nella morale. Ma noi vogliamo Associazione: come ottenerla sicura se non da fratelli che credono negli stessi principii regolatori, che s’uniscono nella stessa fede, che giurino nell’istesso nome? Vogliamo educazione: come darla o riceverla, se non in virtù d’un principio che contenga l’espressione delle nostre credenze sull’origine, sul fine, sulla legge di vita dell’uomo su questa terra? Vogliamo educazione comune: come darla o riceverla, senza una fede comune? Vogliamo formare Nazione: come riescirvi, se non credendo in uno scopo comune, in un dovere comune? E donde possiamo noi dedurre un dovere comune? se non dall’idea che ci formiamo di Dio e della sua relazione con noi? Certo: il suffragio universale è cosa eccellente; è il solo mezzo legale col quale un paese possa, senza crisi violente ogni tanto, governarsi; ma il suffragio universale in un paese dominato da una fede darà l’espressione della tendenza, della volontà nazionale; in un paese privo di credenze comuni, cosa mai potrà esprimere se non l’interesse numericamente più forte e l’oppressione di tutti gli altri? Tutte le riforme politiche in ogni paese irreligioso, o non curante di religione, dureranno quanto il capriccio o l’interesse degli individui vorranno e non più. L’esperienza degli ultimi cinquanta anni ci ha addottrinati, su questo punto, abbastanza.

Agli altri che vi parlano del Cielo, scompagnandolo dalla Terra, voi direte che cielo e terra sono, come la via e il termine della via, una cosa sola. Non dite che la terra è fango: la terra è Dio: Dio la creava perché per essa salissimo a Lui. La terra non è un soggiorno di espiazione o di tentazione: è il luogo del nostro lavoro per un fine di miglioramento, del nostro sviluppo verso un grado d’esistenza superiore. Dio ci creava non per la contemplazione, ma per l’azione: ci creava ad immagine sua, ed egli è Pensiero ed Azione, anzi non v’è in lui pensiero che non si traduca in azione. Noi dobbiamo, dite, sprezzare tutte le cose mondane e calpestare la vita terrena, per occuparci della celeste; ma cos’è la vita terrena, se non un preludio della celeste, un avviamento a raggiungerla? non v’avvedete che voi benedicendo l’ultimo gradino della scala per la quale noi tutti dobbiamo salire, e maledicendo al primo, ci troncate la vita?

La vita d’un’anima è sacra, in ogni suo periodo: nel periodo terreno come negli altri che seguiranno; bensì, ogni periodo dev’essere preparazione all’altro, ogni sviluppo temporaneo deve giovare allo sviluppo continuo ascendente alla vita immortale che Dio trasfuse in ciascuno di noi e nella Umanità complessiva che cresce coll’Opera di ciascuno di noi. Or Dio v’ha messo quaggiù sulla terra: v’ha messo intorno milioni di esseri simili a voi, il cui pensiero si alimenta del vostro pensiero, il cui miglioramento progredisce col vostro, la cui vita si feconda della vostra vita: v’ha dato, a salvarvi dai pericoli dell’isolamento, bisogni che non potete soddisfar soli, e istinti predominanti sociali che dormono nei bruti e che vi distinguono da essi: v’ha steso intorno quel mondo che voi chiamate Materia, magnifico di bellezza, pregno di vita, d’una vita che, non dovete dimenticarlo, si mostra per ogni dove tanto che vi si vegga il segno di Dio, ma aspetta nondimeno l’opera vostra, dipende nelle sue manifestazioni da voi, e si moltiplica di potenza quanto più la vostra attività si moltiplica: v’ha posto dentro simpatie inestinguibili, la pietà per chi geme, la gioia per chi sorride, l’ira contro chi opprime la creatura, il desiderio incessante del Vero, l’ammirazione pel Genio che scopre qualche parte del vero, l’entusiasmo per chi lo traduce in azione giovevole a tutti, la venerazione religiosa per chi, non potendo farlo trionfare, muore martire, portando col proprio sangue testimonianza per esso – e voi negate, sprezzate questi indizii della vostra missione che Dio v’ha profuso d’intorno, anzi cacciate l’anatema sui segni suoi, chiamandoci a concentrare tutte le nostre forze in una opera di purificazione interna, imperfetta, impossibile quando è solitaria! Or Dio non punisce chi la pensa così? Non degrada egli lo schiavo? Non sommerge egli negli appetiti sensuali, negli istinti ciechi di quella che voi chiamate materia, metà dell’anima del povero giornaliero costretto a consumare, senza lume d’educazione, in una serie d’atti fisici, la vita divina? Trovate fede religiosa più viva nel servo Russo che non nel Polacco combattente le battaglie della patria e della Libertà? Trovate amore più fervente di Dio nel suddito avvilito d’un Papa e d’un Re tiranno, che non nel repubblicano Lombardo del dodicesimo secolo e nel repubblicano Fiorentino del decimoquarto? Dov’è lo spirito di Dio ivi è la libertà, ha detto uno dei più potenti Apostoli che noi conosciamo; e la religione ch’ei predicava decretò l’abolizione della schiavitù; chi può intendere e adorare convenientemente Dio strisciandosi ai piedi della sua creatura? La vostra non è religione, è setta d’uomini che hanno dimenticato la loro origine, le battaglie che i loro padri sostennero contro una società incadaverita, e le vittorie che riportarono trasformando quel mondo terrestre ch’oggi voi, o contemplatori, sprezzate. Qualunque forte credenza sorga fra le rovine delle vecchie esaurite, trasformerà l’ordinamento sociale esistente, perché ogni forte credenza cerca applicarsi a tutti i rami dell’attività umana; perché la terra ha cercato sempre, in ogni epoca, conformarsi al cielo in cui essa credeva; perché tutta intera la storia dell’Umanità ripete, sotto forme diverse e a gradi diversi, secondo i tempi, la parola registrata nella Orazione Domenicale del Cristianesimo: Venga il tuo regno sulla terra, o Signore, siccome è nel cielo.

Venga il regno di Dio sulla terra, siccome è nel cielo: sia questa, o fratelli miei, meglio intesa e applicata che non fu per l’addietro, la vostra parola di fede, la vostra preghiera: ripetetela e operate perché si verifichi. Lasciate ch’altri tenti persuadervi la rassegnazione passiva, l’indifferenza alle cose terrene, la sommissione ad ogni potere temporale anche ingiusto, replicandovi, male intesa, quell’altra parola: “Rendete a Cesare ciò ch’è il Cesare e ciò ch’è di Dio a Dio”.

Possono dirvi cosa che non sia di Dio? Nulla è di Cesare se non quanto è conforme alla Legge Divina. Cesare, ossia il potere temporale, il governo civile non è che il mandatario, l’esecutore, quanto le sue forze e i tempi concedono, del disegno di Dio: dove tradisce il mandato, è vostro, non diremo diritto, ma dovere mutarlo. A che siete quaggiù, se non per affaticarvi a sviluppare coi vostri mezzi e nella vostra sfera il concetto di Dio? A che professare di credere nell’unità del genere umano, conseguenza inevitabile dell’Unità di Dio, se non lavorate a vivificarla combattendo le divisioni arbitrarie, le inimicizie che separano tuttavia le diverse tribù formanti l’Umanità? A che credere nella Libertà umana, base della umana responsabilità, se non ci adoperiamo a distruggere tutti gli ostacoli che impediscono la prima e viziano la seconda? A che parlare di Fratellanza, pur concedendo che i nostri fratelli siano ogni dì conculcati, avvinti, sprezzati? La terra è la nostra lavoreria: non bisogna maledirla; bisogna santificarla. Le forze materiali che ci troviamo d’intorno sono i nostri strumenti di lavoro; non bisogna ripudiarli, bisogna costantemente, ardentemente dirigerli al bene.

Ma questo, voi, senza Dio, non potete. V’ho parlato di Doveri: v’ho insegnato che la sola conoscenza dei vostri Diritti non basta a guidarci durevolmente sulle vie del bene, non basta a darvi quel miglioramento progressivo, continuo, nella vostra condizione, che voi cercate: or bene, senza Dio, donde il Dovere? senza Dio, voi, a qualunque sistema civile vogliate appigliarvi, non potete trovare altra base che la Forza cieca, brutale, tirannica. Di qui non s’esce. O lo sviluppo delle cose umane dipende da una legge di provvidenza che noi tutti siamo incaricati di scoprire e di applicare, o è affidato al caso, alle circostanze del momento, all’uomo che sa meglio avvalersene. O dobbiamo obbedire a Dio, o servire ad uomini, uno o più non porta. Se non regna una mente suprema su tutte le menti umane, chi può salvarci dall’arbitrio dei nostri simili, quando si trovino più potenti di noi? Se non esiste una Legge santa, inviolabile, non creata dagli uomini, quale norma avremo per giudicare se un atto è giusto o non lo è? In nome di chi, in nome di che protesteremo contro l’oppressione e l’ineguaglianza? Senza Dio, non v’è altro dominatore che il Fatto: il Fatto davanti al quale i materialisti s’inchinano sempre, abbia nome Rivoluzione o Bonaparte: il Fatto del quale i materialisti anch’oggi, in Italia ed altrove, si fanno scudo per giustificare l’inerzia anche dove concordano teoricamente coi nostri principii. Or, comanderemo noi loro sacrificio, il martirio in nome delle nostre opinioni individuali? Cangeremo, in virtù solamente dei nostri interessi, la teorica in pratica, il principio astratto in azione? Disingannatevi. Finché parleremo a individui, in nome di quanto il nostro intelletto individuale ci suggerisce, avremo quel ch’oggi abbiamo: adesione a parole, non opera. Il grido che suonò in tutte le grandi rivoluzioni, il grido Dio lo vuole! Dio lo vuole! delle Crociate, può solo convertire gl’inerti in attivi, dar animo ai paurosi, entusiasmo di sacrifizio ai calcolatori, fede a chi respinge col dubbio ogni umano concetto. Provate agli uomini che l’opera d’emancipazione e di sviluppo progressivo alla quale voi li chiamate, stia nel disegno di Dio: nessuno si ribellerà. Provate loro che l’opera terrestre da compirsi quaggiù è essenzialmente connessa colla loro vita immortale: tutti i calcoli del momento spariranno davanti all’importanza dell’avvenire. Senza Dio, voi potete imporre, non persuadere: potete essere tiranni od oppressori alla volta vostra, non Educatori ed Apostoli.

Dio lo vuole, Dio lo vuole! È grido di popolo, o fratelli; è grido del vostro popolo, grido nazionale Italiano. Non vi lasciate ingannare, o voi che lavorate con sincerità d’amore per la vostra Nazione, da chi vi dirà forse che la tendenza Italiana non è che tentazione politica, e che lo spirito religioso s’è dipartito da essa. Lo spirito religioso non si dipartì mai dall’Italia finché l’Italia, comunque divisa, fu grande ed attiva; si dipartì, quando nel secolo decimosesto, caduta Firenze, caduta sotto le armi straniere di Carlo V, e sotto i raggiri dei Papi ogni libertà di vita Italiana, noi cominciammo a perdere tendenze nazionali e a vivere spagnuoli, tedeschi e francesi. Allora i nostri letterati incominciarono a far da buffoni ai principi e ad accarezzare la svogliatezza dei padroni, ridendo di tutti e di tutto. Allora i nostri preti, vedendo impossibile ogni

applicazione di verità religiosa, incominciarono a far bottega del culto, e a pensare a se stessi, non al popolo ch’essi dovevano illuminare e proteggere. E allora il popolo, sprezzato dai letterati, tradito e spolpato dai preti, esiliato da ogni influenza nelle cose pubbliche, cominciò a vendicarsi ridendo dei letterati, diffidando dei preti, ribellandosi a tutte le credenze, poi che vedeva corrotta l’antica e non poteva presentire più in là. Da quel tempo in poi, noi ci trasciniamo tra le superstizioni comandate dall’abitudine o dai governi e la incredulità, abietti e impotenti. Ma noi vogliamo risorgere grandi ed onorati. E ricorderemo la tradizione Nazionale. Ricorderemo che col nome di Dio sulla bocca e colle insegne della loro fede nel centro della battaglia, i nostri fratelli lombardi vincevano, nel dodicesimo secolo, gl’invasori tedeschi, e riconquistavano le loro libertà manomesse. Ricorderemo che i repubblicani delle città toscane si radunavano al parlamento nei templi. Ricorderemo gli Artigiani Fiorentini che, respingendo il partito di sottomettere all’impero della famiglia Medici la loro libertà democratica, elessero, per voto solenne, Cristo capo della Repubblica – e il frate Savonarola predicante a un tempo il dogma di Dio e quello del popolo – e i Genovesi del 1746 liberatori, a furia di sassate, e del nome di Maria protettrice, della loro città dall’esercito tedesco che la occupava, e una catena d’altri fatti simili a questi, ne’ quali il pensiero religioso protesse e fecondò il pensiero popolare Italiano.

E il pensiero religioso dorme, aspettando sviluppo, nel nostro popolo: chi saprà suscitarlo, avrà fatto più per la Nazione che non con venti sette politiche. Forse all’assenza di questo pensiero negli imitatori delle costituzioni e tattiche monarchiche forestiere che condussero i tentativi passati d’insurrezione in Italia, tanto quanto all’assenza d’uno scopo apertamente popolare, è dovuta la freddezza con che il popolo guardò finora a quei tentativi. Predicate dunque, o fratelli, in nome di Dio. Chi ha cuore italiano vi seguirà.

Predicate in nome di Dio. I letterati sorrideranno: dimandate ai letterati che cosa hanno fatto per la loro patria. I preti vi scomunicheranno: dite ai preti che voi conoscete Dio più ch’essi non fanno, e che tra Dio e la sua Legge, voi non avete bisogno d’intermediari. Il popolo v’intenderà e ripeterà con voi: “Crediamo in Dio Padre Intelletto ed amore, Creatore ed Educatore dell’Umanità”. E in quella parola, voi e il Popolo vincerete.

La Legge

Voi avete vita: dunque avete una legge di vita. Non c’è vita senza legge. Qualunque cosa esiste, esiste in un certo modo, secondo certe condizioni, con una certa legge. Una legge d’aggregazione governa i minerali: una legge di sviluppo governa le piante: una legge di moto governa gli astri: una legge governa voi e la vostra vita: legge tanto più nobile ed alta quanto più voi siete superiori a tutte le cose create sulla terra. Svilupparvi, agire, vivere secondo la vostra legge è il primo, anzi l’unico vostro dovere.

Dio v’ha dato la vita; Dio v’ha dunque data la legge; Dio è l’unico Legislatore della razza umana. La sua legge è l’unica alla quale voi dobbiate ubbidire. Le leggi umane non sono valide e buone se non in quanto vi si uniformano, spiegandola ed applicandola: sono tristi ogni qualvolta la contradicono o se ne discostano: ed è non solamente vostro diritto, ma vostro dovere disubbidirle e abolirle. Chi meglio spiega ed applica ai casi umani la legge di Dio, è vostro capo legittimo: amatelo e seguitelo. Ma da Dio in fuori, non avete, né potete, senza tradirlo e ribellarvi da lui, avere padrone.

Nella coscienza della vostra legge di vita, della LEGGE DI DIO, sta dunque il fondamento della morale, la regola delle vostre azioni e dei vostri doveri, la misura della vostra responsabilità: in essa sta pure la vostra difesa contro le leggi ingiuste che l’arbitrio d’un uomo o di più uomini può tentare d’imporvi. Voi non potete, senza conoscerla, prender nomi o diritti d’uomini. Tutti i diritti hanno la loro origine in una legge, e voi, ogni qualvolta non potete invocarla, potete essere tiranni o schiavi, non altro: tiranni se siete forti, schiavi dell’altrui forza se siete deboli. Ad essere uomini, vi bisogna conoscere la legge che distingue la natura umana da quella dei bruti, delle piante, dei minerali, e conformarvi le vostre azioni.

Or, come conoscerla?

È questa la dimanda che in tutti i tempi l’Umanità ha indirizzato a quanti hanno pronunziato la parola: legge, doveri; e le risposte sono anch’oggi diverse.

Gli uni hanno risposto mostrando un Codice, un libro e dicendo: “Qui dentro è tutta la legge morale.” Gli altri hanno detto: “Ogni uomo interroghi il proprio core; ivi sta la definizione del bene e del male.” Altri ancora, rigettando il giudizio dell’individuo, ha invocato il consenso universale, e dichiarato che dove l’umanità concorda in una credenza, quella è la vera.

Erravano tutti. E la storia del genere umano dichiarava impotenti, con fatti irrecusabili, tutte queste risposte.

Quei che affermano trovarsi in un libro o sulla bocca d’un solo uomo tutta quanta la legge morale, dimenticano che non v’è codice dal quale l’Umanità, dopo una credenza di secoli, non si sia scostata per cercarne e ispirarne un altro migliore, e che non v’è ragione, oggi specialmente, di credere che l’Umanità cangi di metodo.

A quel che sostengono la sola coscienza dell’individuo essere la norma del vero e del falso, ossia del bene e del male, basta ricordare, che nessuna religione, per santa che fosse, è stata senza eretici, senza dissidenti convinti e presti ad affrontare il martirio in nome della loro coscienza.

Oggi il Protestantesimo si divide e suddivide in mille sette tutte fondate sui diritti della coscienza dell’individuo; tutte accanite a farsi guerra tra loro, e perpetuanti l’anarchia di credenze, vera e sola sorgente della discordia che tormenta socialmente e politicamente i popoli dell’Europa.

E d’altra parte, agli uomini che rinnegano la testimonianza della coscienza dell’individuo per richiamarsi unicamente al consenso dell’Umanità in una credenza, basta ricordare come tutte le grandi idee che migliorano l’Umanità, cominciarono a manifestarsi in opposizione a credenze che l’Umanità consentiva, e furono predicate da individui che l’Umanità derise, perseguitò, crocefisse.

Ciascuna dunque di queste norme è insufficiente a ottenere la conoscenza della LEGGE DI DIO, della Verità! E nondimeno, la coscienza dell’individuo è santa: il consenso comune dell’Umanità è santo: e chiunque rinunzia a interrogare questo o quella, si priva d’un mezzo essenziale per conoscere la verità. L’errore generale fin qui è stato quello di volerla raggiungere con un solo di questi mezzi esclusivamente: errore decisivo e funestissimo nelle conseguenze, perché non si può stabilire la coscienza dell’individuo, sola norma della verità, senza cadere nell’anarchia; non si può invocare come inappellabile il consenso generale in un momento dato, senza soffocare la libertà umana e rovinare nella tirannide.

Così – e cito questi esempi per mostrare come da queste prime basi dipenda, più che generalmente non si crede, tutto quanto l’edifizio sociale – così gli uomini, servendo allo stesso errore, hanno ordinato la società politica, gli uni sul rispetto unicamente dei diritti dell’individuo, dimenticando interamente la missione educatrice della società; gli altri unicamente sui diritti, sociali, sacrificando la libertà e l’azione dell’individuo. E la Francia dopo la sua grande rivoluzione, e l’Inghilterra segnatamente, c’insegnarono come il primo sistema non conduca che alla ineguaglianza e all’oppressione dei più; il Comunismo, fra gli altri, ci mostrerebbe, se potesse mai trapassare allo stato di fatto, come il secondo condanni a pietrificarsi la società togliendone ogni moto e ogni facoltà di progresso.

Così gli uni, considerando che i pretesi diritti dell’individuo hanno ordinato, o meglio, disordinato il sistema economico, gli danno per unica base la teoria della libera concorrenza illimitata; mentre gli altri, non guardando che all’unità sociale, vorrebbero fidare al governo il monopolio di tutte le forze produttrici dello Stato: due concetti, il primo de’ quali ci ha dato tutti i mali dell’anarchia, il secondo ci darebbe l’immobilità e tutti i mali della tirannide.

Dio v’ha dato il consenso dei vostri fratelli e la vostra coscienza, come due ali per innalzarvi quanto è possibile sino a lui. Perché v’ostinate a troncarne una? Perché isolarvi, assorbirvi nel mondo? Perché voler soffocare la voce del genere umano? Ambe sono sacre: Dio parla in ambe. Dovunque s’incontrano, dovunque il grido della vostra coscienza è ratificato dal consenso dell’Umanità, ivi è Dio, ivi siete certi di avere in pugno la verità: l’uno è la verificazione dell’altro.

Se i vostri doveri non fossero che negativi, se consistessero unicamente nel non fare il male, nel non nuocere ai vostri fratelli, forse, nello stato di sviluppo in cui oggi sono anche i meno educati, il grido della vostra coscienza basterebbe a dirigervi. Siete nati al bene, e ogni qual volta voi operate direttamente contro la Legge, ogni qual volta voi commettete ciò che gli uomini chiamano delitto, v’è tal cosa in voi che v’accusa, tale una voce di rimprovero che voi potrete dissimulare agli altri, ma non a voi stessi. Ma i vostri più importanti doveri sono positivi. Non basta il non fare: bisogna fare. Non basta limitarsi a non operare contro la Legge: bisogna operare a seconda della Legge. Non basta il non nuocere, bisogna giovare ai vostri fratelli. Pur troppo finora la morale s’è presentata ai più fra gli uomini in una forma più negativa che affermativa. Gl’interpreti della Legge hanno detto: “non ruberai, non ammazzerai”; nessuno o pochi, hanno insegnato gli obblighi che spettano all’uomo, e il come egli debba giovare ai suoi simili e al disegno di Dio nella creazione. Or questo è il primo scopo della Morale; né l’individuo, consultando unicamente la propria coscienza, può raggiungerlo mai.

La coscienza dell’individuo parla in ragione della sua educazione, delle sue tendenze, delle sue abitudini, delle sue passioni. La coscienza dell’Irochese selvaggio parla un linguaggio diverso da quello dell’Europeo incivilito del XIX secolo. La coscienza dell’uomo libero suggerisce doveri che la coscienza dello schiavo non sospetta nemmeno. Interrogate il povero giornaliero Napoletano o Lombardo, al quale un cattivo prete fu l’unico apostolo di morale, al quale, s’ei pur sa leggere, quella del catechismo Austriaco fu l’unica lettura concessa, egli vi dirà che i suoi doveri sono lavoro assiduo a ogni prezzo per sostenere la sua famiglia, sommissione illimitata senza esame alle leggi quali esse siano, e il non nuocere altrui: a chi gli parlasse di doveri che lo legano alla patria e all’Umanità, a chi gli dicesse: “voi nuocete ai nostri fratelli, accettando di lavorare per un prezzo inferiore all’opera, voi peccate contro Dio e contro all’anima vostra, obbedendo a leggi che sono ingiuste”, ei risponderebbe, come chi non intende, inarcando le ciglia. Interrogate l’operaio Italiano, al quale circostanze migliori o il contatto con uomini di più educato intelletto hanno insegnato più parte del vero; ei vi dirà che la sua patria è schiava, che i suoi fratelli sono ingiustamente condannati a vivere in miseria materiale e morale, e ch’ei sente il dovere di protestare, potendo, contro questa ingiustizia. Perché tanto divario fra i suggerimenti della coscienza in due individui dello stesso tempo e dello stesso paese? Perché fra dieci individui appartenenti in sostanza alla stessa credenza, quella che impone lo sviluppo e il progresso della razza umana, troviamo dieci convinzioni diverse sui modi d’applicare la credenza alle azioni, cioè sui doveri? Evidentemente, il grido della coscienza dell’individuo non basta, in ogni stato di cose e senz’altra norma, a rivelargli la Legge. La coscienza basta solo a insegnarvi che una legge esiste, non quali sono questi doveri. Per questo il martirio non s’è mai, e comunque l’egoismo predominasse, esiliato dall’Umanità; ma quanti martiri non sacrificarono l’esistenza per presunti doveri, a beneficio d’errori oggi patenti a ciascuno!

V’è dunque bisogno d’una scorta alla vostra coscienza, d’un lume che le rompa d’intorno la tenebra, d’una norma che ne verifichi e ne diriga gl’istinti. E questa norma è l’Intelletto e l’Umanità.

Dio ha dato intelletto a ciascun di voi, perché lo educhiate a conoscere la sua Legge. Oggi, la miseria, gli errori inveterati da secoli e la volontà dei vostri padroni, vi contrastano fin la possibilità d’educarlo; e per questo v’è necessario rovesciare quegli ostacoli colla forza. Ma quand’anche gli ostacoli saranno tolti di mezzo, l’intelletto di ciascun di voi sarà insufficiente a conoscere la legge di Dio, se non appoggiandosi all’intelletto dell’umanità. La vostra vita è breve: le vostre facoltà individuali sono deboli, incerte, e abbisognano d’un punto d’appoggio. Or Dio v’ha messo vicino un essere la cui vita è continua, e le cui facoltà sono la somma di tutte le facoltà individuali che si sono, da forse quattrocento secoli, esercitate; un essere che attraverso gli errori e le colpe degli individui migliora sempre in sapienza e moralità: un essere nel cui sviluppo Dio ha scritto e scrive ad ogni epoca una linea della sua Legge.

Quest’essere è l’Umanità.

L’Umanità, ha detto un pensatore del secolo scorso, è un uomo che impara sempre. Gl’individui muoiono; ma quel tanto di vero che essi hanno pensato, quel tanto di buono ch’essi hanno operato non va perduto con essi: l’Umanità lo raccoglie e gli uomini che passeggiano sulla loro sepoltura ne fanno lor pro. Ognuno di noi nasce in oggi in una atmosfera d’idee e di credenze elaborata da tutta l’Umanità anteriore: ognuno di noi porta, senza pur saperlo, un elemento più o meno importante alla vita dell’Umanità successiva. La educazione dell’Umanità progredisce come si innalzano in Oriente quelle piramidi alle quali ogni viandante aggiunge una pietra. Noi passiamo, viandanti d’un giorno, chiamati a compiere la nostra educazione individuale altrove; l’educazione dell’Umanità si mostra a lampi in ciascuno di noi, si svela lentamente, progressivamente, continuamente nell’umanità.. l’Umanità è il verbo vivente di Dio. Lo spirito di Dio la feconda, e si manifestò sempre più puro, sempre più attivo d’epoca in epoca in essa, un giorno per mezzo d’un individuo, un altro per mezzo d’un popolo. Di lavoro in lavoro, di credenza in credenza, l’Umanità conquista via via una nozione più chiara della propria vita, della propria missione, di Dio e della sua Legge.

Dio s’incarna successivamente nell’umanità. La legge di Dio è una, sì come è Dio; ma noi lo scopriamo articolo per articolo, linea per linea, quanto più s’accumula l’esperienza educatrice delle generazioni che precedono, quanto più cresce in ampiezza e in intensità l’associazione fra le razze, fra i popoli, fra gl’individui. Nessun uomo, nessun popolo, nessun secolo può presumere di scoprirla intera: la legge morale, la legge di vita dell’umanità tutta quanta raccolta in associazione, quando tutte le forze, tutte le facoltà che costituiscono l’umana natura saranno sviluppate e in azione. Ma intanto, quella parte dell’Umanità ch’è più inoltrata nell’educazione c’insegna col suo sviluppo parte della legge che noi cerchiamo. Nella sua storia leggiamo il disegno di Dio; ne’ suoi bisogni i nostri doveri: doveri che mutano o per dir meglio crescono coi bisogni, perché il nostro primo dovere sta nel concorrere a che l’Umanità salga prontamente quel grado di miglioramento e di educazione al quale Dio e i tempi l’hanno preparata.

Voi dunque, a conoscere la legge di Dio, avete bisogno d’interrogare non solamente la vostra coscienza, ma la coscienza, il consenso dell’Umanità; a conoscere i vostri doveri, avete bisogno d’interrogare i bisogni attuali dell’Umanità. La morale è progressiva come l’educazione del genere umano e di voi. La morale del Cristianesimo non era quella dei tempi Pagani: la morale del secolo nostro non è quella di diciotto secoli addietro. Oggi i vostri padroni, colla segregazione dell’altre classi, col divieto d’ogni associazione, colla doppia censura imposta alla stampa procacciano di nascondervi, coi bisogni dell’Umanità, i vostri doveri. E nondimeno, anche prima del tempo in cui la Nazione v’insegnerà gratuitamente dalle scuole di educazione generale la storia dell’Umanità nel passato e i suoi bisogni presenti, voi potete, volendo, imparare in parte almeno la prima e indovinare i secondi. I bisogni attuali dell’Umanità emergono in espressioni più o meno imperfette, dai fatti che occorrono ogni giorno nei paesi ai quali non è legge assoluta l’immobilità del silenzio. Chi vi vieta, fratelli delle terre schiave, saperli? Qual forza di sospettosa tirannide può lungamente contendere a milioni d’uomini, moltissimi dei quali viaggiano fuori d’Italia e rimpatriano, la conoscenza dei fatti europei? Se le associazioni pubbliche vi sono in quasi tutta Italia vietate, chi può vietar le segrete, quand’esse fuggano i simboli e le organizzazioni complicate, e non consistano che d’una catena fraterna stesa di paese in paese fino a toccare alcuno tra gli infiniti punti della frontiera? Non troverete voi sopra ogni punto della frontiera terrestre e marittima, uomini vostri, uomini che i vostri padroni hanno cacciato fuori di patria per aver voluto giovarvi, che vi saranno apostoli di verità, che vi diranno con amore ciò che gli studi e le tristi facilità dell’esilio hanno loro insegnato sui voti presenti e sulla tradizione dell’Umanità? Chi può impedirvi, solo che voi vogliate, di ricevere alcuno degli scritti che i vostri fratelli stampano qui nell’esilio per voi? Leggeteli e ardeteli, sì che il giorno dopo, l’inquisizione dei vostri padroni non li trovi fra le vostre mani e non ne faccia argomento di colpa alle vostre famiglie; ma pur leggeteli e ripetete, quel tanto che avrete potuto serbare a mente, ai più fidati dei vostri amici. Aiutateci colle offerte ad allargare la sfera dell’Apostolato, a compilare, a stampare per voi manuali di storia generale e di storia patria. Aiutateci, moltiplicando le comunicazioni, a diffonderli. Convincetevi che senza istruzione, voi non potete conoscere i vostri doveri: convincetevi che dove la Società vi contende ogni insegnamento, la responsabilità d’ogni colpa è non vostra, ma sua: la vostra incomincia dal giorno in cui una via qualunque allo insegnamento v’è aperta, e la negligete: dal giorno in cui vi si mostrano mezzi per mutare una società che vi condanna all’ignoranza, e voi non pensate ad usarne. Non siete colpevoli perché ignorate; siete colpevoli perché vi rassegnate a ignorare – perché mentre la vostra coscienza v’avverte che Dio non v’ha dato facoltà senza imporvi di svilupparle, voi lasciate dormire nell’anima vostra tutte le facoltà del pensiero – perché, mentre pur sapete che Dio non può avervi dato l’amore del vero senza darvi i mezzi di conseguirlo, voi, disperando, rinunziate a farne ricerca e accettate, senza esame, per verità l’affermazione del potente e del sacerdote venduto al potente

Dio, Padre ed educatore dell’Umanità, rivela nello spazio e nel tempo la sua legge all’Umanità. Interrogate la tradizione dell’Umanità, il Consenso dei vostri fratelli, non nel cerchio ristretto di un secolo o d’una setta, ma in tutti i secoli e nella maggiorità degli uomini passati e presenti. Ogni volta che a quel consenso corrisponde la voce della vostra coscienza, voi siete certi del vero, certi d’avere una linea della legge di D

Noi crediamo nell’Umanità, sola interprete della legge di Dio sulla terra; e dal consenso dell’umanità in armonia colla nostra coscienza, deduciamo quanto andrò via via dicendovi intorno ai vostri doveri.

Doveri verso l’umanità

I vostri primi doveri, primi non per tempo ma per importanza e perché senza intendere quelli non potete compiere se non imperfettamente gli altri, sono verso l’Umanità. Avete doveri di cittadini, di figli, di sposi e di padri, doveri santi, inviolabili, dei quali vi parlerò a lungo tra poco; ma ciò che fa santi e inviolabili quei doveri, è la missione, il Dovere che la vostra natura d’uomini vi comanda. Siete padre per educare uomini al culto e allo sviluppo della Legge di Dio. Siete cittadini, avete una Patria, per potere facilmente, in una sfera limitata, con concorso di gente già stretta a voi per lingua, per tendenze, per abitudini, operare, a beneficio degli uomini quanti sono e saranno, ciò che mal potreste operare perduti, voi soli e deboli, nell’immenso numero dei vostri simili. Quei che v’insegnano morale, limitando la nozione dei vostri doveri alla famiglia o alla patria, v’insegnano, più o meno ristretto, l’egoismo, e vi conducono al male per gli altri e per voi medesimi. Patria e Famiglia son come due circoli segnati dentro un circolo maggiore che li contiene; come due gradini d’una scala senza i quali non potreste salire più in alto, ma sui quali non è permesso arrestarvi.

Siete uomini: cioè creature ragionevoli, socievoli e capaci, per mezzo unicamente dell’associazione, d’un progresso, a cui nessuno può assegnar limiti: e questo è quel tanto che oggi sappiamo dalla Legge di vita data all’Umanità. Questi caratteri costituiscono la umana natura, che vi distingue dagli altri esseri che vi circondano e che è fidata a ciascuno di voi come un seme da far fruttare. Tutta la vostra vita deve tendere all’esercizio e allo sviluppo ordinario di queste facoltà fondamentali della vostra natura. Qualunque volta voi sopprimete o lasciate sopprimere, in tutto o in parte, una di queste facoltà, voi scadete dal rango d’uomini fra gli animali inferiori o violate la legge della vostra vita, la Legge di Dio.

Scadete fra i bruti e violate la Legge di Dio, qualunque volta voi sopprimete o lasciate sopprimere una delle facoltà che costituiscono l’umana natura in voi o in altri. Ciò che Dio vuole, è non già che la sua legge s’adempia in voi individui – se Dio non avesse voluto che questo, ei vi avrebbe creato soli – ma che s’adempia su tutta quanta la terra, fra tutti gli esseri ch’egli creava a immagine sua. Ciò ch’egli vuole è che il pensiero di perfezionamento e d’amore, da lui posto nel mondo, si riveli e splenda più sempre adorato e rappresentato. La vostra esistenza terrestre, individuale, limitatissima com’è per tempo e per facoltà, non può rappresentarlo che imperfettissimo e a lampi. L’Umanità sola, continua per generazioni e per intelletto, che si nutre dell’intelletto di tutti i suoi membri, può svolgere via via quel divino pensiero e applicarlo e glorificarlo. La vita vi fu dunque data da Dio perché ne usiate a benefizio dell’Umanità, perché dirigiate le vostre facoltà individuali allo sviluppo delle facoltà dei vostri fratelli, perché aggiungiate con l’opera vostra un elemento qualunque all’opera collettiva di miglioramento e di scoperta del vero, che le generazioni, lentamente ma continuamente promuovono. Dovete educarvi ed educare, perfezionare. Dio è in voi, non v’è dubbio; ma Dio è pure in tutti gli uomini che popolano con voi questa terra: Dio è nella vita di tutte le generazioni che furono, sono e saranno, e hanno migliorato e miglioreranno progressivamente il concetto che l’Umanità si forma di Lui, della sua Legge, e dei nostri Doveri. Dovete adorarlo e glorificarlo per tutto ov’Egli è. L’Universo è il suo Tempio. Ed ogni profanazione non combattuta, non espiata, del Tempio di Dio, ricade su tutti quanti i credenti. Poco importa che voi possiate dirvi puri: quando anche poteste, isolandovi, rimanervi tali, se avete a due passi la corruzione e non cercate combatterla, tradite i vostri doveri. Poco importa che adoriate nell’anima nostra la Verità: se l’errore governa i vostri fratelli in un altro angolo di questa terra che ci è madre comune, e voi non desiderate e non tentate, per quanto le forze vostre vel concedono, rovesciarlo, tradite i vostri doveri. L’immagine di Dio è sformata nell’anime immortali dei vostri simili. Dio vuole essere adorato nella sua Legge, e la sua Legge è fraintesa, violata, negata d’intorno a voi. L’umana natura è falsata nei milioni d’uomini ai quali, siccome a voi, Dio ha fidato l’adempimento concorde del suo disegno. E voi rimanendovi inerti, osereste pure chiamarvi credenti?

Un popolo, il Greco, il Polacco, il Circasso, sorge con una bandiera di patria e d’indipendenza, combatte, vince, o muore per quella. Cos’è che fa battere il vostro cuore al racconto delle sue battaglie, che lo solleva nella gioia alle sue vittorie, che lo contrista alla sua caduta? Un uomo, vostro o straniero, si leva, nel silenzio comune, in un angolo della terra, preferisce alcune idee, ch’ei crede vere, le mantiene nella persecuzione e fra i ceppi, e muore, senza rinnegarle, sul palco. Perché lo onorate col nome di Santo e di Martire? Perché rispettate e fate rispettare dai vostri figli la sua memoria?

E perché leggete con avidità i miracoli di amor patrio registrati nelle storie Greche e li ripetete ai figli vostri con un senso d’orgoglio quasi fossero storie dei vostri padri? Quei fatti Greci son vecchi di due mila anni, e appartengono a un’epoca d’incivilimento che non è la vostra, né lo sarà mai. Quell’uomo che chiamate Martire, moriva forse per idee che non sono le vostre, e troncava a ogni modo colla morte ogni via al suo progresso individuale quaggiù. Quel popolo che ammirate nella vittoria o nella caduta, e popolo straniero a voi, forse pressoché ignoto; parla un linguaggio diverso, e il modo della sua esistenza non influisce visibilmente sul vostro: che importa a voi se chi lo domina è il Sultano o il Re di Baviera, il Russo o un governo escito dal consenso della nazione? Ma nel vostro cuore è una voce che grida: “Quegli uomini di due mila anni addietro, quelle popolazioni ch’oggi combattono lontane da voi, quel martire per le idee del quale voi non morreste, furono, sono fratelli vostri: fratelli non solo per comunioni di origine e di natura, ma per comunione di lavoro e di scopo. Quei Greci antichi passarono; ma l’opera loro non passò, e senza quella voi non avreste oggi quel grado di sviluppo intellettuale e morale che avete raggiunto. Quelle popolazioni consacrarono col loro sangue una idea di libertà nazionale per la quale voi combattete. Quel martire insegnava morendo che l’uomo deve sacrificare ogni cosa e, occorrendo, la vita a quel che egli crede essere la Verità. Poco importa ch’egli e quanti altri segnano col loro sangue la fede tronchino qui sulla terra il proprio sviluppo individuale: Dio provvede altrove per essi. Importa lo sviluppo dell’Umanità. Importa che la generazione ventura sorga, ammaestrata dalle vostre pugne e dai vostri sacrifici, più alta e più potente che voi non siete nella intelligenza della Legge, nell’adorazione della Verità. Importa che, fortificata dagli esempi, la natura umana migliori e verifichi più sempre il disegno di Dio sulla terra. E in qualunque luogo la natura migliori, in qualunque luogo si conquisti una verità, in qualunque parte si mova un passo sulla via dell’educazione, del progresso, della morale, è passo, è conquista che frutterà presto o tardi a tutta quanta l’Umanità. Siete tutti soldati d’un esercito che move per vie diverse, diviso in nuclei diversi, alla conquista d’un solo intento. Oggi, voi non guardate che ai vostri capi immediati; le diverse assise, le diverse parole d’ordine, le distanze che separano i corpi d’operazione, le montagne che celano gli uni al guardo degli altri, vi fanno spesso dimenticare questa verità e concentrano esclusivamente la vostra attenzione sul fine che v’è più prossimo. Ma v’è più alto di tutti voi, chi abbraccia l’insieme e dirige le mosse. Dio solo ha il segreto della battaglia e saprà raccogliervi tutti in un campo e sotto una sola bandiera.

Quanta distanza tra questa credenza che fermenta nelle anime nostre e sarà base alla morale dell’Epoca che sta per sorgere, e quelle che davano per base alla loro morale le generazioni che oggi chiamano antiche! E com’è stretto il legame che passa fra l’idea che noi ci formiamo del Principio Divino e quella che ci formiamo dei nostri doveri! I primi uomini sentivano Dio, ma senza intenderlo, senza più cercare d’intenderlo nella sua Legge: lo sentivano nella sua potenza, non nell’amore: concepivano confusamente una relazione qualunque fra Lui e il proprio individuo, non altro. Poco atti a staccarsi dalla sfera degli oggetti sensibili, lo sostanziavano in uno di quelli, nell’albero che avevan veduto colpito dal fulmine, nella pietra presso alla quale avevano innalzata la loro tenda, nell’animale che s’era offerto prima al loro occhio. Era il culto che nella storia della religione si distingue col nome di feticismo. E allora gli uomini non conobbero che la famiglia, riproduzione in certo modo del loro individuo: oltre il cerchio della famiglia, non v’erano che stranieri, o più generalmente, nemici; giovare a sé e alla famiglia, era l’unica base della morale. Più appresso, l’idea di Dio s’ampliò. Dagli oggetti sensibili l’uomo risali timidamente all’astrazione: generalizzò. Dio non fu più il protettore della famiglia, ma dell’associazione di più famiglie, della città, della gente. Al feticismo successe il politeismo, culto di molti Dei. Allora la morale ampliò anch’essa il suo cerchio d’azione. Gli uomini riconobbero l’esistenza dei doveri più estesi della famiglia e lavorarono all’incremento della gente, della nazione. Pur nondimeno, l’Umanità s’ignorava. Ogni nazione chiamava barbari gli stranieri, li trattava siccome tali, e ne cercava colla forza e coll’arte la conquista o l’abbassamento. Ogni nazione aveva stranieri o barbari nel suo seno, uomini, milioni di uomini, non ammessi ai riti religiosi dei cittadini, creduti di natura diversa, e schiavi fra i liberi. L’unità del genere umano non poteva essere ammessa che come conseguenza dell’unità di Dio. E l’unità di Dio, indovinata da alcuni rari pensatori dell’antichità, manifestata altamente da Mosè, ma colla restrizione funesta che un solo popolo era l’eletto di Dio, non fu riconosciuta che verso lo scioglimento dell’impero Romano, per opera del Cristianesimo; Cristo pose in fronte alla sua credenza queste due verità inseparabili: non v’è che un solo Dio, tutti gli uomini sono figli di Dio; e la promulgazione di queste due verità cangiò aspetto al mondo e ampliò il cerchio morale sino ai confini delle terre abitate. Ai doveri verso la famiglia e verso la patria, s’aggiunsero i doveri verso l’Umanità. Allora l’uomo imparò che dovunque ei trovava un suo simile, ivi era un fratello per lui, un fratello dotato d’un’anima immortale come la sua, chiamata a ricongiungersi al Creatore, e ch’ei gli dovea amore, partecipazione della fede, e aiuto di consiglio e d’opera, dov’egli ne abbisognasse. Allora, presentimento d’altre verità contenute in germe nel Cristianesimo, s’udirono sulla bocca degli Apostoli parole sublimi, inintelligibili all’antichità, male intese o tradite anche dai successori; siccome in un corpo sono molte membra, e ciascun membro eseguisce una diversa funzione, così, benché molti, noi siamo un corpo solo, e membra gli uni degli altri. E vi sarà un solo ovile e un solo pastore. Ed oggi, dopo diciotto secoli di studi ed esperienze e fatiche, si tratta di dare sviluppo a quei germi: si tratta d’applicare quella verità, non solamente a ciascun individuo, ma a tutto quell’insieme di facoltà e forze umane e presenti e future che si chiama l’UMANITÀ: si tratta di promulgare non solamente che l’Umanità, è un corpo solo e deve essere governato da una sola legge, ma che il primo articolo di questa Legge è: Progresso, progresso qui sulla terra dove dobbiamo verificare quanto più possiamo del disegno di Dio ed educarci a migliori destini. Si tratta d’insegnare agli uomini che, se l’Umanità è un corpo solo, noi tutti, siccome membra di quel corpo, dobbiamo lavorare al suo sviluppo e a farne più armonica, più attiva e più potente la vita. Si tratta di convincersi che non possiamo salire a Dio, se non per l’anime dei nostri fratelli, e che dobbiamo migliorarle e purificarle anche dov’esse nol chiedano. Si tratta, dacché l’Umanità intera può sola compiere quella parte del disegno di Dio ch’ei volle si compiesse quaggiù, di sostituire all’esercizio della carità verso gl’individui, un lavoro d’associazione tendente a migliorar l’insieme, di ordinare a siffatto scopo la famiglia e la patria. Altri doveri più vasti si riveleranno a noi, nel futuro, secondo che acquisteremo una idea meno imperfetta e più chiara della nostra Legge di vita. Così Dio Padre, per mezzo d’una lenta, ma continua educazione religiosa, guida al meglio l’Umanità, e in quel meglio il nostro individuo migliora anch’

Migliora in quel meglio, né senza un miglioramento comune voi potete sperare che migliorino le condizioni morali o materiali del vostro individuo. Voi, generalmente parlando, non potete, quando anche il voleste, separare la vostra vita da quella dell’Umanità, vivente in essa, d’essa, per essa. L’anima vostra, salve le eccezioni dei pochissimi straordinariamente potenti, non può svincolarsi dalla influenza degli elementi fra i quali si esercita; come il corpo, comunque costituito robustamente, non può sottrarsi all’azione d’un’aria corrotta che lo circondi. Quanti fra voi vorranno, colla sicurezza di cacciarli incontro alle persecuzioni, educare i figli ad una sincerità senza limiti, dove la tirannide e lo spionaggio impongono di tacere o mentire i due terzi delle proprie opinioni? Quanti vorranno educarli al disprezzo delle ricchezze in una società dove l’oro è l’unica potenza che ottenga onori, influenza, rispetto, anzi che protegga dall’arbitrio e dall’insulto dei padroni e dei loro agenti? Chi è di voi che per amore e colle migliori intenzioni del mondo non abbia mormorato ai suoi cari in Italia: diffidate degli uomini; l’uomo onesto deve concentrarsi in sé stesso e fuggire la vita Pubblica; la carità comincia da casa; e sì fatte massime evidentemente immorali, ma suggeritevi dall’aspetto generale della società? Qual’è la madre che, sebbene appartenente a una fede che adora la Croce di Cristo, martire volontario dell’umanità, non abbia cacciato le braccia intorno al collo del figlio, e tentato svolgerlo da tentativi pericolosi pel bene de’ suoi fratelli? E dov’anche trovaste in voi la forza d’insegnare il contrario, la società intera non distruggerebbe essa colle mille sue voci, coi mille suoi tristissimi esempi, l’effetto della vostra parola? Potete voi stessi purificare, innalzare l’anima vostra, in un’atmosfera di contaminazione e d’avvilimento? E scendendo alle vostre condizioni materiali, pensate possano migliorare stabilmente per altra via che quella del miglioramento comune? Milioni di lire sterline sono spese annualmente qui in Inghilterra, ov’io scrivo, dalla carità dei privati a sollievo degli individui caduti in miseria; e la miseria cresce annualmente, e la carità verso gli individui è provata impotente a sanar le piaghe, e la necessità di rimedi organici collettivi è più sempre universalmente sentita. Dove il paese è minacciato continuamente in virtù delle leggi ingiuste che lo governano, d’una lotta violenta fra gli oppressori e gli oppressi, credete possono rifluire i capitali e abbondare le imprese vaste, lunghe, costose? Dove i dazi e le proibizioni stanno nel capriccio d’un governo assoluto che non ha chi lo moderi, e le cui spese di eserciti di spie. d’impiegati o di pensionati crescono coi bisogni della sua sicurezza, credete l’attività dell’industria e della manifattura possa ricevere uno sviluppo progressivo, continuo? Risponderete che basta ordiniate meglio il governo e le condizioni sociali nella patria vostra? Non basta. Nessun popolo vive in oggi esclusivamente dei propri prodotti. Voi vivete di cambi, di importazioni e d’esportazioni.

Una nazione straniera che impoverisca, nella quale diminuisca la cifra dei consumatori, è un mercato di meno per voi. Un commercio straniero che, in conseguenza dei cattivi ordinamenti, soggiaccia a crisi o a rovina, produce crisi o rovina nel vostro. I fallimenti d’Inghilterra o d’America trascinano fallimenti Italiani. Il credito è in oggi istituzione non nazionale, ma Europea. E inoltre, ogni tentativo di miglioramento nazionale che voi farete avrà nemici, in virtù delle Leghe contratte dai principi, primi ad accorgersi che la quistione è in oggi generale, di tutti i governi. Né v’è speranza per voi se non nel miglioramento universale, nella fratellanza fra tutti i popoli dell’Europa e, per l’Europa, dell’umanità.

Voi dunque, o fratelli, per dovere e per utile vostro, non dimenticherete mai che i primi vostri doveri, doveri, senza compiere i quali voi non potete sperare di compiere quei che la patria e la famiglia comandano, sono verso l’Umanità. La parola e l’opera vostra siano per tutti, sì come per tutti è Dio, nel suo amore e nella sua Legge. In qualunque terra voi siate, dovunque un uomo combatte pel diritto, pel giusto, pel vero, ivi è un vostro fratello: dovunque un uomo soffre, tormentato dall’errore, dall’ingiustizia, dalla tirannide, ivi è un vostro fratello, Liberi e schiavi SIETE TUTTI FRATELLI. Una è la vostra origine, una la legge, uno il fine per tutti voi. Una sia la credenza, una l’azione, una la bandiera sotto cui militate. Non dite: il linguaggio che noi parliamo è diverso: le lagrime, l’azione, il martirio formano linguaggio comune per gli uomini quanti sono, e che voi tutti intendete. Non dite: l’Umanità è troppo vasta, e noi troppo deboli. Dio non misura le forze, ma le intenzioni. Amate l’Umanità. Ad ogni opera vostra nel cerchio della Patria o della famiglia, chiedete a voi stessi: se questo ch’io fo fosse fatto da tutti e per tutti, gioverebbe o nuocerebbe all’Umanità? e se la coscienza vi risponde: nuocerebbe, desistete, desistete quand’anche vi sembri che dall’azione vostra escirebbe un vantaggio immediato per la Patria e per la Famiglia. Siate apostoli di questa fede, apostoli della fratellanza delle Nazioni e della unità, oggi ammessa in principio, ma nel fatto negata, del genere umano. Siatelo dove potete e come potete. Né Dio né gli uomini possono esigere più da voi. Ma io vi dico che facendovi tali – facendovi tali, dov’altro non possiate, in voi stessi – voi gioverete all’umanità. Dio misura i gradi di educazione ch’ei fa salire al genere umano sul numero e sulla purità dei credenti. Quando sarete puri e numerosi, Dio che vi conta, v’aprirà il varco all’azione.

Doveri verso la Patria

I primi vostri Doveri, primi almeno per importanza, sono, com’io vi dissi, verso l’Umanità. Siete uomini prima d’essere cittadini o padri. Se non abbracciaste del vostro amore tutta quanta l’umana famiglia – se non confessaste la fede nella sua umanità, conseguenza dell’unità di Dio, e nell’affratellamento dei Popoli che devono ridurla a fatto – se ovunque geme un vostro simile, ovunque la dignità della natura umana è violata dalla menzogna o dalla tirannide, voi non foste pronti, potendo, a soccorrere quel meschino o non vi sentiste chiamati, potendo, a combattere per risollevare gli ingannati o gli oppressi – voi tradireste la vostra legge di vita e non intendereste la religione che benedirà l’avvenire.

Ma che cosa può ciascuno di voi, colle sue forze isolate, fare pel miglioramento morale, pel progresso dell’Umanità? Vi potete esprimere, di tempo in tempo, sterilmente la vostra credenza; potete compiere, qualche rara volta, verso un fratello non appartenente alle vostre terre, un’opera di carità; ma non altro. Ora la carità non è la parola della fede avvenire. La parola della fede avvenire è l’associazione, la cooperazione fraterna verso un intento comune, tanto superiore alla carità, quanto l’opera di molti fra voi che s’uniscono a inalzare concordi un edifizio per abitarvi insieme è superiore a quella che compireste innalzando ciascuno una casupola separata e limitandovi a ricambiarvi gli uni cogli altri aiuto di pietre, di mattoni, di calce. Ma quest’opera comune voi, divisi di lingua, di tendenze, d’abitudini, di facoltà, non potete tentarla. L’individuo è troppo debole e l’Umanità troppo vasta. Mio Dio, – prega, salpando il marinaio della Bretagna – proteggetemi: il mio battello è sì piccolo e il nostro Occano così grande! E quella preghiera riassume la condizione di ciascun di voi, se non si trova un mezzo di moltiplicare indefinitivamente le vostre forze, la vostra potenza d’azione: Questo mezzo Dio lo trovava per voi, quando vi dava una Patria, quando, come un saggio direttore di lavori distribuisce le parti diverse a seconda delle capacità, ripartiva in gruppi, in nuclei distinti l’Umanità sulla faccia del nostro globo e cacciava il germe delle nazioni. I tristi governi hanno guastato il disegno di Dio che voi potete vedere segnato chiaramente, per quello almeno che riguarda la nostra Europa, dai corsi dei grandi fiumi, dalle curve degli alti monti e dalle altre condizioni geografiche: l’hanno guastato colla conquista, coll’avidità, colla gelosia dell’altrui giusta potenza; guastato di tanto che oggi, dall’Inghilterra e dalla Francia in fuori, non v’è forse Nazione i cui confini corrispondano a quel disegno. Essi non conoscevano e non conoscono Patria, fuorché la loro famiglia, la dinastia, l’egoismo di casta. Ma il disegno divino si compirà senza fallo. Le divisioni naturali, le innate spontanee tendenze dei popoli, si sostituiranno alle divisioni arbitrarie sancite dai tristi governi. La Carta d’Europa sarà rifatta. La Patria del Popolo risorgerà delimita dal voto dei liberi, sulle rovine della Patria dei re, delle caste privilegiate. Tra quelle patrie sarà armonia, affratellamento. E allora, il lavoro dell’umanità verso il miglioramento comune, verso la scoperta e l’applicazione della propria legge di vita, ripartito a seconda delle capacità locali e associato, potrà compirsi per via di sviluppo progressivo, pacifico: allora, ciascuno di voi, forte degli effetti e dei mezzi di molti milioni d’uomini parlanti la stessa lingua, dotati di tendenze uniformi, educati dalla stessa tradizione storica, potrà sperare di giovare coll’opera propria a tutta quanta l’Umanità.

A voi, uomini nati in Italia, Dio assegnava, quasi prediligendovi, la Patria meglio definita dell’Europa. In altre terre, segnate con limiti più incerti o interrotti, possono insorgere questioni che il voto pacifico di tutti scioglierà un giorno, ma che hanno costato e costeranno forse ancora lagrime e sangue: sulla vostra, no. Dio v’ha steso intorno linee di confini sublimi, innegabili: da un lato, i più alti monti d’Europa: l’Alpi; dall’altro: il Mare, l’immenso Mare. Aprite un compasso: collocate una punta al nord dell’Italia, su Parma; appuntate l’altra agli sbocchi del Varo e segnate con essa, nella direzione delle Alpi, un semicerchio: quella punta che andrà, compito il semicerchio, a cadere sugli sbocchi dell’Isonzo, avrà segnato la frontiera che

Dio vi dava. Sino a quella frontiera si parla, s’intende la vostra lingua: oltre quella, non avete diritti. Vostre sono innegabilmente la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, e le isole minori collocate fra quelle e la terra ferma d’Italia. La forza brutale può ancora per poco contendervi quei confini, ma il consenso segreto dei popoli li riconosce d’antico, e il giorno in cui, levati unanimi all’ultima prova, pianterete la vostra bandiera tricolore su quella frontiera, l’Europa intera acclamerà, sorta e accettata nel consorzio delle Nazioni, l’Italia. A quest’ultima prova dovete tendere con tutti gli sforzi.

Senza Patria, voi non avete nome, né segno, né voto, né diritti, né battesimo di fratelli tra i popoli. Siete i bastardi dell’umanità. Soldati senza bandiera, israeliti delle Nazioni, voi non otterrete fede né protezione: non avrete mallevadori. Non v’illudete a compiere, se prima non vi conquistate una Patria, la vostra emancipazione da una ingiusta condizione sociale: dove non è Patria, non è Patto comune al quale possiate richiamarvi: regna solo l’egoismo degli interessi, e chi ha predominio lo serba, dacché non v’è tutela comune a propria tutela. Non vi seduca l’idea di migliorare, senza sciogliere prima la questione Nazionale, le vostre condizioni materiali: non potrete riuscirvi. Le vostre associazioni industriali, le consorterie di mutuo soccorso son buone com’opera educatrice, come fatto economico: rimarranno sterili finché non abbiate un’Italia. Il problema economico esige principalmente aumento di capitale e di produzione; e finché il vostro paese è smembrato in frazioni – finché, separati da linee doganali e difficoltà artificiali d’ogni sorta, non avete se non mercati ristretti dinanzi a voi – non potete sperar quell’aumento. Oggi – non v’illudete – voi non siete la classe operaia d’Italia: siete frazione di quella classe: impotenti, ineguali al grande intento che vi proponete. La vostra emancipazione non potrà iniziarsi praticamente, se non quando un Governo Nazionale, intendendo i segni dei tempi, avrà inserito, da Roma, nella dichiarazione di Principii, che sarà norma allo sviluppo della vita Italiana, le parole: Il lavoro è sacro ed è la sorgente della ricchezza d’Italia.

Non vi sviate dunque dietro a speranze di progresso materiale che, nelle vostre condizioni dell’oggi sono illusioni. La Patria sola, la vasta e ricca patria Italiana, che si stende dalle Alpi all’ultima terra di Sicilia, può compiere quelle speranze. Voi non potete ottenere ciò che è vostro diritto se non obbedendo a ciò che vi comanda il Dovere. Meritate ed avrete. Oh miei fratelli! amate la Patria. La Patria è la nostra casa: la casa che Dio ci ha data, ponendovi dentro una numerosa famiglia, che ci ama e che noi amiamo, colla quale possiamo intenderci meglio e più rapidamente che non con altri, e che per la concentrazione sopra un dato terreno e per la natura omogenea degli elementi che essa possiede, è chiamata a un genere speciale d’azione. La Patria è la nostra lavoreria; i prodotti della nostra attività devono stendersi da quella a beneficio di tutta la terra; ma gli istrumenti del lavoro che noi possiamo meglio e più efficacemente trattare, stanno in quella e noi non possiamo rinunziarvi senza tradire l’intenzione di Dio e senza diminuire le nostre forze. Lavorando, secondo i veri principii per la Patria, noi lavoriamo per l’Umanità: la patria è il punto d’appoggio della leva che noi dobbiamo dirigere a vantaggio comune. Perdendo quel punto d’appoggio, noi corriamo rischio di riuscire inutili alla Patria e all’Umanità. Prima d’associarsi colle Nazioni che compongono l’Umanità, bisogna esistere come Nazione. Non v’è associazione che tra gli eguali; e voi non avete esistenza collettiva riconosciuta.

L’Umanità è un grande esercito, che move alla conquista di terre incognite, contro nemici potenti e avveduti. I popoli sono diversi corpi, le divisioni di quell’esercito. Ciascuno ha un posto che gli si è confidato: ciascuno ha un’operazione particolare da eseguire; e la vittoria comune dipende dall’esattezza colla quale le diverse operazioni saranno compite. Non turbate l’ordine della battaglia. Non abbandonate la bandiera che Dio vi diede. Dovunque vi trovate, in seno a qualunque popolo le circostanze vi caccino, combattete per la libertà di quel popolo, se il momento lo esige; ma combattete come Italiani, così che il sangue che verserete frutti onore ed amore, non a voi solamente, ma alla vostra Patria. E Italiano sia il pensiero continuo dell’anime vostre: Italiani siano gli atti della vostra vita: Italiani i segni sotto i quali v’ordinate a lavorare per l’Umanità. Non dite: io, dite: noi. La Patria s’incarni in ciascuno di voi. Ciascuno di voi, si senta, si faccia mallevadore dei suoi fratelli: ciascuno di voi impari a far si che in lui sia rispettata ed amata la Patria.

La Patria, è una, indivisibile. Come i membri d’una famiglia non hanno gioia della mensa comune se un d’essi è lontano, rapito all’affetto fraterno, così voi non abbiate gioia e riposo finché una frazione del territorio sul quale si parla la vostra lingua è divelta dalla Nazione.

La Patria è il segno della missione che Dio v’ha dato da compiere nell’umanità. Le facoltà, le forze di tutti i suoi figli devono associarsi pel compimento di quella missione. Una certa somma di doveri e di diritti comuni spetta ad ogni uomo che risponde al chi sei? degli altri popoli: sono Italiano. Quei doveri e quei diritti non possono essere rappresentati che da un solo Potere uscito dal vostro voto. La patria deve aver dunque un solo Governo. I politici che si chiamano federalisti, e che vorrebbero far dell’Italia una fratellanza di Stati diversi, smembrano la Patria e non ne intendono l’Unità. Gli stati nei quali si divide in oggi l’Italia non sono creazione del nostro popolo: uscirono da calcoli d’ambizione di principi o di conquistatori stranieri, e non giovano che ad accarezzare la vanità delle aristocrazie locali, alle quali è necessaria una sfera più ristretta della grande Patria. Ciò che voi, popolo, creaste, abbelliste, consacraste coi vostri affetti, colle vostre gioie, coi vostri dolori, col vostro sangue, è la Città, il Comune, non la Provincia o lo Stato. Nella Città, nel comune dove dormono i vostri padri e vivranno i nati da voi, s’esercitano le vostre facoltà, i vostri diritti personali, si svolge la vostra vita d’individuo. È della vostra Città che ciascuno di voi può dire ciò che cantano i Veneziani della loro: Venezia la xe nostra: – l’avemo fatta nu. In essa avete bisogno di libertà, di Comune e Unità di patria, sia dunque la vostra fede. Non dite Roma e Toscana, Roma e Lombardia, Roma e Sicilia, dite Roma e Firenze, Roma e Siena, Roma e Livorno, e così per tutti i comuni d’Italia: Roma per tutto ciò che rappresenta la vita italiana, la vita della Nazione; il vostro comune per quanto rappresenta la vita individuale. Tutte le altre divisioni sono artificiali, e non s’appoggiano sulla vostra tradizione Nazionale.

La Patria è una comunione di liberi e d’uguali affratellati in concordia di lavori verso un unico fine. Voi dovete farla e mantenerla tale. La Patria non è un aggregato, è una associazione. Non v’è dunque veramente Patria senza un Diritto uniforme. Non v’è Patria dove l’uniformità di quel Diritto è violata dall’esistenza di caste, di privilegi, d’ineguaglianze – dove l’attività d’una porzione delle forze e facoltà individuale è cancellata o assopita – dove non è principio comune accettato, riconosciuto, sviluppato da tutti; vi è non Nazione, non popolo, ma moltitudine, agglomerazione fortuita d’uomini che le circostanze riunirono, che circostanze diverse separeranno. In nome del vostro amore alla Patria, voi combatterete senza tregua l’esistenza d’ogni privilegio, d’ogni ineguaglianza sul suolo che v’ha dato vita. Un solo privilegio è legittimo: il privilegio del genio, quando il Genio si mostri affratellato colla Virtù; ma è privilegio concesso da Dio e non dagli uomini – e quando voi lo riconoscerete seguendone le ispirazioni, lo riconoscerete liberamente esercitando la vostra ragione, la vostra scelta. Qualunque privilegio pretende sommessione da voi in virtù della forza, dell’eredità, d’un diritto che non sia diritto comune, è usurpazione, è tirannide; e voi dovete combatterla e spegnerla. La Patria deve essere il vostro Tempio. Dio al vertice, un Popolo d’eguali alla base; non abbiate altra formola, altra legge morale, se non volete disonorare la Patria e voi. Le leggi secondarie che devono via via regolare la vostra vita siano l’applicazione progressiva di quella Legge suprema.

E perché lo siano, è necessario che tutti contribuiscano a farle. Le leggi fatte da una sola frazione di cittadini non possono, per natura di cose e d’uomini, riflettere che il pensiero, le aspirazioni, i desideri, di quella frazione: rappresentano, non la Patria, ma un terzo, un quarto, una classe, una zona della patria. La legge deve esprimere l’aspirazione generale, promuovere l’utile di tutti, rispondere a un battito del core della Nazione. La Nazione intera dev’essere, dunque, direttamente o indirettamente, legislatrice. Cedendo a pochi uomini quella missione, voi sostituite l’egoismo d’una classe alla Patria, che è l’unione di tutte classi.

La Patria non è un territorio; il territorio non ne è la base. La Patria è l’idea che sorge su quello; è il pensiero d’amore, il senso di comunione che stringe in uno tutti i figli di quel territorio. Finché un solo tra i vostri fratelli non è rappresentato dal proprio voto nello sviluppo della vita nazionale – finché un solo vegeta ineducato fra gli educati – finché uno solo, capace e voglioso di lavoro, langue per mancanza di lavoro nella miseria – voi non avrete la Patria come dovreste averla, la Patria di tutti, la patria per tutti. Il voto, l’educazione, il lavoro, sono le tre colonne fondamentali della Nazione; non abbiate posa finché non siano per opera vostra solidamente innalzate.

E quando lo saranno – quando avrete assicurato a voi tutti il pane del corpo e quello dell’anima – quando liberi, uniti, intrecciate le destre come fratelli intorno a una madre amata, moverete in bella e santa armonia allo sviluppo delle vostre facoltà e della missione Italiana – ricordatevi che quella missione è l’unità morale d’Europa: ricordatevi gl’immensi doveri ch’essa v’impone. L’Italia è la sola terra che abbia due volte gettato la grande parola unificatrice alle nazioni disgiunte. La vita d’Italia fu vita di tutti. Due volte Roma fu la Metropoli, il Tempio del mondo Europeo: la prima, quando le nostre aquile percorsero conquistatrici da un punto all’altro le terre cognite e le prepararono all’Unità colle istituzioni civili; la seconda, quando, domati dalla potenza della natura, dalle grandi memorie e dall’ispirazione religiosa, i conquistatori settentrionali, il genio d’Italia s’incarnò nel Papato e adempì da Roma la solenne missione, cessata da quattro secoli, di diffondere la parola Unità nell’anima ai popoli del mondo Cristiano. Albeggia oggi per la nostra Italia una terza missione: di tanto più vasta quanto più grande e potente dei Cesari e dei Papi sarà il POPOLO ITALIANO, la Patria Una e Libera che voi dovete fondare. Il presentimento di questa missione agita l’Europa e tiene incatenati all’Italia l’occhio ed il pensiero delle Nazioni.

I vostri doveri verso la Patria stanno in ragione dell’altezza di questa missione. Voi dovete mantenerla pura d’egoismo, incontaminata di menzogna e delle arti di quel gesuitismo politico, che chiamano diplomazia.

La politica della patria sarà fondata per opera vostra sull’adorazione a’ principii non sull’idolatria dell’Interesse o dell’opportunità. L’Europa ha paesi pei quali la Libertà è sacra al di dentro, violata sistematicamente al di fuori: popoli che dicono: altro è il Vero, altro l’Utile, altra cosa è la teorica, altra è la pratica. Quei paesi espieranno lungamente, inevitabilmente la loro colpa nell’isolamento, nell’oppressione e nell’anarchia. Ma voi sapete la missione della nostra Patria e seguirete altra via. Per voi l’Italia avrà, sì come un solo Dio nei cieli, una sola verità, una sola fede, una sola norma di vita politica sulla terra. Sull’edifizio che il popolo d’Italia innalzerà più sublime del Campidoglio e del Vaticano, voi pianterete la bandiera della Libertà e dell’Associazione, sì che rifulga sugli occhi a tutte le Nazioni, né la velerete mai per terrore di despoti o libidine d’interessi d’un giorno. Avrete audacia sì come fede. Confesserete altamente il pensiero che fermenta in core alla Italia davanti al mondo e a quei che si dicono padroni del mondo. Non rinnegherete mai le Nazioni sorelle. La vita della Patria si svolgerà per voi bella e forte, libera di paure servili e di scettiche esitazioni, serbando per base il popolo, per norma le conseguenze dei suoi principii logicamente dedotte e energicamente applicate, per forza la forza di tutti, per risultato il miglioramento di tutti, per fine il compimento della missione che Dio le dava. E perché voi sarete pronti a morire per l’Umanità, la vita della Patria sarà immortale.

Doveri verso la famiglia

La famiglia è la Patria del core. V’è un Angiolo nella Famiglia che rende, con una misteriosa influenza di grazie, di dolcezza e d’amore, il compimento dei doveri meno arido, i dolori meno amari. Le sole gioie pure e non miste di tristezza che sia dato all’uomo di goder sulla terra, sono, merce quell’Angiolo, le gioie della Famiglia. Chi non ha potuto, per fatalità di circostanze, vivere, sotto l’ali dell’Angiolo, la vita serena della famiglia, ha un’ombra di mestizia stesa sull’anima, un vuoto che nulla riempie nel core! ed io che scrivo per voi queste pagine, lo so. Benedite Iddio che creava quell’Angiolo, o voi che avete le gioie e le consolazioni della Famiglia. Non la tenete in poco conto, perché vi sembri di poter trovare altrove gioie più ferventi o consolazioni più rapide ai vostri dolori. La famiglia ha in sé un elemento di bene raro a trovarsi altrove, la durata. Gli affetti, in essa, vi si stendono intorno lenti, inavvertiti, ma tenaci e durevoli siccome l’ellera intorno alla pianta: vi seguono d’ora in ora: s’immedesimano taciti colla vostra vita. Voi spesso non li discernete, poiché fanno parte di voi; ma quando li perdete, sentite come un non so che d’intimo, di necessario a vivere vi mancasse. Voi errate irrequieti e a disagio! potete ancora procacciarvi brevi gioie o conforti; non il conforto supremo, la calma, la calma dell’onda del lago, la calma del sonno della fiducia, del sonno che il bambino dorme sul seno materno.

L’Angiolo della Famiglia è la Donna. Madre, sposa, sorella, la donna è la carezza della vita, la soavità dell’affetto diffusa sulle sue fatiche, un riflesso sullo individuo della Provvidenza amorevole che veglia sull’umanità: sono in essa tesori di dolcezza consolatrice che bastano ad ammorzare qualunque dolore. Ed essa è inoltre per ciascun di noi l’iniziatrice dell’avvenire. Il primo bacio materno insegna al bambino l’amore. Il primo santo bacio d’amica insegna all’uomo la speranza, la fede nella vita; e l’amore e la fede creano il desiderio del meglio, la potenza di raggiungerlo a grado a grado, l’avvenire insomma, il cui simbolo vivente è il bambino, legame tra noi e le generazioni future. Per essa, la Famiglia, col suo mistero divino di riproduzione, accenna all’eternità.

Abbiate dunque, o miei fratelli, sì come santa la Famiglia. Abbiatela come condizione inseparabile della vita, e respingete ogni assalto che potesse venirle mosso da uomini imbevuti di false e brutali filosofie o da incauti che irritati in vederla sovente nido d’egoismo e di spirito di casta, credono, come il barbaro, che il rimedio al male sia nel sopprimerla.

La Famiglia è concetto di Dio, non vostro. Potenza umana non può sopprimerla. Come la Patria, più assai che la Patria, la Famiglia è un elemento della vita.

Ho detto più assai che la Patria. La Patria sacra in oggi, sparirà forse un giorno quando ogni uomo rifletterà nella propria coscienza la legge morale dell’umanità; la Famiglia durerà quanto l’uomo. Essa è la culla dell’umanità. Come ogni elemento della vita umana, essa deve essere aperta al Progresso, migliorare d’epoca in epoca le sue tendenze, le sue aspirazioni; ma nessuno potrà cancellarla.

Far la famiglia più sempre santa e inanellata più sempre alla Patria, è questa la vostra missione. Ciò che la Patria è per l’umanità, la Famiglia deve esserlo per la Patria. Come io v’ho detto che la parte della Patria è quella d’educare gli uomini, così la parte della Famiglia è quella di educare i cittadini: Famiglia e Patria sono i due punti estremi d’una sola linea. E dove non è così, la Famiglia diventa Egoismo, tanto più schifoso e brutale quanto più prostituisce, sviandola dal vero scopo, la cosa più santa: gli affetti. Oggi, l’egoismo regna spesso pur troppo e forzatamente nella Famiglia. Le tristi istituzioni sociali lo generano. In una società fondata su spie, birri, prigioni e patiboli, la povera madre, tremante ad ogni nobile aspirazione del figlio, è sospinta ad insegnargli la diffidenza, a dirgli: bada! l’uomo che ti parla di Patria di Libertà d’Avvenire, e che tu vorresti stringerti al petto non è forse che un traditore! In una società nella quale il merito è pericoloso, e la ricchezza è la sola base della potenza, della sicurezza, della difesa contro la persecuzione e il sopruso, il padre è trascinato dall’affetto a dire al giovane anelante la Verità: bada! la ricchezza è la tua tutela: la Verità sola non può esserti scudo contro l’altrui forza, contro l’altrui corruttela. Ma io vi parlo d’un tempo in cui, col vostro sudore e col vostro sangue, avrete fondato ai figli una Patria di liberi, costituita sul merito, sul bene che ciascuno di voi avrà fatto ai suoi fratelli. Fino a quel tempo, voi pur troppo non avete innanzi che una sola via di miglioramento, un solo supremo dovere da compiere: ordinarvi, prepararvi, scegliere l’ora opportuna e combattere a conquistarvi coll’insurrezione la vostra Italia. Allora soltanto potrete soddisfare senza gravi e continui ostacoli agli altri vostri doveri. E allora, mentr’io sarò probabilmente sotterra, rileggete queste mie pagine: i pochi consigli fraterni ch’esse contengono vengono da un core che v’ama e sono scritti colla coscienza del vero.

Amate, rispettate la donna. Non cercate in essa solamente un conforto, ma una forza, una ispirazione, un raddoppiamento delle vostre facoltà intellettuali e morali. Cancellate dalla vostra mente ogni idea di superiorità: non ne avete alcuna. Un lungo pregiudizio ha creato, con una educazione disuguale e una perenne oppressione di leggi, quell’apparente inferiorità intellettuale, dalla quale oggi argomentano per mantenere l’oppressione. Ma la storia delle oppressioni non v’insegna che chi opprime si appoggia sempre sopra un fatto creato da lui? Le caste feudali contesero a voi, figli del popolo, fin quasi ai nostri giorni, l’educazione; poi, dalla mancanza d’educazione, argomentarono e argomentano anche oggi per escludervi dal santuario della città, dal recinto dove si fanno le leggi, dal diritto di voto che inizia la vostra missione sociale. I padroni dei Neri in America dichiarano radicalmente inferiore e incapace d’educazione la razza e perseguitano intanto qualunque s’adoperi a educarla. Da mezzo secolo i fautori delle famiglie affermano noi italiani mal atti alla libertà, e intanto con le leggi e con la forza brutale d’eserciti assoldati mantengono chiusa ogni via, perché possa da noi vincersi, se pure esistesse l’ostacolo, come se la tirannide potesse mai essere educazione alla libertà. Or noi tutti fummo e siamo tuttavia rei d’una colpa simile verso la donna. Allontanate da voi fin l’ombra di quella colpa; però che non è colpa più grave davanti a Dio, di quella che divide in due classi l’umana famiglia e impone o accetta che l’una soggiaccia all’altra. Davanti a Dio Uno e Padre non v’è uomo né donna ma l’essere umano, l’essere nel quale, sotto l’aspetto d’uomo o di donna, s’incontrano tutti i caratteri che distinguono l’Umanità dall’ordine degli animali: tendenza sociale, capacità d’educazione, facoltà di progresso. Dovunque si rivelano questi caratteri, ivi esiste l’umana natura, uguaglianza quindi di diritti e doveri. Come due rami che muovono distinti da uno stesso tronco, l’uomo e la donna muovono varii da una base comune, che è l’umanità. Non esiste disuguaglianza fra l’uno e l’altra; ma come spesso accade fra due uomini, diversità di tendenze, di vocazioni speciali. Son due note d’un accordo musicale, disuguali o di natura diversa! La donna e l’uomo sono due note senza le quali l’accordo umano non è possibile; hanno doveri e diritti generali diversi due popoli chiamati dalle loro tendenze speciali o dalle condizioni in cui vivono, l’uno a diffondere il pensiero dell’associazione umana per via di colonie, l’altro a predicarlo colla produzione di capolavori d’arte o di letteratura universalmente ammirati! Ambi quei Popoli sono apostoli, consapevoli o no, dello stesso concetto divino, eguali e fratelli in esso. L’uomo e la donna hanno, come quei due Popoli, funzioni distinte nell’Umanità; ma quelle funzioni sono sacre egualmente, necessarie allo sviluppo comune; ambe rappresentanze del Pensiero che Dio poneva, come anima, nell’universo. Abbiate dunque la Donna siccome compagna e partecipe, non solamente delle vostre gioie e dei vostri dolori, ma delle vostre aspirazioni, dei vostri pensieri, dei vostri studi e dei vostri tentativi di miglioramento sociale. Abbiatela eguale nella vostra vita civile e politica. Siate le due ali dell’anima umana verso l’ideale che dobbiamo raggiungere. La Bibbia Mosaica ha detto: Dio creò l’uomo e dall’uomo la donna, ma la vostra Bibbia, la Bibbia dell’avvenire dirà: Dio creò l’Umanità, manifestata nella donna e nell’uomo.

Amate i figli che la Provvidenza vi manda; ma amateli di vero, profondo, severo amore; non dell’amore snervato, irragionevole, cieco, ch’è egoismo per voi, rovina per essi. In nome di ciò che v’è di più sacro, non dimenticate mai che voi avete in cura le generazioni future, che avete verso quell’anime che vi sono affidate, verso l’umanità, verso Dio, la più tremenda responsabilità che l’essere umano possa conoscere: voi dovete iniziarle, non alle gioie o alle cupidigie della vita, ma alla vita stessa, ai suoi doveri, alla Legge morale che la governa. Poche madri, pochi padri, in questo secolo irreligioso, intendono, segnatamente nelle classi agiate, la gravità, la santità della missione educatrice: poche madri, pochi padri pensano che le molte vittime, le lotte incessanti e il lungo martirio dei nostri tempi son frutto in gran parte dell’egoismo innestato trenta anni addietro nell’animo da madri deboli o da padri incauti, i quali lasciarono che i loro figli s’avvezzassero a considerare la vita non come dovere e missione, ma come ricerca di piacere e studio del proprio benessere. Per voi, uomini del lavoro, i pericoli sono minori; i più fra i nati da voi imparano pur troppo la vita dalle privazioni. E minori sono d’altra parte in voi, costretti dalla povera condizione sociale a continue fatiche, le possibilità d’educare come importerebbe. Pur nondimeno potete anche voi compiere in parte l’ardua missione. Lo potete coll’esempio e colla parola.

Lo potete com’esempio.

“I vostri figli sono simili a voi, corrotti o virtuosi, secondo che sarete voi stessi virtuosi o corrotti.

Come mai sarebbero essi onesti, pietosi, umani, se voi mancate di probità, se siete senza viscere pei vostri fratelli? come reprimerebbero i loro grossolani appetiti, se vi vedono abbandonati all’intemperanza? come serberebbero intatta l’innocenza nativa, se voi non temete d’oltraggiare davanti ad essi il pudore con atti indecenti o con oscene parole?

Voi siete il vivente modello sul quale si formerà la pieghevole loro natura. Dipende da voi che i vostri figli riescano uomini o bruti.”

E potete educare colla parola. Parlate loro di Patria, di ciò ch’essa fu, di ciò che deve essere. Quando, la sera, dimenticate, fra il sorriso della madre e l’ingenuo favellio dei fanciulli seduti sulle vostre ginocchia, le fatiche della giornata, ridite ad essi i grandi fatti dei popolani delle antiche nostre repubbliche; insegnate loro i nomi dei buoni che amarono l’Italia e il suo popolo e per una via di sciagura, di calunnie e di persecuzioni, tentarono migliorarne i destini. Instillate nei loro giovani cuori, non l’odio contro gli oppressori, ma l’energia di proposito contro l’oppressione. Imparino dal vostro labbro e dal tranquillo assenso materno, come sia bello il seguire le vie della Virtù, come sia grande il piantarsi Apostoli della verità, come sia santo il sacrificarsi, occorrendo, pei propri fratelli. Infondete nelle tenere menti, insieme ai germi della ribellione contro ogni autorità usurpata e sostenuta dalla forza, la riverenza alla vera, all’unica Autorità, l’autorità della Virtù coronata dal Genio. Fate che crescano, avversi egualmente alla tirannide ed all’anarchia, nella religione della coscienza inspirata, non incatenata dalla tradizione. La Nazione deve aiutarvi in quest’opera. E voi avete, in nome dei vostri figli, diritto di esigerlo. Senza educazione Nazionale non esiste veramente Nazione.

Amate i parenti. La Famiglia che procede da voi non vi faccia mai dimenticare la famiglia dalla quale procedete. Pur troppo sovente i nuovi vincoli allentano gli antichi, mentre non dovrebbero essere se non un nuovo anello nella catena d’amore che deve annodare in uno tre generazioni della Famiglia. Circondate d’affetti teneri e rispettosi sino all’ultimo giorno le teste canute della madre, del padre. Infiorate ad essi la via della tomba. Diffondete colla continuità dell’amore sulle loro anime stanche un profumo di fede e d’immortalità. E l’affetto che serbate inviolato ai parenti vi sia pegno di quello che vi serberanno i nati da voi.

Parenti, sorelle e fratelli, sposa, figli, siano per voi come rami collocati in ordine diverso sulla stessa pianta. Santificate la Famiglia nell’unità dell’amore. Fatene come un Tempio dal quale possiate congiunti sacrificare alla Patria. Io non so se sarete felici; ma che così facendo, anche di mezzo alle possibili avversità, sorgerà per voi un senso di pace serena, un riposo di tranquilla coscienza, che vi darà forza contro ogni prova, e vi terrà schiuso un raggio azzurro di cielo in ogni tempesta.

Doveri verso se stesso

Io v’ho detto: voi avete vita; dunque avete una legge di vita… Svilupparsi, agire, vivere secondo la legge di vita, è il primo, anzi l’unico vostro Dovere. Vi ho detto che per conoscere quale sia la legge della vostra vita, Dio v’ha dato due mezzi: la vostra coscienza e la coscienza dell’Umanità, il consenso dei vostri fratelli. V’ho detto che ogni qualvolta, interrogando la vostra coscienza, troverete la sua voce in armonia colla grande voce del genere umano trasmessavi dalla storia, voi siete certi d’avere la verità eterna, immutabile in pug

Voi potete oggi difficilmente interrogare a dovere la grande voce che l’umanità vi tramanda attraverso la Storia: vi mancano finora libri buoni davvero e popolarmente scritti, e vi manca il tempo; ma gli uomini che per ingegno e coscienza meglio rappresentano, da oltre un mezzo secolo, gli studi storici e la scienza dell’Umanità, hanno raccolto da quella voce alcuni caratteri della nostra Legge di Vita; hanno raccolto che la natura umana è essenzialmente adunabile, essenzialmente sociale: hanno raccolto che, come non vi è né può esservi che un solo Dio, non v’è né può esservi che una sola Legge per l’uomo individuo e per l’umanità collettiva, hanno raccolto che il carattere fondamentale, universale di questa Legge, è PROGRESSO. Da queste verità oggimai innegabili, perché confermate da tutti i rami dell’umano sapere, scendono tutti i vostri doveri verso voi stessi, e scendono pure tutti i vostri diritti, i quali sommano in uno: il diritto di non essere menomamente inceppati e d’essere, dentro certi limiti, aiutati nel compimento dei vostri doveri. Voi siete e vi sentite liberi. Tutti i sofismi d’una misera filosofia, che vorrebbe sostituire una dottrina di non so quale fatalismo al grido della coscienza umana, non valgono a cancellare due testimonianze invincibili a favore della libertà: il rimorso e il martirio. Da Socrate a Gesù, da Gesù fino agli uomini che muoiono ogni tanto per la Patria, i Martiri di una Fede protestano contro quella servile dottrina, gridandovi: “noi amavamo la vita; amavamo esseri che ce la facevano cara e che ci supplicavano di cedere: tutti gl’impulsi del nostro cuore dicevano vivi! a ciascuno di noi, ma per la salute delle generazioni avvenire, scegliemmo morire”. Da Caino alla spia volgare dei nostri giorni, i traditori dei loro fratelli, gli uomini che si son messi sulla via del male, sentono nel fondo dell’anima una condanna, una irrequietezza, un rimprovero che dice a ciascun d’essi: perché t’allontanasti dalle vie del bene? Voi siete liberi e quindi responsabili. Da questa libertà morale scende il vostro diritto alla libertà politica, il vostro dovere di conquistarvela e mantenerla inviolata, il dovere altrui di non menomarla.

Voi siete educabili. Esiste in ciascun di voi una somma di facoltà, di capacità intellettuali, di tendenze morali, alle quali l’educazione sola può dar moto e vita, e che, senza quella, giacerebbero sterili, inerti, non rivelandosi che a lampi, senza regolare sviluppo.

L’educazione è il pane dell’anima. Come la vita fisica, organica, non può crescere e svolgersi senza alimenti, così la vita morale, intellettuale, ha bisogno per ampliarsi e manifestarsi, delle influenze esterne e d’assimilarsi parte almeno delle idee, degli effetti, delle altrui tendenze. La vita dell’industria s’innalza, come la pianta, varietà dotata d’esistenza propria e di caratteri speciali, sul terreno comune, si nutre degli elementi della vita comune. L’individuo è un rampollo dell’UMANITÀ e alimenta e rinnova le proprie forze nelle sue. Quest’opera alimentatrice, rinnovatrice, si compie coll’Educazione che trasmette direttamente o indirettamente all’individuo i risultati dei progressi di tutto quanto il genere umano. È dunque non solamente come necessità della vostra vita, ma come una santa comunione con tutti i vostri fratelli, con tutte le generazioni che vissero: cioè pensarono ed operarono prima della vostra, che voi dovete conquistarvi, nei limiti del possibile, educazione: educazione morale ed intellettuale, che abbracci e fecondi tutte le facoltà che Dio vi dava siccome deposito da far fruttare, e che istituisca e mantenga un legame tra la vostra vita individuale e quella dell’Umanità collettiva.

E perché quest’opera educatrice si compisse più rapidamente, perché la vostra vita individuale s’inanellasse più certamente e più intimamente colla vita collettiva di tutti, colla vita dell’Umanità, Dio v’ha fatto esseri essenzialmente sociali. Ogni essere al disotto di voi può vivere da per sé, senz’altra comunione che colla natura, cogli elementi del mondo fisico: voi nol potete. Avete a ogni passo necessità dei vostri fratelli e non potete soddisfare ai più semplici bisogni della vita senza giovarvi dell’opera loro. Superiori ad ogni altro essere mercé l’associazione coi vostri simili, siete, se isolati, inferiori di forza a molti animali, e deboli e incapaci di sviluppo e di piena vita. Tutte le più nobili aspirazioni del vostro core come l’amor della Patria, e anche le meno virtuose come il desiderio di gloria e dell’altrui lode, accennano alla tendenza ingenita in voi ad accomunare la vostra vita colla vita dei milioni che vivono intorno a voi. Voi siete dunque chiamati all’associazione. Essa centuplica le vostre forze: fa vostre le idee altrui, vostro l’altrui progresso; e innalza, migliora e santifica la vostra natura cogli affetti e col sentimento crescente dell’unità dell’umana famiglia. Quanto più sarà vasta la vostra associazione coi vostri fratelli, quanto più intima e complessiva, tanto più innanzi sarete sulla via del vostro miglioramento. La Legge della vita non può compirsi tutta se non dal lavoro riunito di tutti. E ad ogni grande progresso, ad ogni scoperta di un frammento di quella Legge, corrisponde nella Storia un allargamento dell’associazione umana, un contatto più vasto fra popolo e popoli. Quando i primi Cristiani vennero a proclamare l’unità della natura umana di fronte alla filosofia pagana che ammetteva due nature, di padroni e di schiavi, il popolo Romano aveva portato le sue aquile a passeggiare fra tutti i popoli noti d’Europa. Prima che il Papato – dannoso in oggi, utile nei primi secoli dell’istituzione – venisse a dire: il potere spirituale è superiore al temporale, gli invasori chiamati Barbari avevano messo in contatto violento il mondo Germanico col mondo Latino. Prima che l’idea di Libertà applicata ai popoli promovesse il concetto di nazionalità che agita in oggi l’Europa e trionferà, le guerre della Rivoluzione e dell’Impero avevano suscitato e chiamato in azione un elemento fino allora appartato, l’elemento Slavo.

Voi siete, finalmente, esseri progressivi.

Questa parola PROGRESSO, ignota all’antichità, sarà d’ora innanzi una parola sacra per l’Umanità. Essa racchiude tutta una trasformazione sociale, politica, religiosa.

L’antichità, gli uomini delle vecchie religioni Orientali e del Paganesimo, credevano nel Fato, nel Caso, in una Potenza arcana, inintelligibile, padrona arbitraria delle cose umane, creatrice e distruggitrice alternativamente senza che l’uomo potesse intenderne, promoverne, o accelerarne i bisogni. Credevano l’uomo impotente a fondare cosa alcuna durevole, permanente, sulla nostra terra. Credevano che i popoli, condannati ad aggirarsi nel cerchio descritto dagl’individui quaggiù, sorgessero, salissero a potenza, poi volgessero a vecchiaia, e fatalmente, irrevocabilmente, perissero. Con un orizzonte d’idee e di fatti assai ristretto davanti e senza conoscenza di Storia fuorché della loro nazione e spesso della loro città, guardavano al genere umano unicamente come un aggregato di uomini, senza vita e legge propria, e non derivavano i loro pensieri fuorché dalla contemplazione dell’individuo. La conseguenza di siffatte dottrine era una tendenza ad accettare i fatti predominanti senza curare o sperar di mutarli. Dove le circostanze avevano impiantato una forma repubblicana, gli uomini di quei tempi erano repubblicani; dove signoreggiava il dispotismo, erano schiavi noncuranti di progresso e sommessi. Ma poi che dappertutto, sotto la forma repubblicana come sotto la tirannide, trovavano divisa la famiglia umana o in quattro caste, come in Oriente, o in due, di cittadini liberi e di schiavi, come nella Grecia, accettavano la divisione delle caste o la credenza in due nature diverse d’uomini; e l’accettarono i più potenti intelletti del mondo Greco, Platone e Aristotele. L’emancipazione della vostra classe era, tra siffatti uomini, una impossibilità.

Gli uomini che fondarono, sulla parola di Gesù, una Religione superiore a tutte le credenze del vecchio Oriente e del Paganesimo, intravidero, non conquistarono, la santa idea contenuta in questa parola: Progresso. Intesero l’unità della razza umana, intesero l’unità della Legge, intesero il dovere di perfezionamento nell’uomo: non intesero la potenza data da Dio all’uomo per compirlo, né la via per la quale si compie. Si limitarono essi pure a desumere le norme della vita dalla contemplazione dell’individuo: l’Umanità come corpo collettivo, rimase loro ignota. Conobbero la Provvidenza e la sostituirono alla cieca Fatalità degli antichi; ma la conobbero come protettrice dell’individuo, non come Legge dell’Umanità. Collocati fra l’immensità dello scopo di perfezionamento che intravedevano e la breve povera vita dell’individuo, sentirono il bisogno d’un termine intermediario tra l’uno e l’altro, fra l’Uomo e Dio, e non possedendo l’idea dell’Umanità collettiva, ricorsero a una incarnazione divina: dichiararono che la Fede in essa era sorgente unica di salute, di forza, di grazia, all’uomo.

Non sospettando la rivelazione continua che scende da Dio sull’uomo attraverso l’Umanità, credettero in una rivelazione immediata, unica, scesa ad un tempo stesso determinato, e per favore speciale di Dio. Videro il legame che annoda gli uomini in Dio, non videro quello che li annoda qui sulla terra nell’umanità. Poco importava la serie delle generazioni a chi non sentiva come l’una agisse sull’altra; s’avvezzarono dunque a non contemplarle; s’adoprarono a staccar l’uomo dalla terra, dalle cose concernenti l’Umanità intera, e finirono per mettere in opposizione la terra, che abbandonarono ad ogni Potere di fatto e che chiamarono soggiorno d’espiazione, e il cielo a cui l’uomo poteva, per virtù di grazia e di fede, salire e dal quale esiliarono per sempre chi ne mancasse. La rivelazione essendo per essa immediata ed unica in un dato periodo, ne dedussero che nulla poteva aggiungervisi e che i depositari di quella rivelazione erano infallibili. Dimenticavano che il fondatore della loro religione era venuto, non ad annientare la Legge ma a continuarla, aggiungendovi. Dimenticavano che in un solenne momento e con sublime istinto dell’avvenire, Gesù aveva detto: Io vi dico le cose che voi potete in oggi intendere e praticare; ma verrà dopo me lo spirito di verità, e vi parlerà per autorità propria ma raccogliendo l’ispirazione da tutti, l’ispirazione collettiva(10). È in quelle parole la profezia dell’idea del Progresso e della rivelazione continua del Vero per mezzo dell’Umanità: v’è la giustificazione della formola che Roma ridesta propose all’Italia colle parole Dio e il popolo, scritte in fronte a’ suoi decreti repubblicani. Ma gli uomini delle credenze del medioevo non potevano intenderla. Non erano maturi i tempi.

Tutto l’edifizio delle credenze che successero al Paganesimo posa, a ogni modo, sulle basi or ora accennate. È chiaro che neppur su queste poteva fondarsi la vostra emancipazione qui sulla terra.

Mille trecento anni a un dipresso dopo le parole di Gesù or citate, un uomo Italiano, il più grande fra gl’Italiani che io mi conosca, scriveva le verità seguenti: “Dio è uno; l’Universo è un pensiero di Dio; l’Universo è dunque uno esso pure. Tutte le cose partecipano, più o meno, della natura divina, a seconda del fine pel quale sono create. L’uomo è nobilissimo fra tutte le cose: Dio ha versato in lui più della sua natura che non sull’altre. Ogni cosa che viene da Dio tende al perfezionamento del quale è capace. La capacità di perfezionamento nell’uomo è indefinita. L’Umanità è Una. Dio non ha fatto cosa inutile; e poiché esiste una Umanità, deve esistere uno scopo unico per tutti gli uomini, un lavoro da compiersi per opera d’essi tutti. Il genere umano dovrebbe dunque lavorare unito, sì che tutte le forze intellettuali diffuse in esso, ottengano il più alto sviluppo possibile nella sfera del pensiero e dell’azione. Esiste dunque una Religione universale della natura umana”.

Quell’uomo aggiungeva che questa religione universale, questa Unità del mondo doveva avere chi la rappresentasse: e accennava a Roma, la Città Santa, le di cui pietre, ei diceva, erano meritevoli di riverenza.

L’uomo che scriveva quelle idee aveva nome DANTE. Ogni città d’Italia quando l’Italia sarà libera ed una, dovrebbe innalzargli una statua, però che quelle idee contengono in germe la Religione dell’Avvenire. Egli le scriveva in libri latini e italiani che s’intitolavano: Della Monarchia e Convito, difficili a intendersi ed oggi negletti anche dagli uomini che si dicono letterati. Ma le idee, cacciate una volta che siano nel mondo dell’intelletto, non muoiono più. Altri le raccoglie, anche dimenticandone la sorgente. Gli uomini ammirano la quercia: chi pensa al germe dal quale esciva?

Il germe che Dante cacciava fruttò. Raccolto e fecondato di tempo in tempo da qualche potente intelletto, si svolse in pianta sul finire del secolo passato. L’idea del Progresso siccome Legge della Vita accettata, sviluppata, verificata sulla storia, confermata dalla scienza, diventò bandiera dell’avvenire. Oggi non v’è ingegno severo che non lo ponga a cardine dei suoi lavori.

Oggi sappiamo che la legge della Vita è PROGRESSO. Progresso per l’individuo, progresso per l’Umanità. L’Umanità compie quella Legge sulla terra; l’individuo sulla terra ed altrove. Un solo Dio; una sola Legge. Quella legge s’adempie lentamente, inevitabilmente, nell’Umanità fin dal primo suo nascere. La verità non s’è mai manifestata tutta o ad un tratto. Una rivelazione continua, manifestata d’epoca in epoca, un frammento della Verità, una parola della Legge. Ognuna di quelle parole modifica profondamente, sulla via del Meglio, la vita umana e costituisce una credenza, una Fede. Lo sviluppo dell’idea religiosa è dunque indefinitamente progressivo; e quasi colonne d’un Tempio, le credenze successive, svolgendo e purificando più sempre quell’idea, costituiranno un giorno il Panteon della nostra Terra. Gli uomini benedetti da Dio di Genio e di singolare Virtù ne sono gli Apostoli: il Popolo, il senso collettivo dell’umanità, ne è l’interprete; accetta quella rivelazione di Verità, la trasmette da una generazione all’altra, e la rende pratica, applicandola ai diversi rami, alle diverse manifestazioni della vita umana. L’Umanità è simile ad un uomo che vive indefinitamente e che impara sempre. Non v’è dunque, né può esservi casta privilegiata di depositari ed interpreti della Legge: non v’è, né può esservi necessità d’intermediario tra Dio e l’uomo, dall’Umanità infuori. Dio, prefiggendo un disegno provvidenziale d’Educazione progressiva all’Umanità, ponendo l’istinto del progresso nel core d’ogni uomo, ha messo pure nell’umana natura le facoltà e le forze necessarie a compierlo. L’uomo individuo, creatura libera e responsabile, può usarne e abusarne a seconda ch’ei si mantiene sulla via del Dovere, o cede alle cieche seduzioni dell’Egoismo; ei può indugiare o accelerare il proprio progresso; ma il disegno provvidenziale non può cancellarsi da forza umana. L’educazione dell’umanità deve compiersi; noi vediamo quindi escire dalle invasioni barbariche che sembravano spegnere la civiltà, un nuovo incivilimento superiore all’antico e diffuso su più ampia zona di terra: vediamo dalla tirannide, esercitata dagli individui, escire subito dopo un più rapido sviluppo di libertà.

La legge, il Progresso, devono compirsi, come altrove, qui sulla terra. Non v’è opposizione fra terra e cielo; ed è bestemmia il supporre che l’opera di Dio, la casa ch’egli ci ha dato, possa, senza peccato, sprezzarsi, abbandonarsi ai Poteri, quali essi siano, alle influenze del Male, dell’Egoismo e della Tirannide. La Terra non è soggiorno di espiazione; è soggiorno di lavoro a prò dell’ideale, del Vero e del Giusto che ciascun di noi ha in germe nell’anima; gradino verso un Miglioramento che noi non possiamo raggiungere se non glorificando, coll’opere, Iddio nell’Umanità, e consacrandoci a tradurre in fatto quanta più parte possiamo del suo disegno. Il giudizio che s’adempirà su ciascun di noi, e che ci farà inoltrare sulla scala del Perfezionamento o ci condannerà a trascinarci nuovamente nello stadio tristamente e sterilmente percorso, si fonderà sul bene che avremo fatto ai nostri fratelli, sul grado di progresso che avremo aiutato altri a salire. L’associazione più sempre intima, più e più sempre vasta, coi nostri simili è il mezzo per cui si moltiplicano le nostre forze, il campo sul quale si compiono i nostri Doveri, la via per ridurre in atto il Progresso. Noi dobbiamo tendere a far dell’intera Umanità una Famiglia, ogni membro della quale rappresenti in sé, a beneficio degli altri, la Legge morale. E come il perfezionamento dell’umanità si compie d’epoca in epoca, di generazione in generazione, il perfezionamento dell’individuo si compie d’esistenza in esistenza, più o meno rapidamente a seconda dell’opere nostre

Son queste alcune delle verità contenute in quella parola Progresso, dalla quale escirà la Religione dell’Avvenire. In essa solo può compiersi la vostra emancipazione.

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SPACCIO DE LA BESTIA TRIONFANTE

SPACCIO DE LA BESTIA TRIONFANTE

Giordano Bruno

EPISTOLA ESPLICATORIA SCRITTA AL MOLTO ILLUSTRE ED ECCELLENTE CAVALLIERO SIGNOR FILIPPO SIDNEO DAL NOLANO

Cieco chi non vede il sole, stolto chi nol conosce, ingrato chi nol ringrazia; se tanto è il lume, tanto il bene, tanto il beneficio; per cui risplende, per cui eccelle, per cui giova; maestro de sensi, padre di sustanze, autor di vita. Or non so qual mi sarei, eccellente Signore, se io non stimasse il vostro ingegno, non onorasse gli vostri costumi, non celebrasse gli vostri meriti; con gli quali vi siete scuoperto a me nel primo principio ch’io giunsi a l’isola Britannica, per quanto v’ha conceduto il tempo; vi manifestate a molti, per quanto l’occasione vi presenta; e remirate a tutti, per quanto vi mostra la vostra natural inclinazione veramente eroica. Lasciando, dunque, il pensier dei tutti ai tutti, ed il dover de’ molti a’ molti, non permetta il fato, che io, per quel tanto che spetta al mio particolare, come tal volta mi son mostrato sensitivo verso le moleste ed importune discortesie d’alcuni; cossì avanti gli occhi de l’eternità vegna a lasciar nota d’ingratitudine, voltando le spalli a la vostra bella, fortunata e cortesissima patria, prima ch’al meno con segno di riconoscenza non vi salutasse, gionto al generosissimo e gentilissimo spirito del signor Folco Grivello. Il quale, come con lacci di stretta e lunga amicizia, con cui siete allevati, nodriti e cresciuti insieme, vi sta congionto: cossì nelle molte e degne, esterne ed interne perfezioni v’assomiglia; ed al mio riguardo fu egli quel secondo, che, appresso gli vostri primi, gli secondi offici mi propose ed offerse: quali io arrei accettati, e lui certo arrebe effettuati, se tra noi non avesse sparso il suo arsenito de vili, maligni ed ignobili interessati l’invidiosa Erinni.

Sì che, serbando a lui qualch’altra materia, ecco a voi presento questo numero de dialogi, li quali certamente saranno cossì buoni o tristi, preggiati o indegni, eccellenti o vili, dotti o ignoranti, alti o bassi, profittevoli o disutili, fertili o sterili, gravi o dissoluti, religiosi o profani, come di quei, nelle mani de quali potran venire, altri son de l’una, altri de l’altra contraria maniera. E perché il numero de stolti e perversi è incomparabilmente più grande che de sapienti e giusti, aviene che, se voglio remirare alla gloria o altri frutti che parturisce la moltitudine de voci, tanto manca ch’io debba sperar lieto successo del mio studio e lavoro, che più tosto ho da aspettar materia de discontentezza, e da stimar molto meglior il silenzio ch’il parlare. Ma, se fo conto de l’occhio de l’eterna veritade, a cui le cose son tanto più preciose ed illustri, quanto talvolta non solo son da più pochi conosciute, cercate e possedute, ma, ed oltre, tenute a vile, biasimate, perseguitate; accade ch’io tanto più mi forze a fendere il corso de l’impetuoso torrente, quanto gli veggio maggior vigore aggionto dal turbido, profondo e clivoso varco.

Cossì dunque lasciaremo la moltitudine ridersi, scherzare, burlare e vagheggiarsi su la superficie de mimici, comici ed istrionici Sileni, sotto gli quali sta ricoperto, ascoso e sicuro il tesoro della bontade e veritade, come, per il contrario, si trovano più che molti, che sotto il severo ciglio, volto sommesso, prolissa barba e toga maestrale e grave, studiosamente a danno universale conchiudeno l’ignoranza non men vile che boriosa, e non manco perniciosa che celebrata ribaldaria.

Qua molti, che per sua bontà e dottrina non possono vendersi per dotti e buoni, facilmente potranno farse innanzi, mostrando quanto noi siamo ignoranti e viziosi. Ma sa Dio, conosce la verità infallibile che, come tal sorte d’uomini son stolti, perversi e scelerati, cossì io in miei pensieri, paroli e gesti non so, non ho, non pretendo altro, che sincerità, simplicità, verità. Talmente sarà giudicato dove l’opre ed effetti eroici non saran creduti frutti de nessun valore e vani; dove non è giudicata somma sapienza il credere senza discrezione; dove si distingueno le imposture de gli uomini da gli consegli divini; dove non è giudicato atto di religione e pietà sopraumana il pervertere la legge naturale; dove la studiosa contemplazione non è pazzia; dove ne l’avara possessione non consiste l’onore, in atti di gola la splendidezza, nella moltitudine de servi, qualunque sieno, la riputazione, nel meglio vestire la dignità, nel più avere la grandezza, nelle maraviglie la verità, nella malizia la prudenza, nel tradimento l’accortezza, ne la decepzione la prudenza, nel fengere il saper vivere, nel furore la fortezza, ne la forza la legge, ne la tirannia la giustizia, ne la violenza il giudicio; e cossì si va discorrendo per tutto. Qua Giordano parla per volgare, nomina liberamente, dona il proprio nome a chi la natura dona il proprio essere; non dice vergognoso quel che fa degno la natura; non cuopre quel ch’ella mostra aperto; chiama il pane, pane; il vino, vino; il capo, capo; il piede, piede; ed altre parti, di proprio nome; dice il mangiare, mangiare; il dormire, dormire; il bere, bere; e cossì gli altri atti naturali significa con proprio titolo. Ha gli miracoli per miracoli, le prodezze e maraviglie per prodezze e maraviglie, la verità per verità, la dottrina per dottrina, la bontà e virtù per bontà e virtù, le imposture per imposture, gl’inganni per inganni, il coltello e fuoco per coltello e fuoco, le paroli e sogni per paroli e sogni, la pace per pace, l’amore per amore. Stima gli filosofi per filosofi, gli pedanti per pedanti, gli monachi per monachi, li ministri per ministri, li predicanti per predicanti, le sanguisughe per sanguisughe, gli disutili, montainbanco, ciarlatani, bagattellieri, barattoni, istrioni, papagalli per quel che si dicono, mostrano e sono; ha gli operarii, benefici, sapienti ed eroi per questo medesimo. Orsù, orsù! questo, come cittadino e domestico del mondo, figlio del padre Sole e de la Terra madre, perché ama troppo il mondo, veggiamo come debba essere odiato, biasimato, perseguitato e spinto da quello. Ma in questo mentre non stia ocioso, né.mal occupato su l’aspettar de la sua morte, della sua transmigrazione, del suo cangiamento.

Oggi presente al Sidneo gli numerati ed ordinati semi della sua moral filosofia, non perché come cosa nuova le mire, le conosca, le intenda; ma perché le essamine, considere e giudichi; accettando tutto quel che si deve accettare, iscusando tutto quel che si deve iscusare, e defendendo tutto quel che si deve defendere contra le rughe e supercilio d’ipocriti, il dente e naso de scìoli, la lima e sibilo de pedanti; avertendo gli primi, che lo stimino certo di quella religione la quale comincia, cresce e si mantiene con suscitar morti, sanar infermi e donar del suo; e non può essere affetto, dove si rapisce quel d’altro, si stroppiano i sani ed uccidono gli vivi; consegliando a gli secondi, che si convertano a l’intelletto agente e sole intellettuale, pregandolo che porga lume a chi non n’ha; facendo intendere a gli terzi, che a noi non conviene l’essere, quali essi sono, schiavi de certe e determinate voci e paroli; ma, per grazia de dei, ne è lecito, e siamo in libertà di far quelle servire a noi, prendendole ed accomodandole a nostro commodo e piacere. Cossì non ne siano molesti gli primi con la perversa conscienza, gli secondi con il cieco vedere, gli terzi con la mal impiegata sollecitudine, se non vogliono esser arguiti gli primi de stoltizia, invidia e malignitade; ripresi gli secondi d’ignoranza, presunzione e temeritade; notati gli terzi de viltà, leggerezza e vanitade: per non esserse gli primi astenuti dalla rigida censura de nostri giudicii, gli secondi da proterva calunnia de nostri sentimenti, gli terzi dal sciocco crivellar de nostre paroli.

Or, per venire a far intendere, a chiunque vuole e puote, la mia intenzione ne gli presenti discorsi, io protesto e certificó che, per quanto appartiene a me, approvo quello che comunmente da tutti savii e buoni è stimato degno di essere approvato, e riprovo con gli medesimi il contrario. E però priego e scongiuro tutti, che non sia qualcuno di animo tanto enorme e spirito tanto maligno, che voglia definire, donando ad intendere a sé e ad altri, che ciò che sta scritto in questo volume, sia detto da me come assertivamente; né creda (se vuol credere il vero) che io, o per sé o per accidente, voglia in punto alcuno prender mira contra la verità, e balestrar contra l’onesto, utile e naturale, e, per conseguenza, divino; ma tegna per fermo che con tutto il mio sforzo attendo al contrario; e se tal volta aviene ch’egli non possa esser capace di questo, non si determine; ma reste in dubio sin tanto che non vegna risoluto dopo penetrato entro la midolla del senso. Considere appresso che questi son dialogi, dove sono interlocutori gli quali fanno la lor voce e da quali son raportati gli discorsi de molti e molti altri, che parimente abondano nel proprio senso, raggionando con quel fervore e zelo che massime può essere ed è appropriato a essi. Per tanto non sia chi pense altrimente, eccetto che questi tre dialogi son stati messi e distesi sol per materia e suggetto d’un artificio futuro; perché, essendo io in intenzione di trattar la moral filosofia secondo il lume interno che in me ave irradiato ed irradia il divino sole intellettuale, mi par espediente prima di preponere certi preludii a similitudine de musici; imbozzar certi occolti e confusi delineamenti ed ombre, come gli pittori; ordire e distendere certa fila, come le tessetrici; e gittar certi bassi, profondi e ciechi fondamenti, come gli grandi edificatori: il che non mi parea più convenientemente poter effettuarsi, se non con ponere in numero e certo ordine tutte le prime forme de la moralità, che sono le virtudi e vizii capitali, nel modo che vedrete al presente introdutto un repentito Giove, ch’avea colmo di tante bestie, come di tanti vizii, il cielo, secondo la forma di quarant’otto famose imagini; ed ora consultar di bandir quelli dal cielo, da la gloria e luogo d’esaltazione, destinandogli per il più certe regioni in terra, ed in quelle medesime stanze facendo succedere le già tanto tempo bandite e tanto indegnamente disperse virtudi. Or, mentre ciò si mette in esecuzione, se vedete vituperar cose che vi paiono indegne di vitupèro, spreggiate cose degne di stima, inalzate cose meritevoli di biasimo; e per il contrario; abbiate tutto per detto (anco da quei che possono nel suo grado dirlo) indefinitamente, come messo in difficultade, posto in campo, cacciato in teatro, che aspetta di essere essaminato, discusso e messo al paragone, quando si consertarà la musica, si figurarà la imagine, s’intesserà la tela, s’inalzarà il tetto. In questo mentre Sofia presenta Sofia, Saulino fa il Saulino, Giove il Giove; Momo, Giunone, Venere ed altri Greci o Egizii, dissoluti o gravi, quel che essi e qual essi sono, e puote appropriarsi alla condizion e natura che possono presentare. Se vedete seriosi e giocosi propositi, pensate che tutti sono equalmente degni d’essere con non ordinarii occhiali remirati. In conclusione, non abbiate altro per definito che l’ordine ed il numero de soggetti della considerazion morale, insieme con gli fondamenti di tal filosofia, la qual tutta intieramente vedrete figurata in essi. Del resto, in questo mezzo ognuno prenda gli frutti che può, secondo la capacità del proprio vase; perché non è cosa sì ria che non si converta in profitto ed utile de buoni; e non è cosa tanto buona e degna che non possa esser caggione e materia di scandalo a’ ribaldi. Qua, dunque, avendo tutto l’altro (onde non si può raccôrre degno frutto di dottrina) per cosa dubia, suspetta ed impendente, prendasi per final nostro intento l’ordine, l’intavolatura, la disposizione, l’indice del metodo, l’arbore, il teatro e campo de le virtudi e vizii; dove appresso s’ha da discorrere, inquirere, informarsi, addirizzarsi, distendersi, rimenarsi ed accamparsi con altre considerazioni; quando, determinando del tutto secondo il nostro lume e propria intenzione, ne esplicaremo in altri ed altri particulari dialogi, ne li quali l’universal architettura di cotal filosofia verrà pienamente compita, e dove raggionaremo più per modo definitivo.

 Abbiamo, dunque, qua un Giove, non preso per troppo leggitimo e buon vicario o luogotenente del primo principio e causa universale; ma ben tolto qual cosa variabile, suggetta al fato della mutazione. Però, conoscendo egli che in tutto uno infinito ente e sustanza sono le nature particolari infinite ed innumerabili (de quali egli è un individuo), che, come in sustanza, essenza e natura sono uno, cossì per raggion del numero che subintrano, incorreno innumerabili vicissitudini e specie di moto e mutazione; ciascuna, dunque, di esse, e particularmente Giove, si trova esser tale individuo, sotto tal composizione, con tali accidenti e circonstanze, posto in numero per differenze che nascono da le contrarietadi, le quali tutte si riducono ad una originale e prima, che è primo principio de tutte l’altre, che sono efficienti prossimi d’ogni cangiamento e vicissitudine: per cui, come da quel che prima non era Giove, appresso fu fatto Giove, cossì, da quel ch’al presente è Giove, al fine sarà altro che Giove. Conosce che dell’eterna sustanza corporea (la quale non è denichilabile né adnichilabile, ma rarefabile, inspessabile, formabile, ordinabile, figurabile) la composizione si dissolve, si cangia la complessione, si muta la figura, si altera l’essere, si varia la fortuna; rimanendo sempre quel che sono in sustanza gli elementi; e quell’istesso, che fu sempre, perseverando l’uno principio materiale, che è vera sustanza de le cose, eterna, ingenerabile, incorrottibile. Conosce bene, che dell’eterna sustanza incorporea niente si cangia, si forma o si difforma; ma sempre rimane pur quella che non può essere suggetto de dissoluzione, come non è possibil che sia suggetto di composizione; e però né per sé né per accidente alcuno può esser detta morire; perché morte non è altro che divorzio de parti congionte nel composto; dove, rimanendo tutto l’essere sustanziale (il quale non può perdersi) di ciascuna, cessa quell’accidente d’amicizia, d’accordo, di complessione, unione ed ordine. Sa che la sustanza spirituale, bench’abbia familiarità con gli corpi, non si deve stimar che propriamente vegna in composizione o mistione con quelli: perché questo conviene a corpo con corpo, a parte di materia complessionata d’un modo con parte di materia complessionata d’un’altra maniera; ma è una cosa, un principio efficiente ed informativo da dentro, dal quale, per il quale e circa il quale si fa la composizione; ed è a punto come il nocchiero a la nave, il padre di fameglia in casa ed uno artefice non esterno, ma che da entro fabrica, contempra e conserva l’edificio; ed in esso è l’efficacia di tener uniti gli contrarii elementi, contemperar insieme, come in certa armonia, le discordante qualitadi, a far e mantenir la composizione d’uno animale. Esso intorce il subbio, ordisce la tela, intesse le fila, modera le tempre, pone gli ordini, digerisce e distribuisce gli spiriti, infibra le carni, stende le cartilagini, salda l’ossa, ramifica gli nervi, incava le arterie, infeconda le vene, fomenta il core, inspira gli polmoni, soccorre a tutto, di dentro, con il vital calore ed umido radicale, onde tale ipostasi consista, e tal volto, figura e faccia appaia di fuori. Cossì si forma la stanza in tutte le cose dette animate, dal centro del core, o cosa proporzionale a quello, esplicando e figurando le membra, e quelle esplicate e figurate conservando. Cossì, necessitato dal principio della dissoluzione, abandonando la sua architettura, caggiona la ruina de l’edificio, dissolvendo li contrarii elementi, rompendo la lega, togliendo la ipostatica composizione, per non posser eternamente con medesimi temperamenti, perpetuando medesime fila, e conservando quegli ordini istessi, annidarsi in uno medesimo composto: però da le parti esterne e membra facendo la ritretta al core, e quasi riaccogliendo gl’insensibili stormenti ed ordegni, mostra apertamente, che per la medesima porta esce, per cui gli convenne una volta entrare. Sa Giove che non è verisimile né possibile che, se la materia corporale, la quale è componibile, divisibile, maneggiabile, contrattabile, formabile, mobile e consistente sotto il domìno, imperio e virtù de l’anima, non è adnichilabile, non è in punto o atomo adnullabile, per il contrario, la natura più eccellente, che impera, governa, presiede, muove, vivifica, invegeta, insensua, mantiene e contiene, sia di condizion peggiore: sia, dico (come vogliono certi stolti sotto nome de filosofi) un atto, che resulta da l’armonia, simmetria, complessione, ed in fine un accidente che per la dissoluzione del composto vada in nulla insieme con la composizione; più tosto che principio e causa intrinseca di armonia, complessione e simmetria che da esso deriva; il quale non meno può sussistere senza il corpo che il corpo —che è da lui mosso, governato, e per sua presenza unito, e per sua absenza disperso — può essere senza lui. Questo principio, dunque, stima Giove esser quella sustanza che è veramente l’uomo, e non accidente che deriva dalla composizione. Questo è il nume, l’eroe, il demonio, il dio particolare, l’intelligenza; in cui, da cui e per cui, come vegnon formate e si formano diverse complessioni e corpi, cossì viene a subintrare diverso essere in specie, diversi nomi, diverse forme. Questo, per esser quello che, quanto a gli atti razionali ed appetiti, secondo la raggione muove e governa il corpo, è superiore a quello, e non può essere da lui necessitato e constretto; aviene per l’alta giustizia che soprasiede alle cose tutte, che per gli disordinati affetti vegna nel medesimo o in altro corpo tormentato ed ignobilito, e non debba aspettar il governo ed administrazione di meglior stanza, quando si sarà mal guidato nel regimento d’un’altra. Per aver, dunque, ivi menata vita, per essempio, cavallina o porcina, verrà (come molti filosofi più eccellenti hanno inteso; ed io stimo, che se non è da esser creduto, è molto da esser considerato) disposto dalla fatal giustizia, che gli sia intessuto in circa un carcere conveniente a tal delitto o crime, organi ed instrumenti convenevoli a tale operario o artefice. E cossì, oltre ed oltre sempre discorrendo per il fato della mutazione, eterno verrà incorrendo altre ed altre peggiori e megliori specie di vita e di fortuna, secondo che s’è maneggiato megliore— o peggiormente nella prossima precedente condizione e sorte. Come veggiamo che l’uomo, mutando ingegno e cangiando affetto, da buono dovien rio, da temprato stemprato; e per il contrario, da quel che sembrava una bestia, viene a sembrare un’altra peggiore o megliore, in virtù de certi delineamenti e figurazioni, che, derivando da l’interno spirito, appaiono nel corpo; di sorte che non fallaran mai un prudente fisionomista. Però, come nell’umana specie veggiamo de molti in viso, volto, voci, gesti, affetti ed inclinazioni, altri cavallini, altri porcini, asinini, aquilini, buovini; cossì è da credere che in essi sia un principio vitale, per cui, in potenza di prossima passata o di prossima futura mutazion di corpo, sono stati o sono per esser porci, cavalli, asini, aquile, o altro che mostrano; se per abito di continenza, de studii, di contemplazione ed altre virtudi o vizii non si cangiano e non si disponeno altrimente. Da questa sentenza (da noi, più che par comporte la raggion del presente loco, non senza gran causa distesa) pende l’atto de la penitenza di Giove, il qual s’introduce come volgarmente è descritto: un dio che ebbe de le virtudi e gentilezze, ed ebbe de le dissoluzioni, leggerezze e fragilitadi umane, e talvolta brutali e bestiali; come è figurato, quando è fama, che si cangiasse in que’ varii suggetti o forme, per significar la mutazion de gli affetti suoi diversi che incorre il Giove, l’anima, l’uomo, trovandosi in questa fluttuante materia. Quel medesimo è messo governatore e motor del cielo, per donar ad intendere, come in ogni uomo, in ciascuno individuo si contempla un mondo, un universo; dove per Giove governatore è significato il lume intellettuale che dispensa e governa in esso, e distribuisce in quel mirabile architetto gli ordini e sedie de virtudi e vizii.

 Questo mondo, tolto secondo l’imaginazion de stolti matematici, ed accettato da non più saggi fisici, tra quali gli Peripatetici son più vani, non senza frutto presente: prima diviso come in tante sfere, e poi distinto in circa quarant’otto imagini (nelle quali intendeno primamente partito un cielo ottavo, stellifero, detto da’ volgari firmamento), viene ad essere principio e suggetto del nostro lavoro. Perché qua Giove (che rapresenta ciascun di noi), come da conceputo nacque, da fanciullo dovenne giovane e robusto, e da tale è dovenuto e dovien sempre più e più vecchio ed infermo: cossì da innocente ed inabile si fa nocivo ed abile, dovien tristo, e talor si fa buono; da ignorante savio, da crapulone sobrio, da incontinente casto, da dissoluto grave, da iniquo giusto; al che tal volta vien inchinato da la forza che gli vien meno, e spinto e spronato dal timor della giustizia fatale, superiore a’ dei, che ne minaccia. Nel giorno dunque, che nel cielo si celebra la festa de la Gigantoteomachia (segno de la guerra continua e senza triegua alcuna, che fa l’anima contra gli vizii e disordinati affetti), vuole effettuar e definir questo padre quello che per qualche spacio di tempo avanti avea proposto e determinato; come un uomo, per mutar proposito di vita e costumi, prima vien invitato da certo lume che siede nella specola, gaggia o poppa de la nostra anima, che da alcuni è detto sinderesi e qua forse è significato quasi sempre per Momo. Propone, dunque, a gli dei, cioè essercita l’atto del raziocinio de l’interno conseglio, e si mette in consultazion circa quel ch’è da fare; e qua convoca i voti, arma le potenze, adatta gl’intenti; non dopo cena, e ne la notte de l’inconsiderazione, e senza sole d’intelligenza e lume di raggione; non a diggiuno stomaco, la mattina, cioè senza fervor di spirito, ed esser bene iscaldato dal superno ardore; ma dopo pranso, cioè dopo aver gustato ambrosia di virtuoso zelo ed esser imbibito del nettare del divino amore; circa il mezogiorno, o nel punto di quello, cioè, quando meno ne oltraggia nemico errore, e più ne favorisce l’amica veritade, in termine di più lucido intervallo. Allora si dà spaccio a la bestia trionfante, cioè a gli vizii che predominano e sogliono conculcar la parte divina; si ripurga l’animo da errori, e viene a farsi ornato de virtudi; e per amor della bellezza che si vede nella bontà e giustizia naturale, e per desio de la voluttà consequente da frutti di quella, e per odio e tema de la contraria difformitade e dispiacere.

 Questo s’intende accettato ed accordato da tutti e in tutti gli dei, quando le virtudi e potenze de l’anima concorreranno a faurir l’opra ed atto di quel tanto che per giusto, buono e vero definisce quello efficiente lume; ch’addirizza il senso, l’intelletto, il discorso, la memoria, l’amore, la concupiscibile, l’irascibile, la sinderesi, l’elezione: facultadi significate per Mercurio, Pallade, Diana, Cupido, Venere, Marte, Momo, Giove ed altri numi.

Dove dunque era l’Orsa, per raggion del luogo, per esser parte più eminente del cielo, si prepone la Verità; la quale è più alta e degna de tutte cose, anzi la prima, ultima e mezza; perché ella empie il campo de l’Entità, Necessità, Bontà, Principio, Mezzo, Fine, Perfezione: si concepe ne gli campi contemplativi metafisico, fisico, morale, logicale. E con l’Orsa descendeno la Difformità, Falsità, Difetto, Impossibilità, Contingenzia, Ipocrisia, Impostura, Fellonia. — La stanza de l’Orsa maggiore, per causa da non dirla in questo luogo, rimane vacante. — Dove s’obliqua ed incurva il Drago, per esser vicina alla Verità, si loca la Prudenza con le sue damigelle, Dialettica e Metafisica, che ha circonstanti da la destra la Callidità, Versuzia, Malizia, da la sinistra la Stupidità, l’Inerzia, l’Imprudenzia. Versa nel campo della Consultazione. Da quel luogo casca la Casualità, l’Improvisione, la Sorte, la Stracuragine, con le sinistre e destre circonstanti. Da là, dove solo scrimisce Cefeo, cade il Sofisma, l’Ignoranza di prava disposizione, la Stolta Fede con le serve, ministre e circonstanti; e la Sofia, per esser compagna de la Prudenza, vi si presenta, e si vedrà versar negli campi divino, naturale, morale, razionale. — Là dove Artofilace osserva il carro, monta la Legge, per farsi vicina alla madre Sofia; e quella vedrassi versare ne li campi divino, naturale, gentile, civile, politico, economico ed etico particolare, per gli quali s’ascende a cose superiori, si descende a cose inferiori, si distende ed allarga a cose uguali e si versa in se stesso. Da là cade la Prevaricazione, Delitto, Eccesso, Exorbitanza con li loro figli, ministri e compagni. Ove luce la Corona boreale, accompagnandola la Spada, s’intende il Giudizio, come prossimo effetto de la legge ed atto di giustizia. Questo sarà veduto versare in cinque campi di Apprensione, Discussione, Determinazione. Imposizione, Execuzione; ed indi, per conseguenza, cade l’Iniquitade con tutta la sua fameglia. Per la corona, che tiene la quieta sinistra, si figura il Premio e Mercede; per la spada, che vibra la negociosa destra, è figurato il Castigo e Vendetta. — Dove con la sua mazza par che si faccia spacio Alcide, dopo il dibatto de la Ricchezza, Povertade, Avarizia e Fortuna, con le lor presentate corti, va a far la sua residenza la Fortezza, la qual vedrete versar negli campi de l’Impugnazione, Ripugnanza, Espugnazione, Mantenimento, Offensione, Defensione; dalla cui destra cascano la Ferinità, la Furia, la Fierezza; e dalla sinistra la Fiacchezza, Debilità, Pusillanimità; e circa la quale si veggono la Temeritade, Audacia, Presunzione, Insolenza, Confidenza, ed a l’incontro la Viltà, Trepidazione, Dubio, Desperazione con le compagne e serve. Versa quasi per tutti gli campi. — Dove si vede la Lira di nove corde, monta la madre Musa con le nove figlie, Aritmetrica, Geometria, Musica, Logica, Poesia, Astrologia, Fisica, Metafisica, Etica; onde, per conseguenza, casca l’Ignoranza, Inerzia e Bestialitade. Le madri han l’universo per campo, e ciascuna de le figlie ha il proprio suggetto. — Dove distende l’ali il Cigno, ascende la Penitenza, Ripurgazione, Palinodia, Riformazione, Lavamento; ed indi, per conseguenza, cade la Filautia, Immondizia, Sordidezza, Impudenzia, Protervia con le loro intiere fameglie. Versano circa e per il campo de l’Errore e Fallo. — Onde è dismessa l’incatedrata Cassiopea con la Boriosità, Alterezza, Arroganza, Iattanza ed altre compagne che si vedeno nel campo de l’Ambizione e Falsitade; monta la regolata Maestà, Gloria, Decoro, Dignità, Onore ed altri compagni con la lor corte, che per ordinario versano ne li campi della Simplicità, Verità ed altri simili per principale elezione; e talvolta per forza di Necessitade in quello de la Dissimulazione ed altri simili, che per accidente possono esser ricetto de virtudi. — Ove il feroce Perseo mostra il gorgonio trofeo, monta la Fatica, Sollecitudine, Studio, Fervore, Vigilanza, Negocio, Essercizio, Occupazione, con gli sproni del zelo e del timore. Ha Perseo gli talari de l’util Pensiero e Dispreggio del ben popolare, con gli ministri Perseveranza, Ingegno, Industria, Arte, Inquisizione e Diligenza; e per figli conosce l’Invenzione ed Acquisizione, de quali ciascuno ha tre vasi pieni di Bene di fortuna, di Ben di corpo, di Bene d’animo. Discorre ne gli campi di Robustezza, Forza, Incolumità; gli fuggono d’avanti il Torpore, l’Accidia, l’Ocio, l’Inerzia, la Desidia, la Poltronaria, con tutte le lor fameglie da un canto; e da l’altro l’Inquietitudine, Occupazion stolta, Vacantaria, Ardelia, Curiositade, Travaglio, Perturbazione, che esceno dal campo de l’Irritamento, Instigazione, Constrettura, Provocazione ed altri ministri che edificano il palaggio del Pentimento. — A la stanza de Triptolemo monta la umanità con la sua fameglia: Conseglio, Aggiuto, Clemenzia, Favore, Suffragio, Soccorso, Scampo, Refrigerio, con altri compagni e fratelli di costoro e suoi ministri e figli, che versano nel campo de la Filantropia proprio, a cui non s’accosta la Misantropia, con la sua corte: Invidia, Malignità, Disdegno, Disfavore ed altri fratelli di questi, che discorreno per il campo de la Discortesia, ed altri viziosi. — A la casa de l’Ofiulco sale la Sagacità, Accortezza, Sottilezza ed altre simili virtudi abitanti nel campo de la Consultazione e Prudenza; onde fugge la Goffaria, Stupidezza, Sciocchezza con le lor turbe, che tutte cespitano nel campo de l’Imprudenza ed Inconsultazione. — In loco de la Saetta si vede la giudiciosa Elezione, Osservanza ed Intento, che si essercitano nel campo de l’ordinato Studio, Attenzione ed Aspirazione; e da là si parteno la Calunnia, la Detrazione, il Repicco ed altri figli d’Odio ed Invidia che si compiaceno ne gli orti de l’Insidia, Ispionia e simili ignobili e vilissimi coltori. — Al spacio, in cui s’inarca il Delfino, si vede la Dilezione, Affabilità, Officio, che insieme con la lor compagnia si trovano nel campo de la Filantropia, Domestichezza; onde fugge la nemica ed oltraggiosa turba, ch’a gli campi della Contenzione, Duello e Vendetta si ritira. — Là d’onde l’Aquila si parte con l’Ambizione, Presunzione, Temeritade, Tirannia, Oppressione ed altre compagne negociose nel campo de l’Usurpazione e Violenza, va ad soggiornare la Magnanimità, Magnificenza, Generosità, Imperio, che versano ne li campi della Dignitade, Potestade, Autoritade. — Dove era il Pegaseo cavallo, ecco il Furor divino, Entusiasmo, Rapto, Vaticinio e Contrazione, che versano nel campo de l’Inspirazione; onde fugge lontano il Furor ferino, la Mania, l’Impeto irrazionale, la Dissoluzione di spirito, la Dispersion del senso interiore, che si trovano nel campo de la stemprata Melancolia, che si fa antro al Genio perverso. — Ove cede Andromeda con l’Ostinazione, Perversitade e stolta Persuasione, che si apprendeno nel campo de la doppia Ignoranza, succede la Facilità, la Speranza, l’Aspettazione, che si mostraranno al campo della buona Disciplina. — Onde si spicca il Triangolo, ivi si fa consistente la Fede, altrimente detta Fideltade, che s’attende nel campo de la Constanza, Amore, Sincerità, Simplicità, Verità ed altri, da quali son molto discosti gli campi de la Frode, Inganno, Instabilità. — A la già regia del Montone ecco messo il Vescovato, Ducato, Exemplarità, Demonstranza, Conseglio, Indicazione, che son felici nel campo de l’Ossequio, Obedienza, Consentimento, virtuosa Emulazione, Imitazione; e da là si parte il mal Essempio, Scandalo, Alienamento, che son cruciati nel campo de la Dispersione, Smarrimento, Apostasia, Scisma, Eresia. — Il Tauro mostra esser stato figura de la Pazienza, Toleranza, Longanimitade, Ira regolata e giusta, che si maneggiano nel campo del Governo, Ministerio, Servitude, Fatica, Lavoro, Ossequio ed altri. Seco si parte l’Ira disordinata, la Stizza, il Dispetto, il Sdegno, Ritrosia, Impazienza, Lamento, Querela, Còlera, che si trovano quasi per gli medesimi campi. — Dove abitavano le Pleiadi, monta la Unione, Civilità, Congregazione, Popolo, Republica, Chiesa, che consisteno nel campo del Convitto, Concordia, Communione; dove presiede il regolato Amore; e con quelle è trabalsato dal cielo il Monopolio, la Turba, la Setta, il Triumvirato, la Fazione, la Partita, l’Addizione, che periclitano ne’ campi de disordinata Affezione, iniquo Dissegno, Sedizione, Congiura, dove presiede il Perverso Conseglio con tutta la sua fameglia. — Onde parteno li Gemegli, sale il figurato Amore, Amicizia, Pace, che si compiaceno ne’ proprii campi; e quelli banditi menan seco la Parzialitade indegna, che ostinata affigge il piede nel campo de l’iniquo e perverso Desio. — Il Granchio mena seco la mala Repressione, l’indegno Regresso, il vil Difetto, il non lodabile Refrenamento, la Dismession de le braccia, la Ritrazion de’ piedi dal ben pensare e fare, il Ritessimento di Penelope ed altri simili consorti e compagni che si rimetteno e serbano nel campo de l’Inconstanza, Pusillanimità, Povertà de spirto, Ignoranza ed altri molti; ed alle stelle ascende la Conversion retta, Ripression dal male, Ritrazion dal falso ed iniquo con gli lor ministri, che si regolano nel campo del Timore onesto, Amor ordinato, retta Intenzione, lodevol Penitenza ed altri sozii contrarii al mal Progresso, al rio Avanzamento, Pertinacia profittevole. — Mena seco il Leone il tirannico Terrore, Spavento e Formidabilità, la perigliosa ed odibile Autoritade e Gloria della presunzione e Piacere di esser temuto più tosto che amato. Versano nel campo del Rigore, Crudeltà, Violenza, Suppressione, che ivi son tormentate da le ombre del Timore e Suspizione; ed al celeste spacio ascende la Magnanimità, Generosità, Splendore, Nobiltà, Prestanza, che administrano nel campo della Giustizia, Misericordia, giusta Debellazione, degna Condonazione, che pretendeno sul studio d’esser più tosto amate che temute; ed ivi si consolano con la Sicurtà, Tranquillitade di spirito e lor fameglia. — Va a giongersi con la Vergine la Continenza, Pudicizia, Castità, Modestia, Verecundia, Onestade, che trionfano nel campo della Puritade ed Onore, spreggiato da l’Impudenza, Incontinenza ed altre madri de nemiche fameglie. — Le Bilancie son state tipo de la aspettata Equità, Giustizia, Grazia, Gratitudine, Rispetto ed altri compagni, administratori e seguaci, che versano nel trino campo della Distribuzione, Commutazione e Retribuzione, dove non mette piè l’Ingiustizia, Disgrazia, Ingratitudine, Arroganza ed altre lor compagne, figlie ed amministratrici.

Dove incurvava l’adunca coda e stendeva le sue branche lo Scorpione, non appare oltre la Frode, l’iniquo Applauso, il finto Amore, l’Inganno, il Tradimento, ma le contrarie virtudi, figlie della Simplicità, Sincerità, Veritade, e che versano ne gli campi de le madri. — Veggiamo ch’il Sagittario era segno della Contemplazione, Studio e buono Appulso con gli lor seguaci e servitori, che hanno per oggetto e suggetto il campo del Vero e del Buono, per formar l’Intelletto e Voluntade, onde è molto absentata l’affettata Ignoranza e Spenseramento vile. — Là dove ancora risiede il Capricorno, vedi l’Eremo, la Solitudine, la Contrazione ed altre madri, compagne ed ancelle, che si ritirano nel campo de l’Absoluzione e Libertà, nel quale non sta sicura la Conversazione, il Contratto, Curia, Convivio ed altri appartinenti a questi figli, compagni ed amministratori. —Nel luogo de l’umido e stemprato Aquario vedi la Temperanza, madre de molte ed innumerabili virtudi, che particolarmente ivi si mostra con le figlie Civilità ed Urbanitade, dalli cui campi fugge l’Intemperanza d’affetti con la Silvestria, Asprezza, Barbaria. — Onde con l’indegno Silenzio, Invidia di sapienza e Defraudazion di dottrina, che versano nel campo de la Misantropia e Viltà d’ingegno, son tolti gli Pesci, vi vien messo il degno Silenzio e Taciturnitade che versano nel campo de la Prudenza, Continenza, Pazienza, Moderanza ed altri, da quali fuggono a’ contrarii ricetti la Loquacità, Moltiloquio, Garrulità, Scurrilità, Boffonaria, Istrionia, Levità di propositi, Vaniloquio, Susurro, Querela, Mormorazione. — Ove era il Ceto in secco, si trova la Tranquillità de l’animo, che sta sicuro nel campo de la Pace e Quiete; onde viene esclusa la Tempesta, Turbulenza, Travaglio, Inquietitudine ed altri socii e frategli. — Da là dove spanta gli numi il divo e miracoloso Orione con l’Impostura, Destrezza, Gentilezza disutile, vano Prodigio, Prestigio, Bagattella e Mariolia, che qual guide, condottieri e portinaii administrano alla Iattanzia, Vanagloria, Usurpazione, Rapina, Falsitade ed altri molti vizii, ne’ campi de quali conversano, ivi viene esaltata la Milizia studiosa contra le inique, visibili ed invisibili potestadi; e che s’affatica nel campo della Magnanimità, Fortezza, Amor publico, Verità ed altre virtudi innumerabili. — Dove ancor rimane la fantasia del fiume Eridano, s’ha da trovar qualche cosa nobile, di cui altre volte parlaremo, perché il suo venerando proposito non cape tra questi altri. — D’onde è tolta la fugace Lepre col vano Timore, Codardiggia, Tremore, Diffidenza, Desperazione, Suspizion falsa ed altri figli e figlie del padre Dappocagine ed Ignoranza madre, si contemple il Timor, figlio della Prudenza e Considerazione, ministro de la Gloria e vero Onore, che riuscir possono da tutti gli virtuosi campi. — Dove in atto di correre appresso la lepre, avea il dorso disteso il Can maggiore, monta la Vigilanza, la Custodia, l’Amor de la republica, la Guardia di cose domestiche, il Tirannicidio, il Zelo, la Predicazion salutifera, che si trovano nel campo de la Prudenza e Giustizia naturale; e con quello viene a basso la Venazione ed altre virtù ferine e bestiali, le quali vuol Giove che siano stimate eroiche, benché verseno nel campo de la Manigoldaria, Bestialità e Beccaria. — Mena seco a basso la Cagnuola, l’Assentazione, Adulazione e vile Ossequio con le lor compagnie; ed ivi in alto monta la Placabilità, Domestichezza, Comità, Amorevolezza, che versano nel campo de la Gratitudine e Fideltade. — Onde la Nave ritorna al mare insieme con la vile Avarizia, buggiarda Mercatura, sordido Guadagno, fluttuante Piratismo ed altri compagni infami, e per il più de le volte vituperosi, va a far residenza la Liberalità, Comunicazione officiosa, Provision tempestiva, utile Contratto, degno Peregrinaggio, munifico Transporto con gli lor fratelli, comiti, temonieri, remigatori, soldati, sentinieri ed altri ministri, che versano nel campo de la Fortuna. — Dove s’allungava e stendeva le spire il Serpe australe, detto l’Idra, si fa veder la provida Cautela, giudiciosa Sagacità, revirescente Virilità; onde cade il senil Torpore, la stupida Rifanciullanza con l’Insidia, Invidia, Discordia, Maldicenza ed altre commensali. — Onde è tolto con il suo atro Nigrore, crocitante Loquacità, turpe e zinganesca Impostura, con l’odioso Affrontamento, cieco Dispreggio, negligente Servitude, tardo Officio e Gola impaziente, il Corvo, succedeno la Magia divina co le sue figlie, la Mantia con gli suoi ministri e fameglia, tra gli quali l’Augurio è principale e capo, che sogliono per buon fine esercitarsi nel campo de l’Arte militare, Legge, Religione e Sacerdozio. — D’onde con la Gola ed Ebrietade è presentata la Tazza con quella moltitudine de ministri, compagni e circonstanti, là si vede l’Abstinenza, ivi è la Sobrietade e Temperanza circa il vitto, con gli lor ordini e condizioni. — Dove persevera ed è confirmato nella sua sacristia il semideo Centauro, si ordina insieme la divina Parabola, il Misterio sacro, Favola morale, il divino e santo Sacerdocio con gli suoi institutori, conservatori e ministri; da là cade ed è bandita la Favola anile e bestiale con la sua stolta Metafora, vana Analogia, caduca Anagogia, sciocca Tropologia e cieca Figuratura, con le lor false corti, conventi porcini, sediciose sette, confusi gradi, ordini disordinati, difformi riforme, immonde puritadi, sporche purificazioni e perniciosissime forfantarie che versano nel campo de l’Avarizia, Arroganza ed Ambizione; ne li quali presiede la torva Malizia, e si maneggia la cieca e crassa Ignoranza.

13 Con l’Altare è la Religione, Pietade e Fede: e dal suo angolo orientale cade la Credulità con tante pazzie e la Superstizione con tante cose, coselle e coselline; e dal canto occidentale l’iniqua Impietade ed insano Ateismo vanno in precipizio. — Dove aspetta la Corona australe, ivi è il Premio, l’Onore e Gloria, che son gli frutti de le virtudi faticose e virtuosi studi, che pendeno dal favore de le dette celesti impressioni. — Onde si prende il Pesce meridionale, là è il Gusto de gli già detti onorati e gloriosi frutti; ivi il Gaudio, il fiume de le Delicie, torrente de la Voluptade, ivi la Cena, ivi l’anima

Pasce la mente de sì nobil cibo,

Ch’ambrosia e nettar non invidia a Giove.

Là è il Termine de gli tempestosi travagli, ivi il Letto, ivi il tranquillo Riposo, ivi la sicura Quiete. Vale.

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SUL PITAGORISMO E MASSONERIA

Sul Pitagorismo

Pitagorismo e massoneria

Tradizione pitagorica e massoneria

La fortezza della luce

Su Reghini

Un Pitagorico dei nostri tempi

Su Roman

Denys Roman

Tra le molteplici organizzazioni iniziatiche di cui la Massoneria rivendica l’eredità, una delle più frequentemente citate è l’Ordine Pitagorico. Si sa che la ragione di tale pretesa è la presenza, nel simbolismo massonico, di emblemi utilizzati dai discepoli del maestro di Samo: tra questi, quelli più comunemente citati sono la stella a cinque punte per quanto riguarda la Massoneria latina e il gioiello di Past Master per quanto riguarda quella di lingua inglese. Quest’ultimo gioiello riunisce in realtà due simboli pitagorici importanti: da una parte raffigura la dimostrazione grafica del teorema sul quadrato dell’ipotenusa, e dall’altra questa dimostrazione viene fatta con l’ausilio del triangolo 3-4-5, di cui è nota l’importanza nel Pitagorismo.

Beninteso, il fatto che il pentagono stellato non sia necessariamente associato al nome di Pitagora, e che molti dei Massoni latini ignorino perfino che il tracciato di questa figura costituisse il segno di riconoscimento dei Pitagorici, mentre, al contrario, il teorema sul quadrato dell’ipotenusa è universalmente conosciuto sotto il nome di teorema di Pitagora, questo fatto, dicevamo, ha portato alla conseguenza che la Massoneria anglosassone ha mantenuto molto più vivo il ricordo della sua connessione con il Pitagorismo di quanto non abbia fatto la Massoneria latina. La cosa era loro del resto facilitata, perché alcuni degli antichi documenti chiamati Old Charges fanno espressamente menzione di Pitagora come di colui che ha introdotto la Massoneria in Europa. – Eppure, è un Massone italiano oggi deceduto, Arturo Reghini, che ha pubblicato, sui rapporti tra Massoneria e Pitagorismo, la sola opera di valore di cui abbiamo avuto conoscenza .

Prima di dire tutto ciò che di positivo pensiamo su questo libro dobbiamo formulare una critica, e una critica grave. Il suo autore ignorava totalmente cosa fosse il Cristianesimo, nonostante avesse l’opportunità, grazie alla sua posizione, di conoscerlo bene, almeno sotto una delle sue forme. Ed è troppo poco dire che lo ignorava, poiché ne dava in realtà un’immagine che è una vera e propria caricatura. Come esprimersi altrimenti quando si vede l’autore stigmatizzare «la hantise sessuale che pervade le religioni derivate dall’ebraismo e che nel cristianesimo compare ad esempio nella circoncisione cui è dedicato il primo giorno dell’anno, e nel dogma dell’immacolata concezione»?

Questo passaggio è veramente incredibile. È quasi impossibile accumulare più errori in così poche parole. Se i calendari cristiani occidentali portano alla data del 1° gennaio la menzione «Circoncisione», non è per consacrare l’intero anno a un’osservanza mosaica che il Cristianesimo ha, da parte sua, abolito, ma semplicemente perché il Cristo, essendo nato tradizionalmente il 25 dicembre, è stato circonciso, secondo la legge, il 1° gennaio, e perché tutte le Chiese cristiane usano celebrare gli avvenimenti della vita del loro fondatore. E la circoncisione è così poco l’effetto di una «ossessione sessuale» d’origine israelitica, che essa è praticata non soltanto dagli Ebrei e dai Musulmani, ma dai popoli più diversi, civilizzati o selvaggi. In Australia, per esempio, al momento dei «riti di pubertà» certe tribù praticano la circoncisione, mentre in alcune tribù si usa cavare un dente; ma non ci pare che le prime di queste tribù siamo più «ossessionate» sessualmente che le seconde. E per quanto riguarda l’Immacolata Concezione, che del resto non è un dogma che nel Cattolicesimo romano, non vediamo in che modo il fatto di credere che la madre di Cristo sia stata esentata dal peccato originale possa avere un qualunque legame con la sessualità.

Queste riserve, che ogni uomo di spirito tradizionale fa in modo del tutto naturale, e che un Massone dovrebbe fare a fortiori perché, rispettando tutte le religioni, deve rispettare particolarmente quella a cui appartiene l’immensa maggioranza dei Massoni, non devono impedire di riconoscere i meriti eccezionali del libro di Arturo Reghini. L’autore, se conosceva male il Cristianesimo e la «tradizione monoteista» in generale, aveva per contro una notevole conoscenza delle scienze matematiche (profane e tradizionali), della letteratura e della tradizione greco-latina, e del Pitagorismo in particolare. Aveva anche studiato l’Ermetismo e l’opera di Dante e dei «Fedeli d’Amore». E grazie a questo ha potuto, prima di morire, scrivere quest’opera preziosa, indispensabile a chiunque si interessi tanto alla scienza dei numeri quanto alla dottrina massonica.

Beninteso, un libro di questo genere, che comporta numerose dimostrazioni matematiche e figure geometriche, non si può riassumere. L’autore studia la Tetraktys pitagorica (che assimila al Delta luminoso della Massoneria) (cap. I), il pentalfa (stella a cinque punte) (cap. IV) e la tavola tripartita (che è la tavola di tracciamento) (cap. VI), ossia tre dei simboli fondamentali dei gradi simbolici. Egli esamina a lungo, inoltre, questioni come quella dei «numeri sintetici» (cap. II), dei numeri primi (cap. III), delle potenze aritmetiche (cap. V), della Grande Opera e della palingenesi (ultimo capitolo).

Reghini compara lungamente il ternario 1-2-3, che è il solo ternario di numeri successivi nel quale la somma dei due primi numeri (1+2) è uguale al terzo, con il «ternario egizio» 3-4-5, solo ternario di numeri successivi in cui la somma dei quadrati dei due primi numeri (9+16) è uguale al quadrato del terzo: 25. Seguono delle considerazioni sulla geometria a una dimensione (simbolo della manifestazione «lineare») e su quella a due dimensioni (simbolo della manifestazione «di superficie» che conduce alla «presa di possesso» della terra). L’autore inoltre spiega tramite il passaggio dal ternario 1-2-3 al ternario 3-4-5 il fatto che le Logge di 1° grado sono «illuminate» dal «Delta luminoso» a tre punte, mentre quelle di 2° grado lo sono dalla «Stella fiammeggiante» a cinque punte.

Altre considerazioni sono possibili sui numeri 3, 4 e 5, le cui figure geometriche corrispondenti sono il triangolo, il quadrato e il cerchio. In effetti, gli Arabi, che hanno trasmesso la loro numerazione al mondo occidentale, raffigurano la cifra 5 con un cerchio. Nell’«Atalanta fugiens» del rosicruciano Michael Maier, queste tre figure vengono associate al problema ermetico della «quadratura del cerchio», e, secondo alcuni antichi testi, esse sarebbero state particolarmente venerate dai Massoni operativi. È del resto probabile che sia questa la ragione per cui i «quattro santi coronati» furono scelti come patroni secondari della Massoneria, in ragione dei rapporti del numero 4 con il quadrato, della parola «santo» con il triangolo (con riferimento al Dio «tre volte santo») e della corona con il cerchio.

L’autore fornisce interessanti dettagli sulla Tetraktys, «nella quale sono compresi tutti i numeri in principio»: si sa che è su di essa che i Pitagorici prestavano giuramento.

René Guénon ha così spesso parlato di questa figura, «fonte e radice della Natura eterna», che noi ci limiteremo a menzionare, a seguito di quanto riporta Reghini, una domanda tratta dall’«istruzione» dei Pitagorici Acusmatici: «Che cosa vi è nel santuario di Delfi? – La santa Tetraktys, perché in essa è l’armonia in cui risiedono le Sirene». E l’autore precisa che le Sirene, in un’epoca molto remota, simboleggiavano «l’armonia delle sfere».

Sul pentalfa, o stella a cinque punte, il libro che stiamo analizzando mette in luce i rapporti numerici degni di nota che legano tra loro i diversi elementi di questa figura e che le «imprimono il marchio», se così si può dire, della «legge d’armonia». – Questi rapporti sono tali che ogni elemento del pentalfa è la «sezione aurea» di un altro elemento. E l’autore, citando Cantor, sottolinea che questa sezione aurea aveva una grande importanza nell’architettura prima di Pericle.

Il capitolo VI contiene estese considerazioni sulla tavola di tracciamento, o tavola tripartita, che è anche la «chiave delle lettere». L’autore vi riconosce la tavola del matematico Teone da Smirne e mostra i suoi legami con questo sistema di numerazione dei Greci. E, ricordando che la pietra bruta, la pietra cubica e la tavola di tracciamento sono i tre «gioielli immobili», aggiunge che tutti e tre si riferiscono «alla costruzione dei templi che, secondo il rituale, è il compito della massoneria». La tavola di tracciamento «ricorda che questa costruzione esige la conoscenza dei numeri sacri, e, con la sua stessa forma, essa sottolinea l’importanza speciale della divisione ternaria» (p. 116).

L’autore prosegue: «notiamo in fine che la tavola da tracciare dell’antica corporazione muratoria si può associare se non identificare in un modo molto semplice e naturale ma generico e di scarso significato con l’antico abbaco  pitagorico, il “deltos”, o “mensa pythagorica”, più tardi confusa con l’antica tavola pitagorica che sino a pochi anni fa si insegnava ancora nelle scuole elementari» (p. 121). E termina questo passaggio indicando che presso i Romani la parola «mensa» significa allo stesso tempo tavola per il calcolo e tavola per il cibo.

A. Reghini ricorda anche che la tavola di tracciamento, secondo il rituale d’Apprendista, simboleggia la memoria, ed aggiunge: «La dea della memoria, Mnemosine, è alla testa delle nove muse, le muse che dimostrano le orse a Dante condotto da Apollo mentre Minerva spira (Paradiso, cap. 2). Mnemosine nel mito orfico-pitagorico dei due fiumi o del bivio è la fonte vivificatrice, l’Eunoè dantesco, opposta alla fonte letale del Lete. Inoltre nella concezione platonica la comprensione non è altro che una anamnesi, un ricordo. Se non si tiene presente questo significato della memoria secondo gli antichi, non si vede perché la memoria debba avere per simbolo la tavola da tracciare» (pp. 123).

L’opera contiene un gran numero di considerazioni interessanti sulla musica e sui legami che uniscono quest’arte alla scienza dei numeri. Vi si cita una tradizione riportata da Diogene Laerzio che racconta come Pitagora, «ascoltando i suoni emessi dai martelli di un fabbro che batteva sopra l’incudine, osservò che l’altezza di questi suoni dipendeva dalla grossezza dei martelli, e poi esperimentando con corde egualmente tese tratte da una stessa corda, trovò che al diminuire della lunghezza della corda il suono si elevava, e che si ottenevano dei suoni di cui l’orecchio percepiva l’accordo quando i rapporti delle lunghezze delle corde erano espressi da rapporti numerici semplici» (p. 56).

A. Reghini fa notare qui che i rapporti numerici più semplici sono quelli che hanno per elementi i numeri della Tetraktys: 1, 2, 3 e 4, e che le corde della lira di Orfeo o tetracordo di Filolao erano in rapporto 1/2 2/3 3/4. Ma conviene anche notare che la leggenda riportata da Diogene Laerzio attribuisce un’origine «metallurgica» alla musica e particolarmente alla lira, la stessa lira con la quale Apollo regolava i movimenti degli astri, Orfeo appianava la discordia, Arione incantava i delfini e sfuggiva al naufragio e Anfione edificava le mura di Tebe.

Dobbiamo ora affrontare un’altra questione. Si sa che la stella a cinque punte o pentalfa era il segno di riconoscimento della scuola pitagorica, cioè il loro simbolo più importante. A. Reghini ricorda che i membri di questa scuola facevano corrispondere a ciascuna delle sommità della figura una delle lettere della parola u g i e i a (salute). E l’autore aggiunge che la salute è per il corpo ciò che l’armonia è per l’essere totale (p. 93); ciò è vero, ma egli sembra non aver notato una particolarità curiosa: ciascuna delle lettere che compongono la parola u g i e i a è una lettera pitagorica:

Y, ypsilon (i greca), lettera pitagorica per eccellenza, simbolo delle «due vie della destra e della sinistra», e sotto una forma exoterica, del mito di Ercole tra la virtù e il vizio» .

G, gamma, la lettera G della Massoneria, che ha la forma della squadra, simbolo essenziale (con la spirale) del secondo grado, della quale Guénon ha scritto che «rappresenta i due lati dell’angolo dritto del triangolo 3-4-5, che ha (…) un’importanza tutta particolare nella massoneria operativa» .

I, iota, simbolo universale dell’Unità.

EI, ossia l’iscrizione misteriosa incisa sulla porta del tempio di Delfi, e che, in risposta all’ingiunzione: «Conosci te stesso», formula esplicitamente la dottrina «solare» dell’Identità Suprema.

Infine A, alfa, elemento costitutivo del pentalfa, prima lettera dell’alfabeto, che rappresenta il «ritorno alle origini».

Il simbolismo della successione di queste sei lettere sarebbe interessante da studiare. Notiamo che esse sono disposte attorno alla stella a cinque punte secondo il senso polare, cosa perfettamente normale in quanto il pitagorismo procede dalla tradizione iperborea. D’altra parte, nella Massoneria di lingua inglese, la «preparazione del recipiendario» al secondo grado sembra indicare che i viaggi di questo grado dovevano essere compiuti in senso polare, come del resto era il senso dei viaggi nell’antica Massoneria operativa.

Quello che abbiamo detto sulla ragione probabile della scelta della parola à i e i a non ci impedisce di riconoscere l’importanza tutta particolare che aveva la salute, e, generalmente, lo sviluppo corporale, per i Pitagorici. Si sa che lo stesso Pitagora non disdegnava concorrere ai Giochi Olimpici, ed il «Padre della Medicina», Ippocrate, stabilì la sua scienza su basi pitagoriche, come lui stesso dichiara espressamente. La scienza di numeri (teoria dei «giorni critici») svolge un importante ruolo in questa medicina che, del resto, era un’ «arte sacerdotale» (esattamente come l’Ayur-Véda degli Indù, con il quale potrebbe essere interessante compararla); e il «giuramento d’Ippocrate», prestato su quattro divinità (Apollo, Esculapio, Igea e Panacea) è esattamente forgiato sulle obbligazioni iniziatiche e comporta, come il giuramento massonico in particolare, tre elementi essenziali: invocazione, impegno, imprecazione.

Pensiamo che potrebbe essere interessante comparare queste due scienze ereditate dal Pitagorismo: la medicina ippocratica e la Massoneria. E se qualcuno dei nostri lettori trovasse strane queste considerazioni, gli domanderemmo come si potrebbe spiegare il fatto che ogni Loggia operativa contava obbligatoriamente, tra i membri «accettati», un medico.

Arturo Reghini cita a più riprese un’espressione dei rituali italiani in cui si parla dei «numeri sacri conosciuti dai soli Massoni», e vi vede molto giustamente l’indizio di una filiazione pitagorica. In Francia, dove non si trova l’espressione citata, crediamo si trovi però un’altra formula altrettanto significativa. Si tratta del saluto che deve essere utilizzato da un Massone quando scriva a uno dei suoi fratelli: «Vi saluto con i numeri misteriosi che conoscete».

Questa formula indica chiaramente che i Massoni conoscono la «scienza dei numeri», e che questi numeri non sono i numeri «volgari» dei profani, bensì quei numeri «misteriosi» nei quali i Pitagorici vedevano l’essenza di tutte le cose.

Ma, si potrebbe obiettare, la «scienza dei numeri» non appartiene in modo speciale al Pitagorismo, dal momento che la Kabbala e l’esoterismo islamico ne fanno un uso costante. Ciò è vero ma, come ha fatto notare René Guénon, le tradizioni ebrea e musulmana considerano il numero «aritmeticamente», mentre il Pitagorismo, nato in seno a un popolo sedentario e quindi costruttore, li considera in quanto legati alle forme geometriche: triangolo, cubo, ecc. E lo stesso avviene, evidentemente, nella Massoneria

A. Reghini cita ancora il silenzio come elemento comune agli Ordini pitagorico e massonico; a dire il vero, quello del silenzio è un tratto comune a tutte le organizzazioni iniziatiche, ma è un fatto che i neofiti pitagorici restavano 3 anni, a volte 5, in silenzio mentre compivano la loro istruzione. E questi numeri possono ricordare le «età» dell’Apprendista e del Compagno, che sono soggetti al silenzio durante il loro periodo di probazione.

Occorre anche notare che ciascuno dei cinque viaggi del secondo grado è detto rappresentare uno degli anni di studio del neofita.

Cosicché la Massoneria ha, tra i suoi simboli e i suoi usi, molti elementi in comune con il Pitagorismo: Delta, stella fiammeggiante, tavola di tracciamento, triangolo 3-4-5, importanza data al teorema sul quadrato dell’ipotenusa, scienza dei numeri, silenzio di cinque anni, uso dei pasti rituali, importanza data alla salute del corpo. Si comprende come l’autore del libro che stiamo esaminando faccia sua l’affermazione dell’arciprete Domenico Angherà: «L’Ordine massonico è la stessa cosa, assolutamente la stessa cosa, dell’Ordine pitagorico». A. Reghini, del resto, sapeva bene che esistono elementi giudaici, gioanniti, templari, rosicruciani, ermetici nella Massoneria; ma, nel suo entusiasmo per il Pitagorismo, egli considera tutti questi elementi come delle aggiunte inutili, e perfino nocive. E questo lo porta a non tenere nella dovuta considerazione il grado di Maestro, nel quale gli elementi salomonici, come si sa, sono predominanti.

Da un altro lato, quando si considera che tutte le parole sacre della Massoneria sono ebraiche; che l’era e il calendario massonici sono specificamente giudaici; che il presidente di una Loggia è detto occupare il seggio del re Salomone, e che i suoi due assistenti rappresentano Hiram, re di Tiro e Hiram-Abiff; che le leggende del 3° grado e dei gradi seguenti vertono interamente sugli avvenimenti che hanno preceduto, accompagnato o seguito la costruzione del Tempio di Gerusalemme, si è portati a pensare che il carattere «salomonico» della Massoneria non dia adito ad alcun dubbio.

Attraverso il Pitagorismo, la Massoneria si ricollega all’Orfismo e alla tradizione iperborea conservata a Delfi. Ma, nel corso delle epoche, gli apporti della tradizione giudaica prima, e di quella cristiana poi, hanno impresso a essa i suoi caratteri definitivi. Le «leggende» di Salomone, dell’uccisione di Hiram-Abiff e della grande maestria dei due san Giovanni ne sono la testimonianza. E questa «impregnazione» giudaica e soprattutto cristiana ha preparato la via alle numerose eredità che doveva ricevere l’Ordine massonico, eredità di cui la più illustre, la più nobile e la più preziosa è quella dei Templari.

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SULLA FRATELLANZA

SULLA FRATELLANZA

Considerando in quale misura vengano messi in rilievo i pregi della fratellanza presso la maggior parte delle organizzazioni iniziatiche, non appare privo d’interesse spendere alcune parole a questo riguardo, per cercare di stabilire quali siano le ragioni che possono trovarsi alla sua radice. Per rendere più semplice e chiara la nostra esposizione ci limiteremo qui a esaminare l’argomento dal particolare punto di vista delle forme iniziatiche occidentali, più familiare se non per tutti almeno per una parte dei lettori; ciò non vuol dire, tuttavia, che non ricorreremo ad altre fonti quando ciò ci sembri opportuno, allo scopo di meglio illustrare il nostro pensiero.

Risalendo agli Antichi Doveri della Libera Muratoria vi si scopre, inserita in modo più o meno velato tra le norme ivi elencate, una preziosa indicazione ai fini di questa ricerca: in essi viene affermato che «l’amore fraterno [costituisce] la pietra di fondazione e di volta, il cemento e la gloria di questa antica Fratellanza» .

Una tale formulazione, ad un tempo estremamente concisa e ricca di contenuti, rispecchia in modo ammirevole la dottrina tradizionale, sia pure applicata all’ambito proprio della Libera Muratoria. In essa i termini impiegati hanno un carattere tecnico che, nel caso degli antichi operativi, doveva essere in grado di richiamare immediatamente alla loro mente una serie di nozioni legate alla pratica del mestiere, ma anche e soprattutto suscettibili, almeno per coloro che ne erano in grado, di un adattamento altrettanto rigorosamente «tecnico» all’arte della vita.

Ora, è chiaro che assimilare l’amore fraterno alla «pietra di fondazione» non può corrispondere allo stesso significato che esso assume quando lo si assimila alla «pietra» o «chiave di volta», tra di essi intercorrendo tutta la distanza che separa la «virtualità» dalla «effettività». Invero, una tale discriminazione allude alla necessità di perseguire lo sviluppo dell’amore fraterno fin dall’inizio e lungo tutto il percorso della via iniziatica, il massone essendo tenuto a sforzarsi di portare a termine in se stesso l’opera di costruzione dello spirito di fratellanza affinché gli sia infine possibile stabilirsi nella «perfetta unione». Non v’è dubbio, inoltre, che un allenamento mentale e comportamentale volto a privilegiare ognora lo spirito di fratellanza sugli interessi egoistici, agisce quale «cemento» o collante tra i singoli componenti dell’organizzazione iniziatica, garantendo una maggiore o minore coesione del vincolo fraterno a misura del grado di maturazione raggiunto da ciascuno.

Si tratta, in fin dei conti, di un processo tutto interiore che non può se non trovare corrispondenza in una pratica metodica in grado di avviare verso la realizzazione iniziatica. A questo proposito è bene ricordare come gli Antichi Doveri forniscano una certa regola di vita richiedente, tra l’altro, di «evitare tutte le dispute e questioni, tutte le maldicenze e calunnie, non consentendo ad altri di diffamare qualsiasi onesto fratello, ma difendendo il suo carattere e dedicandogli i migliori uffici per quanto consentito dal vostro cuore e sicurezza e non oltre».

Ma, al di là delle norme tramandate per iscritto nei documenti pervenutici, ormai reperibili nelle varie raccolte pubblicate, negli Antichi Doveri v’è anche un’esplicita apertura a «doveri» comunicabili «per altra via», il che può alludere a qualcosa di ben più consono al carattere strettamente «riservato» e piuttosto personale che riveste un metodo di realizzazione iniziatica, del quale tutt’al più possono apparire all’esterno, cristallizzate in uno scritto, solo indicazioni di applicazione generale e che vanno perciò ritenute in qualche modo relativamente exoteriche.

Su questo punto, altre vie iniziatiche diverse da quella massonica possono offrire precisazioni più dettagliate e può essere utile, al fine di favorire la comprensione, riprodurre alcuni passaggi estratti da testi del Sufismo dovuti agli «Shuyukh» Muhammad at-Tâdilî e Jâlal-ud-dîn Rumî.

«Le qualità proprie del carattere del Sûfî – dice lo Sheikh at-Tâdilî – fanno sì che quando tu sei irritato con lui, egli ti risponde con l’equanimità (…). Esse lo portano anche a perdonare colui che gli ha fatto un torto, a sforzarsi di riallacciare le relazioni di amicizia con colui che le ha rotte, a soddisfare le richieste di colui che ha respinto le sue (…)».

«L’amicizia obbliga alla sincerità, sia esteriore che interiore, tra iniziati, secondo la massima: “Quando siete in compagnia dei Sûfî, siatelo con sincerità, perché essi sono le spie dei cuori. Essi entrano ed escono dai vostri cuori in modo per voi imprevedibile”. In effetti, tu sei lo specchio dei tuoi fratelli: essi vedono in questo specchio ciò che è nascosto in profondità (…). E v’è un adagio che dice: “Nessuno dissimula una cosa senza ch’essa traspaia dal suo volto e dalle parole che si lascia sfuggire” (…). Ma i Sûfî sono preservati dalla dissimulazione perché essi hanno indossato il mantello della purezza e proprio per ciò si chiamano Sûfî».

«L’amicizia implica la modestia (nelle relazioni) tra fratelli, il controllo degli impeti del carattere proprio di ciascuno, la convinzione di essere inferiori agli altri fratelli (…). Questa amicizia conduce a far finta di non notare i passi falsi dei fratelli, a nascondere i loro difetti, (…) a cercargli tutte le scuse possibili, mettendo in pratica la massima sufica che dice: “Cerca per tuo fratello settanta scuse e se non le trovi, rivolgiti all’anima tua con sospetto e dille: Quello che vedi in tuo fratello è ciò che è nascosto in te!” (…)».

A questo riguardo, Jâlal-ud-dîn Rumî dice: «Se scopri un difetto in tuo fratello, devi sapere che tale difetto esiste in te stesso (…). Elimina il difetto che ti ferisce: in realtà ti sei ferito da te stesso (…). Tutti i difetti: la prepotenza, l’odio, la gelosia, la bramosia, l’assenza di pietà, l’orgoglio, se esistono in te non ti feriscono, ma quando li scopri negli altri, ti spaventi e ne sei ferito».

«L’amicizia – continua a dire lo Sheikh at-Tâdilî – implica che ci si informi delle preoccupazioni dei fratelli, che si presti loro aiuto nella misura del possibile, che si vada sovente a trovarli per rendere loro visita e rinnovare l’alleanza (…)».

«La nobiltà del carattere è tutto il Tasawwuf (la via iniziatica). Essa presuppone la rinuncia al desiderio di comandare tra gl’iniziati, la rinuncia all’ostentazione ed agli onori. L’iniziato non dovrà vantarsi di essere superiore ai suoi fratelli per la scienza, per la conoscenza o per gli stati (spirituali), ma rifletterà piuttosto sulla lentezza con cui sbarazza la propria anima dalle passioni e con cui procede alla ricerca di quello che può accontentare i suoi fratelli (…)».

«In una parola, la via dei Sûfî è la via dell’Unione. I loro respiri e la loro condotta sono diretti all’amicizia nell’Unione. L’Unione è infatti il principio dell’esistenza e di ciò che si differenzia in tutti i mondi».

Queste citazioni, selezionate da una fonte che, in pratica, si rivela pressoché inesauribile a causa dei molteplici e via via sempre più sottili adattamenti alle varie possibilità, possono comunque bastare per capire che questo metodo insegue il superamento delle barriere limitative che determinano un «io» per opposizione agli «altri», tramite la progressiva rinuncia alle limitazioni derivanti dall’autonomia individuale.

D’altronde in Massoneria, almeno per un certo verso, le cose non sembrano stare in modo poi così diverso, se consideriamo che il simbolismo muratorio vuole che le varie pietre vengano squadrate e levigate sino a cancellare ogni singolo difetto che possa compromettere il loro assemblaggio, per concorrere così alla maggiore solidità dell’opera.

Riguardo al metodo di realizzazione dell’unione fraterna si può, per sommi capi, avanzare l’idea di un «processo di costruzione della fratellanza» che sia una conseguenza naturale del progredire dello sforzo teso a un parallelo «processo di demolizione» di quella tendenza all’individualismo che è propria dello stato profano; non vediamo altra possibilità e, tutto sommato, riteniamo che questo sia l’unico modo realistico e positivo di affrontare il problema, e per evitare che le buone intenzioni si esauriscano nel nulla.

Naturalmente, nel «lavoro collettivo» v’è uno strumento «operativo» coadiuvante a questo fine, a patto però che vengano rispettati determinati presupposti, tra i quali bisogna annoverare in primo luogo la qualità dell’ambiente collettivo. Inoltre, sul piano personale, non va dimenticato che l’attitudine che può considerarsi consona all’iniziato deve essere tutt’altro che passiva, almeno al proprio interno, e questo fin dai primi passi dell’apprendistato: attento al lavoro collettivo, egli deve essere pronto ad afferrare ogni occasione propizia per individuare i propri difetti; ciò è di gran lunga la cosa più difficile poiché richiede che egli sia dotato di una salda intenzione e di una grande sincerità anche verso se stesso; individuata l’imperfezione, in seguito si tratta solo di impegnarsi a cancellarla, il che appartiene esclusivamente alla sfera della volontà.

A questo punto diventa forse più facile capire perché in genere l’attività dell’iniziato deve essere principalmente rivolta verso l’interno: in effetti, anche quando siano i fatti esteriori a reclamare la sua attenzione, ciò avviene non in quanto essi possano come tali incuriosirlo e quindi trascinarlo a giudicare le faccende altrui, ma in quanto per loro tramite ne riesca a trarre un giovamento, un’indicazione atta a essere trasferita al proprio interno, in un’attività tutta tesa a progredire nello sgrossamento delle proprie asperità, dei propri difetti. A questo proposito ci viene in mente la figura del massone che, ripiegato su se stesso, si cimenta nella squadratura della propria pietra, ben conscio che giammai nessuno potrà dall’esterno supplire a questo suo sforzo, che è e rimane prettamente personale.

Beninteso, quanto testé detto si riferisce in particolar modo a ciò che chiamammo «processo di demolizione»; l’altra faccia della medaglia, e cioè il «processo di costruzione della fratellanza» che ne deriva, fa sì che la virtù dell’iniziato si riversi sull’ambiente più o meno effettivamente secondo il grado di sviluppo raggiunto e con caratteristiche che potranno anche differire in ordine alle attribuzioni qualitative che determinino le varie nature. Chiaramente, quanto più si riesca a progredire nella via della «demolizione» tanto più si sarà in grado di «vivere» la fratellanza.

Diciamo infine che, una volta superato un determinato limite del «processo di demolizione», si sarà passati da una certa visione della «realtà», colorata dal predominio disordinato delle passioni e dove tutto viene misurato in termini di opposizione al proprio «io», ad un’altra diversa dalla prima, caratterizzata dal prevalere della virtù, dove ogni cosa viene considerata sotto l’aspetto della complementarità e dove l’io cede il passo al «noi»; a questo punto, gli attributi manifestati dalle diverse nature si rafforzeranno a vicenda, rendendo possibile quell’armonia d’intenti necessaria per procedere spediti nell’opera comune. In un simile caso, si potrà quindi affermare che l’iniziale «opposizione» è stata ormai superata, operandosi la sua trasmutazione in «complementarità».

Non bisogna, tuttavia, ritenere con ciò che il traguardo sia stato raggiunto: come in qualche modo avevamo già anticipato all’inizio di questo studio si tratta in realtà di una tappa, sia pure importantissima e necessaria, ma una tappa soltanto lungo il corso della via massonica che porta all’unione fraterna, poiché, difatti, l’«unione» va ben oltre la «complementarità».

Ed è proprio per questo motivo che negli Antichi Doveri si giunge, alla fine, ad assimilare l’amore fraterno a una pietra da costruzione molto speciale, una pietra che, sia per la forma sia per la posizione che è destinata a occupare, è unica in tutto l’edificio: mi riferisco alla «chiave di volta», la cui posa sta a segnalare pure la conclusione, il «coronamento» vero e proprio dell’opera muratoria; collocata dall’alto, essa va a incunearsi nell’occhio della cupola o della volta, assicurando così, secondo le regole dell’arte, la massima solidità all’intera costruzione.

Capolavoro nel capolavoro, a un tempo fine dell’opera architettonica e principio della sua indistruttibilità, essa ne esprime la ragione ultima e come la sintesi di tutto l’operato.

Orbene, mettere in rapporto l’amore fraterno con ciò che viene raffigurato dalla «chiave di volta» implica verosimilmente la possibilità di una «esaltazione», non già soltanto virtuale, bensì pienamente effettiva, al di là di ogni forma, capace di trasporre colui che la realizza nella «perfetta unione» dove tutto diviene Uno.

Ancorché la lettura dei simboli costruttivi ci consenta di concepire una possibilità di questo genere, così estranea alla mentalità del mondo profano ma riscontrabile ovunque nelle tradizioni iniziatiche di cui abbiamo notizia, la sua presa in considerazione – se vuol essere seria -, pur senza perdere di vista l’estrema difficoltà che si trova a voler misurare dall’esterno un tale ordine di cose, richiederebbe quanto meno che ad essa facesse riscontro un qualche metodo che si dimostri, almeno in teoria, capace di favorire – per certi casi e in determinate circostanze – la sua messa in atto; altrimenti, bisognerebbe concludere che la questione si riduce a essere soltanto un «gioco di parole» più o meno ingegnoso che non porta da nessuna parte e che a null’altro serve se non a stimolare l’autocompiacimento ed a gonfiare il proprio «io».

Come può ben capirsi l’argomento introdotto è irto di difficoltà sotto più di un aspetto e una sua trattazione, per quanto succinta, comporterebbe sviluppi tali da evadere i limiti di questo studio, il quale peraltro deve avviarsi al suo termine. Ciò nonostante, forse potrà essere d’aiuto nel nostro caso rilevare quale sia l’indirizzo che in sostanza perseguono, in un modo o nell’altro, le diverse tecniche di realizzazione spirituale che si conoscono.

In generale, sia che si tratti di «meditazione» che di «contemplazione», o ancora di «invocazione», è possibile sostenere che ciò che viene invariabilmente favorito con tali mezzi non è altro che la «concentrazione». Che l’esercizio di mantenere sotto controllo la propria attenzione sia un modo per evitare di venire strattonati qua e là dagli stimoli derivanti dall’incessante e disordinato fluire dei pensieri, è una constatazione che chiunque – anche solo per qualche attimo – può fare da sé. Inoltre, è fuor di dubbio che una tale pratica sia in grado di assecondare e anche di accelerare quel «processo di demolizione» di cui parlavamo prima. Per ultimo, visto che la «concentrazione» viene metodicamente condotta sulla base di una simbologia di portata universale che cancella ogni volta dal campo di attività mentale qualsiasi riferimento alle cose sensibili, e tenendo conto che la frequenza della pratica può essere accresciuta fino a divenire abituale, anche senza scendere in maggiori particolari mi pare che sia possibile concepire come, al limite, essa possa disporre il soggetto nelle condizioni necessarie per permettere che si verifichi un cambiamento di mentalità tale per cui ogni cosa non venga più riferita alla propria individualità bensì alla sua vera origine.

In realtà, basta riesaminare con un po’ di attenzione le varie fasi abbozzate lungo questo studio per convenire coll’impossibilità pratica di emergere da un simile processo di purificazione nello stesso identico stato in cui si era al momento dell’entrata; così pure, quando tale processo sia stato spinto fino alle sue ultime conseguenze, non appare impossibile sperare che il cambiamento indotto raggiunga le caratteristiche di un capovolgimento nel modo di vedere le cose: in questo caso si sarà passati da una visione della realtà ancora relativamente frammentaria e individuale – dato che la complementarità non supera ancora la sfera formale – ad un’altra di ben diverso ordine. Questa metamorfosi intellettuale è proprio ciò che esprime, ad esempio, il termine greco «metànoia»: al di là di «nous», della mente individuale. Ma un simile passaggio, che nei confronti di chi si trova ad affrontarlo può, di fatto, assumere le sembianze di un pauroso salto nel buio, dov’è che conduce?

«Tutte le dottrine tradizionali – scrive René Guénon – mostrano come il mentale nell’uomo abbia una doppia sembianza, a seconda lo si consideri rivolto verso le cose sensibili, caso che è quello del mentale inteso nel senso abituale e individuale, o che si trasponga in un senso superiore, dove viene identificato con lo hêgêmon [la Guida o Maestro interiore] di Platone o con l’antaryâmî [l’Ordinatore interno] della tradizione indù; la metanoia è propriamente il passaggio cosciente dall’uno all’altro, da dove risulta in qualche modo la nascita di un “uomo nuovo”; e seppure sotto diverse formulazioni – ma che in realtà si equivalgono – tutte le tradizioni affermano all’unanimità la nozione e la necessità di tale metanoia». Codesto «Maestro interiore», che Platone identifica nella nostra «parte più divina» (theiòtatos), non è diverso dal nostro spirito o intelletto trascendente, il quale essendo d’ordine universale permette di conoscere tutte le cose in modo diretto nel dominio dei princìpi eterni ed immutabili.

Analogamente, se ci soffermiamo a considerare la struttura di un edificio terminato in una cupola, non si può non verificare che solo dall’alto dell’opera, ovverosia dal suo apice o «chiave di volta», diviene possibile una visione d’assieme altrettanto universale, capace di abbracciare i molteplici elementi che ne fanno parte.

Orbene, dato che nel nostro «processo di costruzione della fratellanza» l’equivalente di tale «chiave di volta» è ciò che nell’odierna Massoneria si chiama «perfetta unione», viene da chiedersi, arrivati a questo punto, se abbia senso parlare ancora di fratellanza, dal momento che, pur essendo vero che questa parola serve adeguatamente a esprimere quella tendenza verso l’unità che porta gli esseri a coagularsi nella ricerca del bene comune al di là di tutte quelle differenze che li separano, è comunque altrettanto incontrovertibile che, essendovi in essa un necessario riferimento alla molteplicità, appare certamente inadeguata a esprimere l’unità stessa, la quale non ammette nemmeno un’ombra di accenno alla separatività. Ragione d’essere della fratellanza, l’unità costituisce il principio che la determina e che in essa si rispecchia, nonché il fine ultimo verso il quale essa è ordinata. Proprio a causa di ciò in una massima sufica si dice: «I rapporti tra due fratelli non raggiungono la perfezione fin quando non si rivolgano l’uno all’altro dicendosi: oh, me stesso!»; difatti, in uno stato in cui l’intera molteplicità si vede nell’Unità, come potrebbero sussistere ancora delle distinzioni contrassegnate da un tu e un io?.

Con queste considerazioni dedicate alla fratellanza, materia che taluni, magari per ragioni di radicata familiarità con l’uso corrente del termine, liquidano frettolosamente come prodotto esclusivo della sfera sentimentale, in questo modo finendo per escluderla dalle questioni che collocano al centro del proprio interesse intellettuale – ciò che chiama alla memoria quella leggenda massonica riferita alla «chiave di volta», dove tale pietra viene scartata dai costruttori proprio perché essi non sono capaci di riconoscerla -, con queste considerazioni, dicevamo, speriamo d’aver contribuito a gettare un po’ di luce su di un altro tema, quello della realizzazione iniziatica, che manifestamente interessa a tutti coloro che non si accontentano del carattere virtuale dell’iniziazione ricevuta.

E per quanto sia vero che all’interno della Massoneria manca ormai da lungo tempo l’equivalente di quei mezzi a cui si accennava verso la fine di questo studio, ciò non vuol dire che si debba abbracciare la posizione di chi presume che la realizzazione spirituale sia il prodotto specifico dell’applicazione di una qualche specie di ricetta più o meno «magica»: vi è in tutto ciò una evidente confusione, dal momento che si attribuisce a un semplice mezzo il carattere di causa, quando quel che ci si può attendere da esso è che serva d’aiuto per porsi nelle condizioni richieste per raggiungere il fine perseguito; d’altro canto si dimentica altresì che in realtà non è affatto questione di produrre qualcosa che non esiste ancora ma, piuttosto, di giungere a prendere coscienza effettiva di ciò che già è e che giammai ha cessato di essere.

Per conto nostro, pur senza tralasciare di valutare l’incontestabile gravità della perdita subita, consideriamo sia di maggior costrutto dirigere l’attenzione sul fatto che una tale questione non intacca la prima parte del processo di purificazione che abbiamo esaminato e, se si tiene conto che, nella stragrande maggioranza dei casi, appare contraddittorio pensare di accedere direttamente alla realizzazione del fine ultimo senza dover passare prima per tutte quelle tappe collegate con le caratteristiche più specifiche di ogni individualità, non vediamo per quale ragione si debba rinunciare a mettere in pratica ciò di cui si dispone e che per se stesso richiede una capacità, un impegno e uno sforzo certamente considerevoli (fino al punto che ci si potrebbe chiedere quanti siano oggi gli aspiranti che posseggono le qualificazioni necessarie per portare a termine una simile impresa).

Concludendo, pensiamo che, invece di sperperare tempo e sforzi dietro le mille e una suggestioni che – malgrado quel che ognuno può credere – con ogni probabilità provengono esclusivamente dal desiderio incosciente di tutelare il proprio io dalla morte iniziatica, quei pochi che abbiano maturato l’intenzione sincera di impegnarsi in un processo di realizzazione spirituale faranno bene a cominciare, qui e ora, a dedicarsi per intero a combattere in se stessi la causa di tutte quelle contrapposizioni che scorgono nei loro rapporti con il mondo esteriore, le quali, se per un verso si manifestano come un fattore di divisione, per un altro verso invece costituiscono una effettiva opportunità per riuscire a superare i propri limiti, poiché, come dicono i Sûfî, «Se le creature sono i grandi veli che ci separano dal Creatore, la via che porta ad Allâh passa attraverso di esse».

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